True
2022-04-09
La linea vaticana: «Inviare armi? Terribile»
Per quanto si tenti di arruolare papa Francesco in una parte precisa, quella accanto al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, rispetto alla guerra in Ucraina la Chiesa continua ad avere una sola pozione: quella di contrarietà al conflitto e di ricerca di negoziati che possano portare alla cessazione delle ostilità; e questo senza alcuna concessione alle armi, il cui generoso invio all’esercito di Kiev per combattere i soldati di Putin è, da ormai settimane, la linea politica europea e americana.
Che questo sia l’orientamento della Santa Sede, decisa così a non prendere le parti di alcun contendente, è stato suffragato nelle scorse ore da almeno un paio di posizioni di assoluto rilievo ecclesiale. Anzitutto, meritano d’essere sottolineate le parole, riprese ieri sulla Stampa, del segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, il quale si è anzitutto pronunciato sulla possibilità di un viaggio del pontefice in Ucraina, scenario che non si può escludere ma, ha precisato il porporato, «ci devono essere le condizioni» adeguate. «Da parte ucraina sembrano esserci», ha inoltre aggiunto Parolin, «perché è stata data ampia assicurazione che non ci sarebbero pericoli. E si fa riferimento anche ai vari viaggi che sono stati fatti da altri leader e che si faranno. Quindi questa visita alla fine si può fare». Tuttavia, ha voluto sottolineare ulteriormente il cardinale, «certamente il Papa non andrebbe a Kiev per prendere posizioni né a favore dell’uno né in favore dell’altro, come ha sempre fatto».
Considerando quanto i leader politici occidentali facciano quasi a gara, da settimane, per dichiarare la propria vicinanza al presidente Zelensky, quella del segretario di Stato Vaticano è una puntualizzazione di peso. E che vale sia per ciò che farà papa Bergoglio, per il quale si parla di un possibile incontro con patriarca di Mosca, Kirill, in Libano, sia per la visita che, sempre a Kiev, potrebbe fare a breve il «ministro degli Esteri» vaticano, monsignor Paul Richard Gallagher.
Non è finita. Per chiarire meglio la propria posizione, dialogando col portale cattolico Aci Stampa, il Segretario di Stato ha sottolineato la propria preoccupazione per la politica, ampiamente sposata anche dal governo italiano, dell’invio di armamenti in Ucraina. «Vedo molti che inviano armi», sono per l’esattezza state le parole di Parolin, che ha aggiungo: «Questo è terribile da pensare, potrebbe provocare una escalation che non si potrà controllare».
Un’altra conferma di quale sia la linea del Vaticano rispetto al conflitto iniziato lo scorso 24 febbraio si è avuta, ieri mattina, con le parole dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, intervenuto all’incontro organizzato dall’istituto Salvemini su questo tema, al quale erano presenti anche due studenti ucraini scappati dal loro Paese e accolti a Bologna, che oggi frequentano quella scuola.
Ebbene, Zuppi, molto vicino a papa Francesco e da alcuni considerato papabile in un futuro conclave, ha bocciato apertamente la corsa al riarmo («è la cosa peggiore che possiamo fare»), senza peraltro far sconti al Cremlino. «Non c’è mai alcuna giustificazione per la guerra», ha infatti chiarito il porporato, aggiungendo che «si può forse discutere se la Russia avesse qualche ragione, ma ora le ha perse tutte facendo quello che ha fatto. Perché è un massacro e basta».
Se ogni guerra è assurda, il cardinale di Bologna ha fatto presente come quella in corso lo sia doppiamente, anche per ragioni religiose. «È una guerra tra cristiani», ha ricordato Zuppi, a detta del quale «questa è una cosa che dispiace ancora di più» dato che, se nessun conflitto è giustificabile, «tra cristiani, noi che abbiamo uno che ha detto che dobbiamo amare i nemici, è una vera bestemmia». Perciò, ha chiosato l’arcivescovo riferendosi al conflitto, «dobbiamo trovare il modo perché finisca quanto prima». Ma quel modo non contempla il fatto di armare ulteriormente gli ucraini. «Certo», ha spiegato Zuppi, «c’è un problema puntuale oggi che riguarda l’Ucraina e che si riassume nel diritto alla difesa. Che è una cosa. Ma correre al riarmo no».
