2018-05-16
Tom Wolfe, il dandy che marchiò
a fuoco i radical chic (e si giocò il Nobel)
Lo scrittore americano se n'è andato a 87 anni, nella sua New York, a causa di un'infezione polmonare Era stato il primo intellettuale a comprendere l'avanzata dei radical chic e le contraddizioni di Wall Street.Un giorno un cronista del New Yorker lo affrontò a muso duro. «Ma lo sa che George W. Bush aveva in mano un suo libro?». Si aspettava l'abiura, l'invettiva contro un analfabeta per niente chic, la presa di distanza imbarazzata. E invece lui, uomo bianco vestito di bianco su sfondo bianco con un bicchiere d'acqua e ghiaccio in mano, rispose: «Che insospettabile persona di buon gusto e di buone letture». È morto Tom Wolfe, aveva 87 anni e un'infezione polmonare di troppo. Ci ha lasciati nell'anno senza premio Nobel per la letteratura, dopo che per una vita ha temuto che a Stoccolma potessero avere il cattivo gusto di comminarglielo, posto troppo piccolo per contenere uno scrittore così grande.Se n'è andato un signore che ha ridicolizzato i radical chic quando in Europa nessuno sapeva chi fossero; ha scorticato le archistar modaiole quando a Milano il grattacielo più alto era ancora il Pirellone; ha raccontato Donald Trump (e sua moglie, chiamandola Martha) 19 anni prima che diventasse presidente degli Stati Uniti; ha bruciato Wall Street con un Falò delle vanità mentre Lehman Brothers macinava utili e Michael Douglas si faceva circuire da Glenn Close; ha capito la violenza, la stupidità e la superficialità delle università americane (Io sono Charlotte Simmons) che avrebbero partorito i campioni semianalfabeti della New Economy; ha raccontato le contraddizioni multirazziali di un crocevia della globalizzazione come Miami concludendo che le uniche ragioni da ascoltare sono «le ragioni del sangue». E nell'ultimo saggio (2016) si è preso gioco di Charles Darwin spiegandoci che non è stata l'evoluzione della specie ad avere condotto l'umanità alle sue prodigiose conquiste, ma il linguaggio. Dalla scimmia a Tom Wolfe, dalla clava a quel suo bastone da passeggio di bambù con cui spostava i ciotoli nei vialetti di Central Park. Senza mai chiedersi, per lo scorno dei troppi e troppo petulanti Baricco boys, dove fossero finite le anatre d'inverno.Era nato a Richmond in Virginia ed era pervaso da tutti i sani pregiudizi dell'uomo del Sud. Arrivò a Manhattan in un giorno di neve e capì che «l'unico colore in questa città capace di contenerli tutti è il bianco». Da allora non lo ha mai tradito. E la foto che lo rappresenta nella quarta di copertina di tutti i suoi bestseller lo sorprende in giacca crema, pantaloni crema, panciotto crema, camicia bianca con colletto Pat Riley (suo idolo sportivo, ex coach dei Miami Heat di basket), cravatta blu a pallini bianchi, Stetson da passeggio bianco con bordo blu. Un dandy che seppe guadagnarsi stima e fama lavorando nel fango, costruendo un domani con la fatica e l'abilità del giornalista di razza, mai seduto dalla parte della ragione più comoda, mai attratto dal conformismo liberal così in voga nelle penthouse sulla Quinta strada. Scrisse per Herald Tribune, per Esquire, per il Washington Post, si fece largo nella canea dei parolai con Truman Capote e Gay Talese. Con loro negli anni Sessanta, adattando stili ed espedienti letterari alla narrazione dei fatti di cronaca, inventò il New Journalism. E lo fece mezzo secolo prima che qualche furbacchione travolto da febbre multimediale (e accompagnato dal webmaster di ordinanza) prendesse quegli stessi elementi, li chiamasse storytelling, li infilasse nel forno a microonde e li servisse come ricetta per salvare i giornali dalla depressione. Tom Wolfe comprese la truffa e una decina d'anni fa decise di prendere le distanze dalla sua creatura e dai profeti di Internet che sommamente disprezzava. «Il New Journalism? Ridatemi quello Old. Il giornalismo non è cambiato, semplicemente non esiste più, è in agonia, colpito a morte dalla rete. Oggi si viaggia con la pseudoinformazione sparata come pallini da caccia dallo schioppo dei blog e dei social network, dove colpisce