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2022-04-09
La linea vaticana: «Inviare armi? Terribile»
Per quanto si tenti di arruolare papa Francesco in una parte precisa, quella accanto al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, rispetto alla guerra in Ucraina la Chiesa continua ad avere una sola pozione: quella di contrarietà al conflitto e di ricerca di negoziati che possano portare alla cessazione delle ostilità; e questo senza alcuna concessione alle armi, il cui generoso invio all’esercito di Kiev per combattere i soldati di Putin è, da ormai settimane, la linea politica europea e americana.
Che questo sia l’orientamento della Santa Sede, decisa così a non prendere le parti di alcun contendente, è stato suffragato nelle scorse ore da almeno un paio di posizioni di assoluto rilievo ecclesiale. Anzitutto, meritano d’essere sottolineate le parole, riprese ieri sulla Stampa, del segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, il quale si è anzitutto pronunciato sulla possibilità di un viaggio del pontefice in Ucraina, scenario che non si può escludere ma, ha precisato il porporato, «ci devono essere le condizioni» adeguate. «Da parte ucraina sembrano esserci», ha inoltre aggiunto Parolin, «perché è stata data ampia assicurazione che non ci sarebbero pericoli. E si fa riferimento anche ai vari viaggi che sono stati fatti da altri leader e che si faranno. Quindi questa visita alla fine si può fare». Tuttavia, ha voluto sottolineare ulteriormente il cardinale, «certamente il Papa non andrebbe a Kiev per prendere posizioni né a favore dell’uno né in favore dell’altro, come ha sempre fatto».
Considerando quanto i leader politici occidentali facciano quasi a gara, da settimane, per dichiarare la propria vicinanza al presidente Zelensky, quella del segretario di Stato Vaticano è una puntualizzazione di peso. E che vale sia per ciò che farà papa Bergoglio, per il quale si parla di un possibile incontro con patriarca di Mosca, Kirill, in Libano, sia per la visita che, sempre a Kiev, potrebbe fare a breve il «ministro degli Esteri» vaticano, monsignor Paul Richard Gallagher.
Non è finita. Per chiarire meglio la propria posizione, dialogando col portale cattolico Aci Stampa, il Segretario di Stato ha sottolineato la propria preoccupazione per la politica, ampiamente sposata anche dal governo italiano, dell’invio di armamenti in Ucraina. «Vedo molti che inviano armi», sono per l’esattezza state le parole di Parolin, che ha aggiungo: «Questo è terribile da pensare, potrebbe provocare una escalation che non si potrà controllare».
Un’altra conferma di quale sia la linea del Vaticano rispetto al conflitto iniziato lo scorso 24 febbraio si è avuta, ieri mattina, con le parole dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, intervenuto all’incontro organizzato dall’istituto Salvemini su questo tema, al quale erano presenti anche due studenti ucraini scappati dal loro Paese e accolti a Bologna, che oggi frequentano quella scuola.
Ebbene, Zuppi, molto vicino a papa Francesco e da alcuni considerato papabile in un futuro conclave, ha bocciato apertamente la corsa al riarmo («è la cosa peggiore che possiamo fare»), senza peraltro far sconti al Cremlino. «Non c’è mai alcuna giustificazione per la guerra», ha infatti chiarito il porporato, aggiungendo che «si può forse discutere se la Russia avesse qualche ragione, ma ora le ha perse tutte facendo quello che ha fatto. Perché è un massacro e basta».
Se ogni guerra è assurda, il cardinale di Bologna ha fatto presente come quella in corso lo sia doppiamente, anche per ragioni religiose. «È una guerra tra cristiani», ha ricordato Zuppi, a detta del quale «questa è una cosa che dispiace ancora di più» dato che, se nessun conflitto è giustificabile, «tra cristiani, noi che abbiamo uno che ha detto che dobbiamo amare i nemici, è una vera bestemmia». Perciò, ha chiosato l’arcivescovo riferendosi al conflitto, «dobbiamo trovare il modo perché finisca quanto prima». Ma quel modo non contempla il fatto di armare ulteriormente gli ucraini. «Certo», ha spiegato Zuppi, «c’è un problema puntuale oggi che riguarda l’Ucraina e che si riassume nel diritto alla difesa. Che è una cosa. Ma correre al riarmo no».
Che dire, se non che sono considerazioni sovrapponibili, nel loro significato, a quelle del cardinale Parolin, che a sua volta, per ovvie ragioni legate al suo ruolo, è portavoce del pensiero di papa Francesco. Tuttavia sono decenni, almeno dalla Guerra fredda, che la Santa Sede ha compreso che ogni conflitto di questi anni, oltre a mietere vittime innocenti, si trascina dietro l’ombra più inquietante: quella della catastrofe nucleare.