Che dire, se non che sono considerazioni sovrapponibili, nel loro significato, a quelle del cardinale Parolin, che a sua volta, per ovvie ragioni legate al suo ruolo, è portavoce del pensiero di papa Francesco. Tuttavia sono decenni, almeno dalla Guerra fredda, che la Santa Sede ha compreso che ogni conflitto di questi anni, oltre a mietere vittime innocenti, si trascina dietro l’ombra più inquietante: quella della catastrofe nucleare.
Quello che insomma si rischia, per dirla con quanto denunciò papa Giovanni Paolo II nel 1991, in occasione del centenario della Rerum novarum, è una guerra che «può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità». Anche per questo papa Francesco e i cardinali a lui più vicini, pure a costo di scontentare i governanti occidentali, restano sulla loro linea di contrarietà ad ogni invio di armi e di ricerca della pace. Quella vera.
Da Katyn a Bucha: se l’orrore finisce nel tritacarne delle bugie di guerra
Bucha, diventata la capitale mondiale dell’orrore con le sue fosse comuni e le strade ricoperte di morti, è a qualche centinaio di chilometri dal villaggio di Gnezdovo, sobborghi di Smolensk, Russia europea. Qui, nel 1943 furono scoperte le fosse di Katyn e 22.000 cadaveri di polacchi ammazzati con un colpo alla nuca. Ventiduemila. Ufficiali, giornalisti, politici; 7.000 venivano dalle prigioni dell’Ucraina e della Biellorussia. Praticamente una buona parte della classe dirigente. La scoperta fu fatta dai tedeschi e siccome i nazisti erano brutti, sporchi e cattivissimi la colpa per anni fu data a loro. Poi una commissione internazionale sotto l’egida della Croce rossa accertò che la mattanza era opera dei sovietici, dell’Nkvd, l’antesignano del Kgb, per ordine di Stalin, pianificata per schiacciare ogni identità nazionale.
Le atrocità di oggi in Ucraina affondano nelle atrocità di ieri. Hanno origine nei nodi irrisolti della seconda guerra mondiale. E Toni Capuozzo, cui va tutta la solidarietà, diventato bersaglio solo per aver messo in dubbio la sequenza dei fatti, è la prova che anche noi ormai siamo sprofondati nella guerra. In queste faccende per avere la verità, di solito una verità parziale, ci vogliono anni.
Nell’aprile del 1943, durante l’invasione nazista dell’Urss, su segnalazione di alcuni contadini nella foresta di Katyn le truppe tedesche scoprirono le prime fosse. Radio Berlino diede la notizia il 13 aprile 1943, chiamando in causa i sovietici. Già, perché quei territori in precedenza erano stati occupati dall’Armata Rossa, in base all’accordo Ribentropp-Molotov di spartizione del Paese tra Berlino e Mosca. C’era però un problemino. Tutte le vittime risultavano uccise da un colpo alla nuca, le mani legate dietro alla schiena, con proiettili esplosi da pistole Walther Ppk: armi e munizioni inesorabilmente di fabbricazione tedesca. In base alle divise degli ufficiali trucidati, analisi dei corpi, eccetera, la commissione internazionale stabilì tuttavia che l’eccidio era avvenuto prima, nei primi mesi del 1940, quando appunto c’erano i sovietici. Le armi e i proiettili tedeschi erano stati utilizzati proprio per far ricadere la colpa sui soldati della Wermacht.
Dalla documentazione emersa, solo una parte, risulta che fin dal giorno dopo l’invasione tedesca della Polonia il 19 settembre 1939, nella spartizione del Paese, l’Urss aprì campi di concentramento e carceri in Ucraina e Biellorussia dove internare i «nemici del popolo». Il 5 marzo 1940 Lavrentij Beria, il capo della polizia segreta sovietica, con un ordine che per li rami della catena gerarchica arrivava al dittatore Josif Stalin, diede il via allo sterminio di «nazionalisti e controrivoluzionari». Il massacro andò avanti con cadenza industriale per settimane; unico giorno di pausa il 1° maggio. Anche quello dei boia è un lavoro.
