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2019-02-19
La legge per farla finita con l’utero in affitto
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Vedremo chi avrà il coraggio di appoggiarlo, questo disegno di legge. Vedremo chi sarà capace di dare un calcio all'ideologia e di schierarsi a favore di una causa sacrosanta. Il nuovo testo che ha per primo firmatario il senatore leghista Simone Pillon è, a tutti gli effetti, uno spartiacque. Approvarlo significa bloccare una volta per tutte quella pratica ignobile chiamata, in tragico burocratese, «maternità surrogata». Una pratica proibita dalla legge italiana, condannata dai legislatori, da numerosi giudici e pure dal buonsenso, ma che è in corso di sdoganamento grazie ai volonterosi difensori dei diritti arcobaleno.
«Le tristi pratiche dell'utero in affitto e della compravendita di gameti umani», si legge nel testo del disegno di legge, «pur essendo considerate delittuose dal nostro ordinamento (legge n. 40 del 2004) sono purtroppo impunemente utilizzate da alcuni nostri connazionali che non si fanno scrupolo di acquistare gameti umani scelti su veri e propri cataloghi online, impiegando poi le donne quali autentiche incubatrici».
Come noto, infatti, sono numerose le coppie (sia gay sia eterosessuali) che fanno ricorso alla surrogazione all'estero, per poi tornare in Italia e registrare all'anagrafe i bambini. Purtroppo, come notano Pillon e i suoi colleghi, «non è possibile per il giudice italiano sanzionare tali reati commessi all'estero in quanto non rientrano nella previsione di cui all'articolo 7 del codice penale». Il nuovo disegno di legge serve proprio a colmare questo vuoto e a porre un freno «al triste fenomeno del cosiddetto “turismo riproduttivo", inasprendo inoltre le rispettive pene onde aumentare l'effetto deterrente della norma».
Le pene previste, infatti, sono severe. All'articolo due si legge: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da 800.000 a un milione di euro».
Sono misure più che condivisibili. Del resto, è stata la Corte costituzionale, nel 2017, a ribadire che la maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». E, pochi giorni fa, è stata la Cassazione a spiegare che il ricorso all'utero in affitto è comunque un reato, anche se non c'è stato passaggio di denaro.
Non è finita, però. Questo disegno di legge ha un ulteriore obiettivo, cioè quello di rendere «impossibile iscrivere o trascrivere atti di nascita di minori con due padri o con due madri, in violazione delle più elementari esigenze naturali oltre che del primario e superiore interesse del minore a non essere separato dai propri genitori naturali, come previsto dalla Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia».
Questo, ovviamente, è il punto più delicato. Da parecchi mesi, vari Comuni italiani hanno cominciato a registrare i bambini delle coppie arcobaleno come «figli di due padri o due madri». Come sempre accade, sono stati tirati in ballo i «diritti» degli omosessuali. La registrazione si è trasformata in una sorta di battaglia di civiltà contro i bigotti cattivi che non vogliono rassegnarsi al progresso. Sotto le frasi commoventi e dietro le parole altisonanti, tuttavia, si cela la truffa. Registrare i «figli di due padri» significa, nei fatti, legittimare il ricorso all'utero in affitto. Ovvero aggirare la legge italiana, fingendo che le coppie arcobaleno abbiano trovato i pargoli sotto un cavolo durante un viaggio oltre confine.
Possiamo già prevedere quello che succederà. Gli attivisti Lgbt diranno che il ddl proposto da Pillon è omofobo e retrogrado, che punta alla discriminazione delle «famiglie omogenitoriali» e via dicendo. Ecco perché questo disegno di legge è fondamentale: permetterà di scoprire finalmente tutte le carte. Come voteranno i 5 stelle? Come si schiererà il Partito democratico? Staranno dalla parte dell'ordinamento italiano, dalla parte della Cassazione e della Consulta, oppure chiameranno in causa l'omofobia e difenderanno lo sfruttamento del corpo femminile per non fare dispetto agli amici rainbow? Sceglieranno di tutelare le donne e i bambini oppure respingeranno il testo perché lo ha proposto un leghista cattivo?
Il fronte che si oppone all'utero in affitto è molto ampio. Ci sono i cattolici e i conservatori, ma anche femministe, attiviste lesbiche, pensatori di sinistra. Per esempio la autorevole sociologa Daniela Danna, le cui parole andrebbero scolpite nella pietra: «Che cosa dà diritto ai medici di disporre di alcuni corpi femminile come “terapia" per l'incapacità di altri di avere dei figli?», scrive la studiosa. «Che cosa dà loro diritto di impiantare embrioni in una donna dicendo che sono di altri? Nulla, se non leggi ingiuste che configurano un nuovo campo di potere e un nuovo mercato che, come tutti i mercati, in parte risponde alla domanda e in parte la crea».
Ecco, è il momento di farla finita con questo mercato orrendo. È il momento di fermare una volta per tutte l'utero in affitto. La legge è scritta, sono appena tre articoletti. Basta semplicemente approvarla. Vedremo chi avrà il coraggio di farlo, chi oserà andare oltre l'appartenenza politica e schierarsi a favore di una buona battaglia. Una lotta per i diritti: ma i diritti veri, questa volta.