Quello che insomma si rischia, per dirla con quanto denunciò papa Giovanni Paolo II nel 1991, in occasione del centenario della Rerum novarum, è una guerra che «può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità». Anche per questo papa Francesco e i cardinali a lui più vicini, pure a costo di scontentare i governanti occidentali, restano sulla loro linea di contrarietà ad ogni invio di armi e di ricerca della pace. Quella vera.
Da Katyn a Bucha: se l’orrore finisce nel tritacarne delle bugie di guerra
Bucha, diventata la capitale mondiale dell’orrore con le sue fosse comuni e le strade ricoperte di morti, è a qualche centinaio di chilometri dal villaggio di Gnezdovo, sobborghi di Smolensk, Russia europea. Qui, nel 1943 furono scoperte le fosse di Katyn e 22.000 cadaveri di polacchi ammazzati con un colpo alla nuca. Ventiduemila. Ufficiali, giornalisti, politici; 7.000 venivano dalle prigioni dell’Ucraina e della Biellorussia. Praticamente una buona parte della classe dirigente. La scoperta fu fatta dai tedeschi e siccome i nazisti erano brutti, sporchi e cattivissimi la colpa per anni fu data a loro. Poi una commissione internazionale sotto l’egida della Croce rossa accertò che la mattanza era opera dei sovietici, dell’Nkvd, l’antesignano del Kgb, per ordine di Stalin, pianificata per schiacciare ogni identità nazionale.
Le atrocità di oggi in Ucraina affondano nelle atrocità di ieri. Hanno origine nei nodi irrisolti della seconda guerra mondiale. E Toni Capuozzo, cui va tutta la solidarietà, diventato bersaglio solo per aver messo in dubbio la sequenza dei fatti, è la prova che anche noi ormai siamo sprofondati nella guerra. In queste faccende per avere la verità, di solito una verità parziale, ci vogliono anni.
Nell’aprile del 1943, durante l’invasione nazista dell’Urss, su segnalazione di alcuni contadini nella foresta di Katyn le truppe tedesche scoprirono le prime fosse. Radio Berlino diede la notizia il 13 aprile 1943, chiamando in causa i sovietici. Già, perché quei territori in precedenza erano stati occupati dall’Armata Rossa, in base all’accordo Ribentropp-Molotov di spartizione del Paese tra Berlino e Mosca. C’era però un problemino. Tutte le vittime risultavano uccise da un colpo alla nuca, le mani legate dietro alla schiena, con proiettili esplosi da pistole Walther Ppk: armi e munizioni inesorabilmente di fabbricazione tedesca. In base alle divise degli ufficiali trucidati, analisi dei corpi, eccetera, la commissione internazionale stabilì tuttavia che l’eccidio era avvenuto prima, nei primi mesi del 1940, quando appunto c’erano i sovietici. Le armi e i proiettili tedeschi erano stati utilizzati proprio per far ricadere la colpa sui soldati della Wermacht.
Dalla documentazione emersa, solo una parte, risulta che fin dal giorno dopo l’invasione tedesca della Polonia il 19 settembre 1939, nella spartizione del Paese, l’Urss aprì campi di concentramento e carceri in Ucraina e Biellorussia dove internare i «nemici del popolo». Il 5 marzo 1940 Lavrentij Beria, il capo della polizia segreta sovietica, con un ordine che per li rami della catena gerarchica arrivava al dittatore Josif Stalin, diede il via allo sterminio di «nazionalisti e controrivoluzionari». Il massacro andò avanti con cadenza industriale per settimane; unico giorno di pausa il 1° maggio. Anche quello dei boia è un lavoro.
Insomma, i russi in queste cose hanno il know how. Consolidato. E possiamo capire meglio gli orrori dell’Ucraina di oggi..
Quanto ai processi e alle corti internazionali, non è il caso di avere troppe aspettative. Al processo di Norimberga il pubblico ministero capo Roman Rudenko, in rappresentanza dell’Unione sovietica, per Katyn accusò la Germania e riuscì perfino ad estorcere qualche confessione. A Stati Uniti e Gran Bretagna, che coprirono in tutto e per tutto Mosca, dovette sembrare eccessivo e la cosa finì lì. Nessuno ha mai pagato per quei 22.000 morti.