Insomma, i russi in queste cose hanno il know how. Consolidato. E possiamo capire meglio gli orrori dell’Ucraina di oggi..
Quanto ai processi e alle corti internazionali, non è il caso di avere troppe aspettative. Al processo di Norimberga il pubblico ministero capo Roman Rudenko, in rappresentanza dell’Unione sovietica, per Katyn accusò la Germania e riuscì perfino ad estorcere qualche confessione. A Stati Uniti e Gran Bretagna, che coprirono in tutto e per tutto Mosca, dovette sembrare eccessivo e la cosa finì lì. Nessuno ha mai pagato per quei 22.000 morti.
Solo nel 1990 Gorbaciov ha ammesso le responsabilità sovietiche e ha chiesto scusa alla Polonia. Con Eltsin furono desegretati in parte – molto in parte - i documenti. Il 10 aprile 2010 a Smolensk avrebbe dovuto tenersi una solenne commemorazione delle vittime con le massime autorità polacche e russe insieme. Come riconciliazione definitiva. Non si è mai tenuta. In fase di atterraggio si è schiantato sulla pista il Tupolev presidenziale dell’Aeronautica polacca, con il vicepresidente della Polonia Lech Kaczynski e 95 persone. Tutti morti. Per Mosca e Putin è stato un incidente (i resti dell’aereo ce li hanno loro), per la Polonia un attentato. Adesso forse è più chiaro perché Varsavia è la più decisa nel sostenere Kiev.
Continua a leggereRiduci
Anche se in molti provano ad arruolare il Papa nella crociata anti russa, il segretario di Stato, Pietro Parolin, ribadisce: «Il Pontefice potrebbe andare a Kiev, ma non per sostenere una delle parti». Il cardinale Matteo Zuppi: «Il riarmo è la cosa peggiore da fare».Da Katyn a Bucha: se l’orrore finisce nel tritacarne delle bugie di guerra. I conflitti sono anche lotte tra propagande opposte, come nel caso della strage del 1943. Lo speciale comprende due articoli.Per quanto si tenti di arruolare papa Francesco in una parte precisa, quella accanto al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, rispetto alla guerra in Ucraina la Chiesa continua ad avere una sola pozione: quella di contrarietà al conflitto e di ricerca di negoziati che possano portare alla cessazione delle ostilità; e questo senza alcuna concessione alle armi, il cui generoso invio all’esercito di Kiev per combattere i soldati di Putin è, da ormai settimane, la linea politica europea e americana.Che questo sia l’orientamento della Santa Sede, decisa così a non prendere le parti di alcun contendente, è stato suffragato nelle scorse ore da almeno un paio di posizioni di assoluto rilievo ecclesiale. Anzitutto, meritano d’essere sottolineate le parole, riprese ieri sulla Stampa, del segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, il quale si è anzitutto pronunciato sulla possibilità di un viaggio del pontefice in Ucraina, scenario che non si può escludere ma, ha precisato il porporato, «ci devono essere le condizioni» adeguate. «Da parte ucraina sembrano esserci», ha inoltre aggiunto Parolin, «perché è stata data ampia assicurazione che non ci sarebbero pericoli. E si fa riferimento anche ai vari viaggi che sono stati fatti da altri leader e che si faranno. Quindi questa visita alla fine si può fare». Tuttavia, ha voluto sottolineare ulteriormente il cardinale, «certamente il Papa non andrebbe a Kiev per prendere posizioni né a favore dell’uno né in favore dell’altro, come ha sempre fatto». Considerando quanto i leader politici occidentali facciano quasi a gara, da settimane, per dichiarare la propria vicinanza al presidente Zelensky, quella del segretario di Stato Vaticano è una puntualizzazione di peso. E che vale sia per ciò che farà papa Bergoglio, per il quale si parla di un possibile incontro con patriarca di Mosca, Kirill, in Libano, sia per la visita che, sempre a Kiev, potrebbe fare a breve il «ministro degli Esteri» vaticano, monsignor Paul Richard Gallagher.Non è finita. Per chiarire meglio la propria