2021-03-26
La Merkel apre, invece Speranza ci vuole rinchiusi fino a maggio
Roberto Speranza (Samantha Zucchi/Insidefoto/Mondadori Portfolio via Getty Images)
È passato un anno dal giorno in cui, al termine del consiglio dei ministri che varò il decreto Cura Italia, Giuseppe Conte sentenziò che si poteva parlare di un modello italiano, «non solo per la strategia di contrasto, ma anche per la strategia di risposta economica all'epidemia di coronavirus». Da allora, la favola di un Paese da prendere a esempio, per come era riuscito a contenere la pandemia e a far ripartire l'azienda Italia, è rimbalzata da una testata all'altra, qualche volta anche con l'aiuto dei corrispondenti della stampa straniera i quali, abbeverandosi quasi sempre ai luoghi comuni dei giornaloni italiani, finiscono per diventarne il megafono estero. Così il New York Times ha scritto ad agosto dello scorso anno un articolo in cui si sosteneva che il nostro governo avrebbe potuto dare lezioni al mondo. E ai primi di settembre, il quotidiano di Monaco SuddeutscheZeitung si accodava alla narrazione della coppia Conte-Casalino copiando senza alcuna variazione il concetto dell'Italia come modello. Il Blog delle stelle, cioè il sito di Beppe Grillo, poteva rimanere insensibile a simili lodi? Ovviamente no e infatti, alla fine dell'estate, pubblicò un articolo dal titolo «Il mondo ce lo riconosce: il modello italiano contro la pandemia funziona». Le date in questa faccenda ovviamente sono da tenere d'occhio, perché quando Conte gonfiò il petto in quella che era una delle sue prime conferenze stampa nell'era Covid, i contagiati da coronavirus erano meno di 28.000 e i morti 2.158. A settembre, quando ancora in molti credevano di averla scampata e Roberto Speranza, ministro della Salute, si autocelebrava in un libro dando per sicuro che presto saremmo guariti, i contagiati in Italia erano poco più di 300.000 e i morti 35.000, quasi la metà dei quali in Lombardia. Ecco, 70.000 morti fa, secondo Conte e compagni, il nostro Paese era un modello da portare come esempio in tutto il mondo. Ma lo storytelling della premiata ditta di pr guidata da Tarocco Casalino (copyright Dagospia) era destinato a infrangersi contro una realtà ben più drammatica, che ieri presentava questo bilancio: quasi 3 milioni e mezzo di contagiati, 106.000 morti. Una strage, che certo non può essere un esempio per nessuno. Prova ne sia che ora anche i giornali stranieri che si erano fatti abbindolare dalla facile narrazione del governo giallorosso, cominciano a prendere le distanze. In un'inchiesta dedicata al nostro Paese, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di errori e insabbiamenti, descrivendo senza indulgenze le negligenze dell'esecutivo. «Le accuse sono pesanti: l'Italia avrebbe reagito troppo tardi e male. Il Paese è stato sopraffatto perché i piani di crisi erano desueti e inadeguati». «Non si tratta più di casi singoli», conclude l'articolo, «ma di un fallimento complessivo e di insabbiamento». Qualcuno potrebbe obiettare che ogni Paese ha commesso errori, in quanto nessuno era davvero preparato a fronteggiare un'epidemia globale. Il che è vero, ma alcuni dopo aver sbagliato hanno reagito, riuscendo a contenere gli effetti della pandemia, sia dal punto di vista sanitario che da quello economico. Non pensiamo solo agli Stati Uniti, a Israele e alla Gran Bretagna, dove pure in principio i governanti hanno dato l'impressione di aver perso il controllo della situazione, salvo poi riprendersi e impegnarsi in una straordinaria campagna vaccinale. Pensiamo al resto d'Europa, dove le strategie messe in campo, dal Portogallo alla Grecia, sembrano dare migliori risultati. Anche in Germania, dove pure l'opinione pubblica si sta dimostrando scontenta per come Angela Merkel ha affrontato il coronavirus, le cose vanno meglio che da noi. Si dirà: ma l'attuale governo si è insediato da poco e se ci sono colpe se le deve prendere il predecessore di Mario Draghi. Anche questo è vero, ma solo in parte, perché il ministro della Salute è lo stesso di prima e, benché il presidente del Consiglio abbia sostituito il commissario all'emergenza e il capo della Protezione civile, a guidare la task force che dovrebbe condurci fuori dal pantano è sempre Roberto Speranza. Il quale non solo ha sbagliato tutte le previsioni che si potevano sbagliare, cantando vittoria quando la guerra non era che all'inizio, ma per fronteggiare il Covid continua a riproporre le sole misure che conosce, ovvero drastici quanto spesso inutili divieti. Certo che chiudere sotto chiave gli italiani, impedendo loro di uscire, e sospendere ogni attività contribuisce a ridurre i contagi. Ma si tratta di una misura estrema che può essere mantenuta per un periodo breve, perché poi gli italiani devono pur vivere e lavorare per mantenersi. In Germania, dove hanno imposto un blocco duro, lo Stato ha fatto la sua parte, risarcendo chi è stato costretto a chiudere la propria impresa. Da noi, invece, i risarcimenti si limitano alle briciole. Non solo: la cancelliera di ferro è stata costretta a cedere, rinunciando al lockdown di fronte alla reazione dell'opinione pubblica. In Italia, dove i rimborsi per qualche lavoratore rasentano l'elemosina, si pensa invece di vietare tutto fino a maggio. E le persone che lo propongono sono le stesse che da un anno ci parlano di modello Italia, ovvero i compagni. I quali, come sempre hanno fatto nella storia, sono maestri in una sola specialità: scaricare le proprie colpe sulle spalle degli altri. In questo caso gli italiani.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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