Solo nel 1990 Gorbaciov ha ammesso le responsabilità sovietiche e ha chiesto scusa alla Polonia. Con Eltsin furono desegretati in parte – molto in parte - i documenti. Il 10 aprile 2010 a Smolensk avrebbe dovuto tenersi una solenne commemorazione delle vittime con le massime autorità polacche e russe insieme. Come riconciliazione definitiva. Non si è mai tenuta. In fase di atterraggio si è schiantato sulla pista il Tupolev presidenziale dell’Aeronautica polacca, con il vicepresidente della Polonia Lech Kaczynski e 95 persone. Tutti morti. Per Mosca e Putin è stato un incidente (i resti dell’aereo ce li hanno loro), per la Polonia un attentato. Adesso forse è più chiaro perché Varsavia è la più decisa nel sostenere Kiev.
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Anche se in molti provano ad arruolare il Papa nella crociata anti russa, il segretario di Stato, Pietro Parolin, ribadisce: «Il Pontefice potrebbe andare a Kiev, ma non per sostenere una delle parti». Il cardinale Matteo Zuppi: «Il riarmo è la cosa peggiore da fare».Da Katyn a Bucha: se l’orrore finisce nel tritacarne delle bugie di guerra. I conflitti sono anche lotte tra propagande opposte, come nel caso della strage del 1943. Lo speciale comprende due articoli.Per quanto si tenti di arruolare papa Francesco in una parte precisa, quella accanto al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, rispetto alla guerra in Ucraina la Chiesa continua ad avere una sola pozione: quella di contrarietà al conflitto e di ricerca di negoziati che possano portare alla cessazione delle ostilità; e questo senza alcuna concessione alle armi, il cui generoso invio all’esercito di Kiev per combattere i soldati di Putin è, da ormai settimane, la linea politica europea e americana.Che questo sia l’orientamento della Santa Sede, decisa così a non prendere le parti di alcun contendente, è stato suffragato nelle scorse ore da almeno un paio di posizioni di assoluto rilievo ecclesiale. Anzitutto, meritano d’essere sottolineate le parole, riprese ieri sulla Stampa, del segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, il quale si è anzitutto pronunciato sulla possibilità di un viaggio del pontefice in Ucraina, scenario che non si può escludere ma, ha precisato il porporato, «ci devono essere le condizioni» adeguate. «Da parte ucraina sembrano esserci», ha inoltre aggiunto Parolin, «perché è stata data ampia assicurazione che non ci sarebbero pericoli. E si fa riferimento anche ai vari viaggi che sono stati fatti da altri leader e che si faranno. Quindi questa visita alla fine si può fare». Tuttavia, ha voluto sottolineare ulteriormente il cardinale, «certamente il Papa non andrebbe a Kiev per prendere posizioni né a favore dell’uno né in favore dell’altro, come ha sempre fatto». Considerando quanto i leader politici occidentali facciano quasi a gara, da settimane, per dichiarare la propria vicinanza al presidente Zelensky, quella del segretario di Stato Vaticano è una puntualizzazione di peso. E che vale sia per ciò che farà papa Bergoglio, per il quale si parla di un possibile incontro con patriarca di Mosca, Kirill, in Libano, sia per la visita che, sempre a Kiev, potrebbe fare a breve il «ministro degli Esteri» vaticano, monsignor Paul Richard Gallagher.Non è finita. Per chiarire meglio la propria posizione, dialogando col portale cattolico Aci Stampa, il Segretario di Stato ha sottolineato la propria preoccupazione per la politica, ampiamente sposata anche dal governo italiano, dell’invio di armamenti in Ucraina. «Vedo molti che inviano armi», sono per l’esattezza state le parole di Parolin, che ha aggiungo: «Questo è terribile da pensare, potrebbe provocare una escalation che non si potrà controllare».Un’altra conferma di quale sia la linea del Vaticano rispetto al conflitto iniziato lo scorso 24 febbraio si è avuta, ieri mattina, con le parole dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, intervenuto all’incontro organizzato dall’istituto Salvemini su questo tema, al quale erano presenti anche due studenti ucraini scappati dal loro Paese e accolti a Bologna, che oggi frequentano quella scuola. Ebbene, Zuppi, molto vicino a papa Francesco e da alcuni considerato papabile in un futuro conclave, ha bocciato apertamente la corsa al riarmo («è la cosa peggiore che possiamo fare»), senza peraltro far sconti al Cremlino. «Non c’è mai alcuna giustificazione per la guerra», ha infatti chiarito il porporato, aggiungendo che «si può forse