2022-08-07
La minaccia atomica mai stata così vicina. Diplomazia in crisi
Albert Einstein (Photo by Hulton Archive/Getty Images)
La drammatica esperienza di Hiroshima non ha insegnato nulla. Oggi la politica della mediazione è stata sostituita dall’insulto.Benché pochi se ne accorgano, una guerra mondiale è un’eventualità sempre più probabile. Qualche giorno fa il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, in occasione della Decima conferenza del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, ha dichiarato: «Siamo stati finora straordinariamente fortunati. Ma la fortuna non è una strategia. Né è uno scudo contro le tensioni geopolitiche che sfociano nel conflitto nucleare».Nell’agosto del 1945 gli Usa sganciarono due bombe nucleari sul Giappone.Dopo la prima, quella del 6 agosto, la Bbc inglese annunciò che l’atomica era stata «lanciata su una base militare giapponese». In verità colpì la città di Hiroshima, causando una incredibile quantità di morti. Qualche giorno più tardi, il 9 agosto, un’atomica al plutonio colpì anche Nagasaki, un altro obiettivo civile, non militare.Per entrambe le bombe si spiegò al mondo che erano servite a costringere il Giappone alla resa incondizionata, ponendo così fine alla guerra. Sappiamo invece che il Giappone «cercava una mediazione russa per arrivare a chiudere la guerra», e che la diplomazia sarebbe potuta arrivare a quel risultato, se lo avesse voluto, in poco tempo, senza l’uso dell’atomica.Intervistato anni più tardi, sir Joseph Rotblat, un fisico coinvolto nel Progetto Manhattan, ebbe a ricordare: «Le prove dimostrano che i giapponesi erano pronti ad arrendersi, ma Truman rigettò le loro aperture, perché la distruzione delle città giapponesi era necessaria per dimostrare ai sovietici la nuova potenza militare degli Stati Uniti».Sono passati 77 anni e siamo ancora lì, allo scontro tra Stati Uniti e Russia.Solo che le atomiche di un tempo, fanno ridere rispetto alle armi di distruzione di massa di oggi e nel frattempo Hiroshima e Nagasaki sono quasi sparite dai nostri ricordi e sembrano appartenere ad un passato quasi mitico.All’indomani di quelle due immani tragedie, però, politici e scienziati cominciarono a ragionare sulla possibilità concreta che l’umanità si autodistruggesse con le proprie stesse mani. Personalità come Robert Oppenheimer, il fisico che aveva diretto il Progetto Manhattan, denunciarono la follia del proprio operato in innumerevoli occasioni private e pubbliche, con dichiarazioni del genere: «Ogni volta che l’Occidente, e più particolarmente il mio Paese, ha espresso l’opinione che era legittimo impiegare armi di distruzione di massa, a condizione che fossero contro un avversario che ha fatto qualcosa di male, siamo stati in errore. E penso che la nostra mancanza di scrupoli- che si è sviluppata storicamente durante la seconda guerra mondiale, in ragione del suo carattere totale e della crescente indifferenza dei dirigenti - ha gravemente nuociuto alla causa della libertà e a quella degli uomini liberi». Negli stessi anni Albert Einstein, che era scappato dalla Germania nazista e non nutriva alcuna simpatia per l’Urss, dichiarava: «Devo francamente confessare che la politica estera degli Stati Uniti dalla cessazione delle ostilità mi ha ricordato, in modo irresistibile, l’atteggiamento della Germania sotto il Kaiser Guglielmo II, e so che la stessa analogia è venuta in mente con acuto dolore anche ad altri, indipendentemente da me. È tipico della mentalità militarista considerare essenziali i fattori non-umani (bombe atomiche, basi strategiche, armi di ogni sorta, il possesso di materie prime ecc.) e ritenere invece trascurabile e secondario l’essere umano, i suoi desideri e pensieri, in breve i fattori psicologici. Qui si riscontra una rassomiglianza con il marxismo, almeno finché se ne tiene unicamente presente il lato teorico. L’individuo è degradato a mero strumento; egli diventa “materiale umano”».Siamo così passati attraverso la guerra fredda scongiurando più volte il rischio di una catastrofe spaventosa. Questo certamente anche grazie a politici e scienziati memori di Hiroshima e Nagasaki, e all’opera, silenziosa ma infaticabile, della Santa Sede, che per decenni attraverso la sua diplomazia e la Pontificia Accademia delle Scienze ha riunito e coordinato premi Nobel della fisica, della medicina ecc. per scongiurare il rischio atomico.Per capire l’atteggiamento degli uomini di allora, cito brevemente la vicenda di Jerome Lejuene, medico, padre della citogenetica, esperto della Francia presso il Comitato scientifico delle Nazioni Unite sugli effetti delle radiazioni atomiche e, soprattutto, inviato del Vaticano in Urss nel 1981 per incontrare Breznev. «All’epoca», ricorderà l’anticomunista Lejuene anni più tardi, «russi e americani gareggiavano in un’inimmaginabile guerra tecnologica per divenire la prima potenza atomica. Era una specie di corsa agli armamenti che, del resto, ha dissanguato l’economia sovietica. Rigido come la giustizia, malato e ormai impotente, Breznev mi riceve con incredibile fasto ed un cerimoniale degno degli zar. Sul suo volto impassibile scorgo un bagliore di complicità mentre leggo il messaggio del Papa Giovanni Paolo II… Dopo aver letto un discorso formale, mi rivolge parole di pace, come un uomo che non aspira che al riposo».A leggere questi ed altri ricordi si scopre che allora il mondo era seduto sull’abisso, ma molti, anche i peggiori, se ne rendevano conto: nessuno riteneva di farsi bello definendo un altro capo di Stato, «peggio di un animale», come ha fatto il nostro ministro degli esteri Luigi Di Maio; nessuno si vantava di poter fermare la guerra spegnendo i condizionatori o contribuendo a portare avanti un crescendo continuo di sanzioni, insulti, minacce, provocazioni…, in un clima logorato da tutte le inutili e folli avventure belliche posteriori alla caduta del muro (dall’Iraq alla Serbia, dalla Siria alla Libia).
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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