colpisce».Scrisse il primo bestseller a 56 anni (Il Falò delle vanità è considerato un capolavoro della letteratura americana del Novecento) ma ha sempre privilegiato il valore dei cronisti - veloci, sintetici, ruggenti - arrivando a teorizzare: «Datemi un bravo giornalista, e se proprio non ne trovate uno nel quartiere, datemi almeno uno scrittore». Era il nostro inviato speciale sul fronte dell'ipocrisia. Il generone di Manhattan lo ha detestato non poco, rendendolo felice. Lo definivano conservatore (e lo era), reazionario (per la bandiera confederata nello studio); lo trattavano come Indro Montanelli a Milano negli anni Ottanta. I radical chic lo odiavano e lui, raccontandone la fatua stupidità, moltiplicava i lettori. «Quando scoprirono che avevo votato per Bush era come se avessero scoperto che ero un pedofilo molestatore di bambini». In Italia, con gente come Laura Boldrini, Carlo De Benedetti, Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, si sarebbe divertito. Così raccontò a Vittorio Zucconi in un'intervista il suo primo, folgorante scoop nel 1969: «In redazione vidi un cartoncino d'invito a un dinner party a casa di Leonard Bernstein, il grande direttore d'orchestra, al numero 895 di Park Avenue. Andai alla festa e scoprii che era in onore delle Black Panthers, i rivoluzionari neri più di sinistra e più violenti del momento. Ci feci un servizio molto sarcastico per Harper's, sfottendo questi super ricchi bianchi che celebravano un movimento che prometteva di farli fuori tutti. Quei radical chic non mi perdonarono mai di avere demolito la loro ipocrisia». Come non pensare alla «ferina fragranza» delle ascelle rivoluzionarie descritte da Montanelli nei salotti bene frequentati da Camilla Cederna e Giulia Maria Crespi fra salatini, gridolini e copie di Lotta Continua? Non ha mai sbagliato un libro, non ha mai attirato uno sbadiglio e oggi sarebbe bene che le sue fans indossassero il loro miglior tailleur bianco per celebrarlo. Però Tom Wolfe si è visto rifiutare l'articolo più originale della sua vita. Il giorno dopo l'assassinio di John Kennedy a Dallas il caporedattore di Esquire gli chiese di girare per Manhattan e di raccontare il dolore, le lacrime, la depressione della città davanti a una tragedia così incomprensibile. Lui prese un taxi con Gay Talese che doveva preparare lo stesso pezzo (due grandi tirchi, fecero a metà col prezzo della corsa) e si fece portare attorno per mezza giornata. Poi i due si salutarono e andarono a scrivere. «Il giorno dopo corsi a comprare il New York Times per confrontare gli articoli, Gay è un fuoriclasse, lo temevo. Ma sul giornale non c'era niente. Neanche il mio reportage fu pubblicato. Avevamo scritto che Manhattan viveva la sua vita come sempre e che di quei due colpi di fucile, nell'anima dei portuali irlandesi, dei commessi latinos, dei manovali neri, non c'era alcuna traccia». Mancando di una spruzzata di politically correctness, non erano piaciuti; non erano ritenuti abbastanza banali da diventare le lacrimevoli preghiere laiche di un popolo in gramaglie. Il successo non gli è mai stato perdonato dall'establishment ufficiale della letteratura. I tromboni paludati delle accademie gli hanno chiuso ogni porta, senza neppure avere il sospetto che lui non volesse proprio aprirle. «Non mi hanno mai perdonato d'avere dimostrato che il giornalismo ruggente e la letteratura da reportage sono migliori della melassa intimista dell'America provinciale che scimmiottava il peggio della narrativa francese. Noi siamo figli di Ernest Hemingway, di John Steinbeck. Io però bevo meno». Se n'è andato un gigante, il brindisi è d'obbligo. Se leggerete da qualche parte (gente come Gianni Riotta, come Roberto Saviano, come Alessandro Baricco potrebbe anche scriverlo) che il suo New Journalism ha dato l'avvio al racconto ai tempi del web, strappate quelle pagine e bruciatele. È la solita vendetta radical chic a babbo morto. Un giorno gli chiesero se usava Twitter. Rispose così: «No e mi dispiace perché il nome è tanto carino».
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.
Antonella Bundu (Imagoeconomica)