2019-06-07
La nuova moda fra i Vip è fare campagna a sostegno dell’aborto
Dalle griffe alle celebrità come Miley Cyrus e Sophie Turner tutti si schierano. E spesso rimediano clamorose figuracce.Il bioeticista fa chiarezza sulla vicenda della ragazza olandese «Hanno trovato un escamotage per rientrare nei limiti di legge».Lo speciale contiene due articoliIeri, su Repubblica, lo psicanalista Massimo Recalcati, ha pubblicato un bellissimo manifesto a favore della vita. Riflettendo sul caso di Noa Porthoven, la minorenne lasciata morire di fame e di sete nei Paesi Bassi, Recalcati ha scritto: «Non è forse compito degli adulti contrastare in ogni modo - anche attraverso le Leggi - la spinta alla morte, sia essa quella della violenza sia essa quella dell'autodistruzione?». Ha totalmente ragione: la cultura della morte andrebbe combattuta ovunque e in ogni modo, soprattutto perché continua a mietere vittime, anche fra i più giovani. Il problema, tuttavia, è che di questa cultura, ormai, è intriso il discorso collettivo. Battersi per la morte è diventato un punto cardine dell'ideologia progressista, quella che - ovviamente - spopola fra le celebrità e i personaggi più in vista del mondo dello spettacolo. Il pensiero dominante impone che le posizioni pro vita siano censurate e stigmatizzate. Le idee opposte, invece, meritano di essere promosse e diffuse. Non è un caso che l'ultima moda esplosa nel ristrettissimo universo dei Vip di livello internazionale riguardi proprio la promozione dell'aborto. Se non hai all'attivo uno spot o almeno una manifestazione pubblica a favore dell'interruzione di gravidanza non sei nessuno, dunque tutte le stelle e stelline corrono ad adeguarsi. Abbiamo visto, non molti giorni fa, la grottesca sfilata romana di Gucci che il direttore creativo della casa di moda, Alessandro Michele, ha voluto dedicare alla celebrazione della legge 194 e alla riproposizione di vetusti slogan femministi del tipo «il corpo è mio e lo gestisco io». Ora un altro stilista ha deciso di seguire la tendenza. Si tratta del celeberrimo Marc Jacobs, il quale è sceso in campo in compagnia della popstar Miley Cyrus. I due hanno realizzato una nuova linea di abbigliamento i cui proventi andranno a Planned Parenthood, la multinazionale americana del controllo delle nascite. I capi messi in vendita sulla Rete costano 175 dollari l'uno, sono rosa e ornati dalla scritta «Don't fuck with my freedom» (al netto della volgarità, significa più o meno «non scherzare con la mia libertà»). Direte: stilisti e cantanti sono liberissimi di esprimere le proprie idee. Certo, facciano pure. Il punto, però, è che nei casi di Gucci e di Jacobs non abbiamo a che fare con manifestazioni di idealismo, ma con l'affarismo allo stato pure. La sfilata di Alessandro Michele dedicata all'aborto, come ovvio, ha trovato spazio su tutti i giornali del mondo, con relativa ricaduta pubblicitaria sull'azienda produttrice. Stesso discorso per Marc Jacobs: formalmente egli non incassa nulla, ma vuoi mettere il ritorno d'immagine? In questo frangente, per altro, c'è un elemento in più. Miley Cyrus ha un disco in uscita, e infatti la frase che compare sulle magliette pro aborto è tratta da una delle sue nuove canzoni. Qui non si tratta di idee, di etica o di politica: si tratta soltanto di soldi e di visibilità. La campagna abortista della cara Miley, inoltre, presenta un risvolto davvero ridicolo. Per annunciare l'uscita della linea di abbigliamento «impegnata», la cantante ha pubblicato su Instagram una delle sue foto presunte trasgressive. L'immagine la mostra con la lingua di fuori, nella consueta posa sessualmente ammiccante, mentre si appresta a leccare una coloratissima torta. Sul dolce è scritto a caratteri cubitali: «Abortion is healthcare». Ovvero: «L'aborto è assistenza sanitaria». Chiaramente è una mistificazione, visto che l'aborto non è una cura contro una malattia. Ma c'è di più: Miley ha copiato la torta a una pasticcera femminista chiamata Becca Rea-Holloway. La quale si è piuttosto risentita, manifestando il suo sdegno sui social. Che furbastri, i nostri militanti abortisti: cianciano di diritti umani poi rubano il lavoro degli altri. Succede più o meno a Hollywood. Circa 50 attori hanno annunciato che non lavoreranno più negli Stati che hanno adottato legislazioni restrittive sull'interruzione di gravidanza, ad esempio la Georgia. Che bravi, i difensori della nobile causa: firmano appelli per far parlare di sé e chi se ne frega se faranno perdere tantissimi posti di lavoro nell'industria locale del cinema. Già: le donne con il loro corpo possono fare quello che vogliono, ma se vengono licenziate poco male... Anche qui c'è poi il risvolto grottesco. Sophie Turner, una delle protagoniste di Game of Thrones nonché del nuovo film degli X Men, si è vantata del suo boicottaggio pro aborto contro la Georgia. Persino i giornali di sinistra, tuttavia, le hanno fatto notare che - per 10 anni - ha girato una serie tv in Irlanda del nord, dove le leggi sull'aborto sono ancora più restrittive. A quanto pare, quando l'aborto non era la moda del momento, la brava Sophie se ne infischiava allegramente. Adesso, invece, pare che la morte sia diventata molto chic. Quella degli altri, ovviamente: quella dei più deboli e degli indifesi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-nuova-moda-fra-i-vip-e-fare-campagna-a-sostegno-dellaborto-2638719545.