2021-06-27
La nuova politica agricola della Ue dà all’Italia meno soldi e più rogne
Il nostro Paese si ritrova con 5 miliardi in meno e una burocrazia asfissiante, senza aver disinnescato la minaccia del nutriscore. Bruxelles è totalmente piegata alle logiche del «green», scontenti i coltivatori. Ci stanno per mollare il Pac-co? Domani e martedì i ministri agricoli si riuniscono per ratificare l'accordo raggiunto in extremis tra parlamento europeo e Commissione sulla nuova politica agricola comune che entra in vigore nel 2023 a segnalare l'ennesimo ritardo dell'elefante di Bruxelles che però nasconde un'altra fregatura per l'Italia. Avremo meno soldi e resta intatta la minaccia dell'etichetta a semaforo contro il nostro agroalimentare. Paolo De Castro, grande esperto prodiano che coordina in materia i socialisti e democratici europei, però non sta nella pelle: «Missione compiuta. L'accordo in parte salvaguarda le colture italiane; dà soddisfazione sull'etichettatura del vino e ammette la possibilità per Dop e Igp di programmare la produzione in base alla domanda.» Contenti tutti? Il solo che ha sorriso un po' è Dino Scanavino, presidente della Cia vincolato alla maggioranza Ursula, che però vuole subito i piani nazionali. Il compromesso raggiunto dopo tre anni è un pastrocchio. Però si sono letti titoli roboanti: 50 miliardi per l'agricoltura italiana. Servono a lisciare il pelo all'Europa, ma non a dire la verità. La prima è che l'Italia ci rimette. Avremo 34 miliardi a cui ne dobbiamo aggiungere di nostro altri 16/18 per cofinanziare lo sviluppo rurale; rispetto al precedente periodo abbiamo perso 5 miliardi. C'è inoltre un miliardo che balla legato al Recovery Fund che potremo non avere e mentre le risorse che l'Europa destina all'agricoltura si contraggono del 10% (passano dal 40 al 30 del bilancio comunitario: effetto Brexit) quelle che arrivano a noi sono il 15% in meno. Nessuno dei pericoli che minacciano il nostro agroalimentare è stato disinnescato. L'unico vero risultato positivo è che il negoziato chiuso sotto la presidenza di turno portoghese ha scongiurato che Franz Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, potesse far prevalere la sua visione ideologica. Per la prima volta da quando si discute di politica agricola la Commissione non si è presentata al tavolo con funzione tecnico/notarile, ma con un'idea in testa: l'oltranzismo ecologico. Ursula Von der Leyen ha dato mandato al Commissario all'agricoltura il polacco Janusz Wojciechowski ma ancora di più a Timmermans di legare la politica agricola al Green Deal che contiene il programma Farm to Fork quello per cui l'olio extravergine è veleno e la bevanda di piselli iperindustriale è sanissima. La dimostrazione che è così è l'aspra critica degli ultras verdi all'accordo. Dicono: manca il sostegno alle piccole aziende, si premia ancora il latifondo e l'allevamento intensivo, non c'è una vera prospettiva dell'agricoltura ambientalista. Il compromesso raggiunto - anche se non garantisce l'Italia - prevede tre pilastri: sostegno al reddito, sviluppo rurale e (questa è la vera novità) condizionalità sociale. Il reddito viene sostenuto con riguardo alle politiche ambientali, ci sono un po' di soldi in più per le piccole aziende, sullo sviluppo rurale tutto resta com'era e la condizionalità sociale premia le imprese che rispettano le leggi sul lavoro. Ovviamente aumenta il carico burocratico. Più che una politica comune è un sommario di buone intenzioni visto che Ursula Von der Leyen voleva di fatto liquidare l'agricoltura con la scusa del green. Che sia una scusa lo dimostra l'ennesimo rinvio sul glifosato (prodotto dalla Monsanto, proprietà della tedesca Bayer). Mentre in Europa l'erbicida dovrebbe essere messo al bando siccome la Monsanto ha presentato all'Efsa (l'ente sulla sicurezza alimentare) nuovi report Bruxelles dice: evitatelo sui campi del continente, ma importate pure prodotti trattati col glifosato. E' il solito strabismo di Bruxelles sempre attento a salvaguardare gli interessi delle multinazionali come dimostra anche il Nutri-score. Ora molto dipende dai piani di attuazione dei governi nazionali e il ministro Stefano Patuanelli deve disinnescare il richiamo al Green Deal altrimenti ci becchiamo l'etichetta a semaforo e sono dolori per il nostro agroalimentare che vale un quarto del Pil. Molto tiepide sono anche le maggiori organizzazioni agricole. Per Massimiliano Giansanti (Confagricoltura) «troppe scartoffie, troppe incertezze: non siamo soddisfatti» per Ettore Prandini (Coldiretti) «aspettiamo norme semplici, così non si riconosce lo sforzo d'innovazione fatto dagli agricoltori». Per paradosso si rischia che chi coltiva trovi più conveniente produrre per il biogas che non per l'alimentazione. Dice Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia: «La Pac annunciata è solo un elenco di titoli. Ci faccia sapere la Commissione - che ha avuto un approccio ideologico - l'impatto di Green Deal e Farm to Fork sulla produzione. C'è il fondato sospetto che l'Europa voglia importare prodotti, voglia favorire le altre agricolture; per risolvere il problema ambientale sono disposti a rinunciare al 20% della produzione! Se riusciamo a scongiurare il Farm to Fork e il Nutri-score, se l'accordo sulla condizionalità sociale servirà a eliminare il dumping che ci fanno anche grandi paesi comunitari sul lavoro agricolo, se si afferma l'idea che Dop e Igp sono prodotti di filiera e che per fare un prosciutto servono i maiali e per fare un formaggio il latte allora è una Pac accettabile anche se diventa di fatto la sommatoria delle politiche nazionali, altrimenti sarà fortemente penalizzante. E' il caso che qualcuno inizi a chiedere conto a Ursula Von der Leyen di cosa pensa davvero. La missione è tutt'altro che compiuta, non siamo neppure allo scampato pericolo».
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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