discutere se la Russia avesse qualche ragione, ma ora le ha perse tutte facendo quello che ha fatto. Perché è un massacro e basta».Se ogni guerra è assurda, il cardinale di Bologna ha fatto presente come quella in corso lo sia doppiamente, anche per ragioni religiose. «È una guerra tra cristiani», ha ricordato Zuppi, a detta del quale «questa è una cosa che dispiace ancora di più» dato che, se nessun conflitto è giustificabile, «tra cristiani, noi che abbiamo uno che ha detto che dobbiamo amare i nemici, è una vera bestemmia». Perciò, ha chiosato l’arcivescovo riferendosi al conflitto, «dobbiamo trovare il modo perché finisca quanto prima». Ma quel modo non contempla il fatto di armare ulteriormente gli ucraini. «Certo», ha spiegato Zuppi, «c’è un problema puntuale oggi che riguarda l’Ucraina e che si riassume nel diritto alla difesa. Che è una cosa. Ma correre al riarmo no».Che dire, se non che sono considerazioni sovrapponibili, nel loro significato, a quelle del cardinale Parolin, che a sua volta, per ovvie ragioni legate al suo ruolo, è portavoce del pensiero di papa Francesco. Tuttavia sono decenni, almeno dalla Guerra fredda, che la Santa Sede ha compreso che ogni conflitto di questi anni, oltre a mietere vittime innocenti, si trascina dietro l’ombra più inquietante: quella della catastrofe nucleare.Quello che insomma si rischia, per dirla con quanto denunciò papa Giovanni Paolo II nel 1991, in occasione del centenario della Rerum novarum, è una guerra che «può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità». Anche per questo papa Francesco e i cardinali a lui più vicini, pure a costo di scontentare i governanti occidentali, restano sulla loro linea di contrarietà ad ogni invio di armi e di ricerca della pace. Quella vera. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-linea-vaticana-inviare-armi-terribile-2657124919.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="da-katyn-a-bucha-se-lorrore-finisce-nel-tritacarne-delle-bugie-di-guerra" data-post-id="2657124919" data-published-at="1649447137" data-use-pagination="False"> Da Katyn a Bucha: se l’orrore finisce nel tritacarne delle bugie di guerra Bucha, diventata la capitale mondiale dell’orrore con le sue fosse comuni e le strade ricoperte di morti, è a qualche centinaio di chilometri dal villaggio di Gnezdovo, sobborghi di Smolensk, Russia europea. Qui, nel 1943 furono scoperte le fosse di Katyn e 22.000 cadaveri di polacchi ammazzati con un colpo alla nuca. Ventiduemila. Ufficiali, giornalisti, politici; 7.000 venivano dalle prigioni dell’Ucraina e della Biellorussia. Praticamente una buona parte della classe dirigente. La scoperta fu fatta dai tedeschi e siccome i nazisti erano brutti, sporchi e cattivissimi la colpa per anni fu data a loro. Poi una commissione internazionale sotto l’egida della Croce rossa accertò che la mattanza era opera dei sovietici, dell’Nkvd, l’antesignano del Kgb, per ordine di Stalin, pianificata per schiacciare ogni identità nazionale. Le atrocità di oggi in Ucraina affondano nelle atrocità di ieri. Hanno origine nei nodi irrisolti della seconda guerra mondiale. E Toni Capuozzo, cui va tutta la solidarietà, diventato bersaglio solo per aver messo in dubbio la sequenza dei fatti, è la prova che anche noi ormai siamo sprofondati nella guerra. In queste faccende per avere la verità, di solito una verità parziale, ci vogliono anni. Nell’aprile del 1943, durante l’invasione nazista dell’Urss, su segnalazione di alcuni contadini nella foresta di Katyn le truppe tedesche scoprirono le prime fosse. Radio Berlino diede la notizia il 13 aprile 1943, chiamando in causa i sovietici. Già, perché quei territori in precedenza erano stati occupati dall’Armata Rossa, in base all’accordo Ribentropp-Molotov di spartizione del Paese tra Berlino e Mosca. C’era però un problemino. Tutte le vittime risultavano uccise da un colpo alla nuca, le mani legate dietro alla schiena, con proiettili esplosi da pistole Walther Ppk: armi e munizioni inesorabilmente di fabbricazione tedesca. In base alle divise degli ufficiali trucidati, analisi dei corpi, eccetera, la commissione internazionale stabilì tuttavia che l’eccidio era avvenuto prima, nei primi mesi del 1940, quando appunto c’erano i sovietici. Le armi e i proiettili tedeschi erano stati utilizzati proprio per far ricadere la colpa sui soldati della Wermacht. Dalla documentazione emersa, solo una parte, risulta che fin dal giorno dopo l’invasione tedesca della Polonia il 19 