posizione, dialogando col portale cattolico Aci Stampa, il Segretario di Stato ha sottolineato la propria preoccupazione per la politica, ampiamente sposata anche dal governo italiano, dell’invio di armamenti in Ucraina. «Vedo molti che inviano armi», sono per l’esattezza state le parole di Parolin, che ha aggiungo: «Questo è terribile da pensare, potrebbe provocare una escalation che non si potrà controllare».Un’altra conferma di quale sia la linea del Vaticano rispetto al conflitto iniziato lo scorso 24 febbraio si è avuta, ieri mattina, con le parole dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, intervenuto all’incontro organizzato dall’istituto Salvemini su questo tema, al quale erano presenti anche due studenti ucraini scappati dal loro Paese e accolti a Bologna, che oggi frequentano quella scuola. Ebbene, Zuppi, molto vicino a papa Francesco e da alcuni considerato papabile in un futuro conclave, ha bocciato apertamente la corsa al riarmo («è la cosa peggiore che possiamo fare»), senza peraltro far sconti al Cremlino. «Non c’è mai alcuna giustificazione per la guerra», ha infatti chiarito il porporato, aggiungendo che «si può forse discutere se la Russia avesse qualche ragione, ma ora le ha perse tutte facendo quello che ha fatto. Perché è un massacro e basta».Se ogni guerra è assurda, il cardinale di Bologna ha fatto presente come quella in corso lo sia doppiamente, anche per ragioni religiose. «È una guerra tra cristiani», ha ricordato Zuppi, a detta del quale «questa è una cosa che dispiace ancora di più» dato che, se nessun conflitto è giustificabile, «tra cristiani, noi che abbiamo uno che ha detto che dobbiamo amare i nemici, è una vera bestemmia». Perciò, ha chiosato l’arcivescovo riferendosi al conflitto, «dobbiamo trovare il modo perché finisca quanto prima». Ma quel modo non contempla il fatto di armare ulteriormente gli ucraini. «Certo», ha spiegato Zuppi, «c’è un problema puntuale oggi che riguarda l’Ucraina e che si riassume nel diritto alla difesa. Che è una cosa. Ma correre al riarmo no».Che dire, se non che sono considerazioni sovrapponibili, nel loro significato, a quelle del cardinale Parolin, che a sua volta, per ovvie ragioni legate al suo ruolo, è portavoce del pensiero di papa Francesco. Tuttavia sono decenni, almeno dalla Guerra fredda, che la Santa Sede ha compreso che ogni conflitto di questi anni, oltre a mietere vittime innocenti, si trascina dietro l’ombra più inquietante: quella della catastrofe nucleare.Quello che insomma si rischia, per dirla con quanto denunciò papa Giovanni Paolo II nel 1991, in occasione del centenario della Rerum novarum, è una guerra che «può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità». Anche per questo papa Francesco e i cardinali a lui più vicini, pure a costo di scontentare i governanti occidentali, restano sulla loro linea di contrarietà ad ogni invio di armi e di ricerca della pace. Quella vera. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-linea-vaticana-inviare-armi-terribile-2657124919.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="da-katyn-a-bucha-se-lorrore-finisce-nel-tritacarne-delle-bugie-di-guerra" data-post-id="2657124919" data-published-at="1649447137" data-use-pagination="False"> Da Katyn a Bucha: se l’orrore finisce nel tritacarne delle bugie di guerra Bucha, diventata la capitale mondiale dell’orrore con le sue fosse comuni e le strade ricoperte di morti, è a qualche centinaio di chilometri dal villaggio di Gnezdovo, sobborghi di Smolensk, Russia europea. Qui, nel 1943 furono scoperte le fosse di Katyn e 22.000 cadaveri di polacchi ammazzati con un colpo alla nuca. Ventiduemila. Ufficiali, giornalisti, politici; 7.000 venivano dalle prigioni dell’Ucraina e della Biellorussia. Praticamente una buona parte della classe dirigente. La scoperta fu fatta dai tedeschi e siccome i nazisti