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-morte-di-noa-e-un-caso-di-eutanasia-ma-niente-guai-per-medici-e-genitori" data-post-id="2638719545" data-published-at="1758195442" data-use-pagination="False"> «La morte di Noa è un caso di eutanasia. Ma niente guai per medici e genitori» Tommaso Scandroglio, giurista, è uno dei maggiori esperti italiani di bioetica. Abbiamo chiesto aiuto a lui per fare chiarezza nella confusa nube di informazioni che si è creata sul caso di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che si è lasciata morire di stenti sotto gli occhi dei genitori e dei medici. I media all'unisono ripetono che non si è trattato di eutanasia né di suicidio assistito. Eppure lei aveva annunciato giorni prima che sarebbe morta, e a quanto sembra ha avuto la collaborazione dei dottori. «È vero che rimangono misteriosi alcuni particolari di questa vicenda. È vero anche che non è stato affrontato il protocollo legale per l'eutanasia. Noa si è lasciata morire. Sappiamo che erano presenti dei medici. E sappiamo, da quello che lei stessa ha scritto, che non provava dolore. Dunque è molto probabile che le siano state somministrate cure palliative e terapie antalgiche. Nei fatti si tratta di aiuto al suicidio. E l'aiuto al suicidio è un atto eutanasico. Poi si può giocare con le parole, come fa Marco Cappato, ma nei fatti è un atto di eutanasia». È possibile in Italia lasciarsi morire in questo modo? «Anche in Italia sarebbe possibile, perché nessuno può essere costretto ad assumere liquidi e sostanze nutritive». Anche nel caso di un minorenne? «Nel nostro Paese, quando il paziente è minorenne, decidono i genitori. Da quello che si è capito, nel caso di Noa i genitori erano dissenzienti e pare abbiano fatto di tutto per tenerla in vita. Dunque, forse, con la legge italiana che prevede il consenso genitoriale non sarebbe morta. Avrebbe comunque aspettato un anno, sarebbe diventata maggiorenne, e sarebbe morta dopo». Torniamo allora allo specifico della legge italiana. «In Italia, anche prima della legge 219 del 2017 - quella sulle Dat - era possibile lasciarsi morire di fame e di sete, , almeno e con certezza in alcuni casi. Ad esempio se il paziente necessitava di Peg, una tecnica che consente la nutrizione enterale, sarebbe stato indispensabile, come oggi, insufflare lo stomaco e praticare una incisione nell'addome per inserire l'ago-cannula, tutte operazioni che, come tali, richiedevano e richiedono il consenso del paziente. Per le ragazze anoressiche che spesso affrontano situazioni di questo tipo si poteva - e si può ancora - richiedere un trattamento sanitario obbligatorio onde non lasciarle morire». Sulla nutrizione, però, c'è stato in passato un grande dibattito. «Sì, prima del 2017 la querelle riguardava appunto cibo e acqua. Ci si chiedeva se fossero o meno da considerare terapie. dal punto di vista giuridico: se lo fossero state il paziente, per legge, poteva rifiutarle. La discussione si imperniava soprattutto sulle differenti tecniche per idratare e nutrire. La legge 219 ha spazzato via ogni dubbio e ha stabilito che sono terapie, quindi possono essere rifiutate. Una persona oggi ha diritto a lasciarsi morire e ad essere accompagnata con cure palliative. In questa prospettiva, la nostra legge è perfino più liberale di quella olandese». In che senso? «Tutte le persone che dipendono per vivere da alcuni macchinari possono decidere di essere staccate da questi presidi vitali. Tutti oggi, dunque, possono decidere di rifiutare nutrizione e idratazione assistite. La nostra legge è più liberale nel senso che non sono previste condizioni particolari. Non devi essere malato terminale o soffrire in modo insopportabile. Non è però permesso l'aiuto al suicidio, per questo Marco Cappato sottoposto a processo per il caso di Dj Fabo, tempo fa è riuscito a far sollevare, da parte dei giudici di Milano, eccezione di incostituzionalità in merito al reato di aiuto al suicidio». Il comportamento dei genitori di Noa può essere considerato un aiuto al suicidio? «I genitori di Noa hanno permesso ai medici di sedarla profondamente o comunque di somministrarle cure palliative. Pare che abbiano cercato in ogni modo di farle cambiare idea, come dicevo. Forse potrebbe trattarsi di aiuto al suicidio indiretto. In ogni caso, per loro non ci saranno conseguenze». Nemmeno per il fatto che la figlia era minorenne? «Come dicevo, in Italia per i minorenni decidono i genitori. Prima del 2017, un minorenne, in punta di diritto, doveva comunque essere curato, anche se i genitori non volevano. Ma con la legge 219 sono loro a decidere. L'Olanda, però, prevede l'eutanasia anche per i minori, a partire dai 12 anni. E dai 16 anni in su non serve nemmeno il consenso dei genitori. Vero, nel caso di Noa è stato rifiutato l'iter legale, ma nella sostanza non cambia niente. Dunque penso proprio che né i medici né i genitori avranno conseguenze legali». Di fatto, insomma, è stato trovato un escamotage legale che permettesse comunque una forma di eutanasia. «Sì, di fatto è così. Noa voleva morire in clinica, ma le hanno detto di no. Voleva sottoporsi a suicidio assistito, che è sicuramente meno doloroso rispetto alla morte per stenti. Ma non glielo hanno permesso. Quindi ha trovato un altro modo per morire». Sempre con il sostegno dei medici e di fronte agli occhi della famiglia. Se ci fosse una legge che impone ai minori di essere curati, tuttavia, non sarebbe morta. «Certo, la situazione sarebbe stata molto diversa».
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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