settembre 1939, nella spartizione del Paese, l’Urss aprì campi di concentramento e carceri in Ucraina e Biellorussia dove internare i «nemici del popolo». Il 5 marzo 1940 Lavrentij Beria, il capo della polizia segreta sovietica, con un ordine che per li rami della catena gerarchica arrivava al dittatore Josif Stalin, diede il via allo sterminio di «nazionalisti e controrivoluzionari». Il massacro andò avanti con cadenza industriale per settimane; unico giorno di pausa il 1° maggio. Anche quello dei boia è un lavoro. Insomma, i russi in queste cose hanno il know how. Consolidato. E possiamo capire meglio gli orrori dell’Ucraina di oggi.. Quanto ai processi e alle corti internazionali, non è il caso di avere troppe aspettative. Al processo di Norimberga il pubblico ministero capo Roman Rudenko, in rappresentanza dell’Unione sovietica, per Katyn accusò la Germania e riuscì perfino ad estorcere qualche confessione. A Stati Uniti e Gran Bretagna, che coprirono in tutto e per tutto Mosca, dovette sembrare eccessivo e la cosa finì lì. Nessuno ha mai pagato per quei 22.000 morti. Solo nel 1990 Gorbaciov ha ammesso le responsabilità sovietiche e ha chiesto scusa alla Polonia. Con Eltsin furono desegretati in parte – molto in parte - i documenti. Il 10 aprile 2010 a Smolensk avrebbe dovuto tenersi una solenne commemorazione delle vittime con le massime autorità polacche e russe insieme. Come riconciliazione definitiva. Non si è mai tenuta. In fase di atterraggio si è schiantato sulla pista il Tupolev presidenziale dell’Aeronautica polacca, con il vicepresidente della Polonia Lech Kaczynski e 95 persone. Tutti morti. Per Mosca e Putin è stato un incidente (i resti dell’aereo ce li hanno loro), per la Polonia un attentato. Adesso forse è più chiaro perché Varsavia è la più decisa nel sostenere Kiev.
Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.
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Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
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Non è detto che non accada. Intanto siete già riusciti a risvegliare dal lungo sonno il sottosegretario Alberto Barachini, che non è poco, anche se forse non basta di fronte alla grande battaglia, che avete lanciato, per salvare il «pensiero critico». Il punto è chiaro: un conto è se viene venduto un altro giornale, magari persino di destra, che allora ben gli sta; un conto è se viene venduto il quotidiano che andava in via Veneto e dettava la linea alla sinistra. Allora qui non sono soltanto in gioco posti di lavoro e copie in edicola. Macché: sono in gioco le «garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese» e soprattutto «la sopravvivenza stessa di un pensiero critico». Non si discute, insomma, del futuro di Repubblica, si discute del futuro della repubblica, come è noto è fondata sul lavoro di Eugenio Scalfari.
Del resto come potremmo fare, cari colleghi, senza quel pensiero critico che in questi anni abbiamo imparato ad ammirare sulle vostre colonne? Come faremo senza le inchieste di Repubblica per denunciare lo smantellamento dell’industria automobilistica italiana ad opera degli editori Elkann? Come faremo senza le dure interviste al segretario Cgil Maurizio Landini che attacca, per questo, la ex Fiat in modo spietato? Come faremo senza gli scoop sulle inchieste relative all’evasione fiscale di casa Agnelli? Il fatto che tutto ciò non ci sia mai stato è un piccolo dettaglio che nulla toglie al vostro pensiero critico. E che dire del Covid? Lì il pensiero critico di Repubblica è emerso in modo chiarissimo trasformando Burioni in messia e il green pass in Vangelo. E sulla guerra? Pensiero critico lampante, nella sua versione verde militare e, ovviamente, con elmetto d’ordinanza. Ora ci domandiamo: come potrà tutto questo pensiero critico, così avverso al mainstream, sopravvivere all’orda greca?
Lo so che si tratta solo di un cambio di proprietà, non di una chiusura. Ma noi siamo preoccupati lo stesso: per mesi abbiamo letto sulle vostre colonne che c’era il rischio di deriva autoritaria nel nostro Paese, il fascismo meloniano incombente, la libertà di stampa minacciata dal governo antidemocratico. E adesso, invece, scopriamo che il governo antidemocratico è l’ancora di salvezza per salvare baracca e Barachini? E scopriamo che il vero nemico arriva dalla Grecia? Più che mai urge pensiero critico, cari colleghi. E, magari, un po’ meno di boria.
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