erano brutti, sporchi e cattivissimi la colpa per anni fu data a loro. Poi una commissione internazionale sotto l’egida della Croce rossa accertò che la mattanza era opera dei sovietici, dell’Nkvd, l’antesignano del Kgb, per ordine di Stalin, pianificata per schiacciare ogni identità nazionale. Le atrocità di oggi in Ucraina affondano nelle atrocità di ieri. Hanno origine nei nodi irrisolti della seconda guerra mondiale. E Toni Capuozzo, cui va tutta la solidarietà, diventato bersaglio solo per aver messo in dubbio la sequenza dei fatti, è la prova che anche noi ormai siamo sprofondati nella guerra. In queste faccende per avere la verità, di solito una verità parziale, ci vogliono anni. Nell’aprile del 1943, durante l’invasione nazista dell’Urss, su segnalazione di alcuni contadini nella foresta di Katyn le truppe tedesche scoprirono le prime fosse. Radio Berlino diede la notizia il 13 aprile 1943, chiamando in causa i sovietici. Già, perché quei territori in precedenza erano stati occupati dall’Armata Rossa, in base all’accordo Ribentropp-Molotov di spartizione del Paese tra Berlino e Mosca. C’era però un problemino. Tutte le vittime risultavano uccise da un colpo alla nuca, le mani legate dietro alla schiena, con proiettili esplosi da pistole Walther Ppk: armi e munizioni inesorabilmente di fabbricazione tedesca. In base alle divise degli ufficiali trucidati, analisi dei corpi, eccetera, la commissione internazionale stabilì tuttavia che l’eccidio era avvenuto prima, nei primi mesi del 1940, quando appunto c’erano i sovietici. Le armi e i proiettili tedeschi erano stati utilizzati proprio per far ricadere la colpa sui soldati della Wermacht. Dalla documentazione emersa, solo una parte, risulta che fin dal giorno dopo l’invasione tedesca della Polonia il 19 settembre 1939, nella spartizione del Paese, l’Urss aprì campi di concentramento e carceri in Ucraina e Biellorussia dove internare i «nemici del popolo». Il 5 marzo 1940 Lavrentij Beria, il capo della polizia segreta sovietica, con un ordine che per li rami della catena gerarchica arrivava al dittatore Josif Stalin, diede il via allo sterminio di «nazionalisti e controrivoluzionari». Il massacro andò avanti con cadenza industriale per settimane; unico giorno di pausa il 1° maggio. Anche quello dei boia è un lavoro. Insomma, i russi in queste cose hanno il know how. Consolidato. E possiamo capire meglio gli orrori dell’Ucraina di oggi.. Quanto ai processi e alle corti internazionali, non è il caso di avere troppe aspettative. Al processo di Norimberga il pubblico ministero capo Roman Rudenko, in rappresentanza dell’Unione sovietica, per Katyn accusò la Germania e riuscì perfino ad estorcere qualche confessione. A Stati Uniti e Gran Bretagna, che coprirono in tutto e per tutto Mosca, dovette sembrare eccessivo e la cosa finì lì. Nessuno ha mai pagato per quei 22.000 morti. Solo nel 1990 Gorbaciov ha ammesso le responsabilità sovietiche e ha chiesto scusa alla Polonia. Con Eltsin furono desegretati in parte – molto in parte - i documenti. Il 10 aprile 2010 a Smolensk avrebbe dovuto tenersi una solenne commemorazione delle vittime con le massime autorità polacche e russe insieme. Come riconciliazione definitiva. Non si è mai tenuta. In fase di atterraggio si è schiantato sulla pista il Tupolev presidenziale dell’Aeronautica polacca, con il vicepresidente della Polonia Lech Kaczynski e 95 persone. Tutti morti. Per Mosca e Putin è stato un incidente (i resti dell’aereo ce li hanno loro), per la Polonia un attentato. Adesso forse è più chiaro perché Varsavia è la più decisa nel sostenere Kiev.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
Continua a leggereRiduci
content.jwplatform.com
Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
Continua a leggereRiduci
Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
Continua a leggereRiduci