Francesco Borgonovo
Navratilova campionessa contro il pensiero unico: «Niente trans in campo»
Una tennista lesbica contro gli atleti transessuali. Martina Navratilova, leggenda del tennis, sul Sunday Times si è scagliata contro la moda di far gareggiare i trans con le donne. Secondo la sportiva, questa regola «ricompensa gli imbrogli e punisce l'innocente». La Navratilova non è andata per il sottile: «Lasciare che degli uomini gareggino come donne semplicemente perché hanno cambiato nome e assumono ormoni è ingiusto». Equiparare atleti trans ad atlete donne, in definitiva, è «una pratica folle».
Parole di buon senso. Perché il fisico di un transessuale rimane pur sempre quello di un uomo, anche se con i farmaci spunta il seno e si perde la peluria in eccesso. Le prestazioni non sono equiparabili: rimane un vantaggio strutturale che penalizza una donna, solo in quanto biologicamente tale. Il tutto, nel nome dell'ideologia arcobaleno, che pretende di costringere la realtà ad adeguarsi alla sua farneticazione sui «generi» distinti dai «sessi». Niente più maschi e femmine per volere divino o, semplicemente, per caso. Al posto della natura e della biologia, la fantasia al potere: ognuno può essere quel che preferisce, uomo, donna, transgender, non binario... A New York, già da parecchi mesi l'anagrafe propone oltre trenta opzioni diverse.
La tesi della Navratilova, però, assume una particolare rilevanza non solamente per la sua storia sportiva, ma anche e soprattutto perché la tennista con doppia nazionalità, statunitense e ceca, è un'icona gay. Fece coming out negli anni Ottanta, si è battuta per i diritti degli omosessuali ed è sposata con una donna, la modella russa Julia Lemigova. Inevitabilmente, se è lei a dire che bisogna «deplorare la tirannia» degli attivisti trans, i quali «denunciano chiunque si opponga a loro», la stoccata fa più effetto. Set, game, match, come si dice nella disciplina che l'ha resa celebre. La Navratilova è l'atleta più anziana ad aver vinto una prova del Grande slam: nel 2006, quasi cinquantenne, trionfò nel doppio misto agli Us open. A metà degli anni Settanta, si trasferì negli Stati Uniti, di cui divenne cittadina nel 1981. Dato che si rincorrevano le indiscrezioni su una sua relazione saffica con la scrittrice Rita Mae Brown, poco dopo aver ottenuto la cittadinanza americana, la Navratilova ammise di essere lesbica. Questo la rese un mito per la comunità omosessuale, mentre la turbolenta separazione dalla compagna Judy Nelson, avvenuta dopo una relazione durata otto anni, contribuì a tenere la sua vita privata sotto i riflettori.
In teoria, alla Navratilova non manca nessun requisito per conservare la sua aura di eroina Lgbt. È stata anche un'attivista dei diritti degli animali, per un certo periodo ha scelto un regime alimentare vegetariano e alla fine si è convertita al «pescetarianismo». Le carte del politicamente corretto, in breve, parrebbero tutte in regola. Eppure, l'idea che bastino la bizzarra dicotomia tra sesso e genere e qualche artificio legale per consentire a un uomo di gareggiare contro atlete donne, strutturalmente svantaggiate, proprio non le va giù. E non le va giù che chi esige quest'equiparazione, proprio perché è un'operazione che cozza con qualunque evidenza scientifica, pretenda di imporla attraverso la censura ideologica.
La battaglia della Navratilova contro quelli che vogliono vincere facile, per usare lo slogan di una nota pubblicità, dura in effetti già da qualche mese. Lo scorso dicembre, una delle sue seguaci su Twitter le aveva chiesto un parere sui transgender nello sport. Evidentemente, gli atleti arcobaleno si aspettavano una convinta sponsorizzazione da un'animalista lesbica sposata con una donna. E invece, lei aveva risposto così: «Chiaramente non può essere giusto. Non puoi semplicemente proclamarti una femmina e competere con le donne. Ci devono essere degli standard e avere un pene e competere come una donna non sarebbe adatto a quello standard». Paradosso esistenziale: un'omosessuale che scrive cose omofobe. Tipo che gli uomini hanno un pene. E che nello sport servono degli standard, affinché si possa gareggiare in condizioni di parità. Dinanzi a un tale saggio di intolleranza, la comunità transgender non poteva restare in silenzio.
Rachel McKinnon, ciclista trans che - coincidenza - a ottobre aveva vinto il titolo femminile iridato della pista ai campionati mondiali di Los Angeles, si era subito ribellata: «Martina è gravemente responsabile dei commenti transfobici pubblici fatti contro persone di sesso alternativo alla nascita. La incito a chiedere pubblicamente scusa, non si gioca a tennis con i genitali». Un perfetto esempio di inquisizione Lgbt. Parola d'ordine: sesso alternativo. Capo d'imputazione: transfobia. Condanna: pubblica ammenda. Pena tutto sommato indulgente, forse per i trascorsi meriti della rea. La quale, infatti, cancellò il tweet e si scusò: «Sono dispiaciuta se ho detto qualcosa di transfobico, non volevo offendere nessuno, cercherò di informarmi meglio e, nel frattempo, non ne parlerò più». Perché chi, nonostante le dosi quotidiane di propaganda Lgbt, ha un'idea diversa, per la lobby arcobaleno fa meglio a stare zitto. Ma il silenzio non si confaceva alla Navratilova, che domenica è tornata a dire la sua, osando stigmatizzare la furia censoria degli attivisti transgender. Ora, vista la reiterazione del reato, la punizione rischia di essere molto più severa.
Alessandro Rico
Luxuria debutta come cantante a colpi di insulti rivolti ai maschi
Vladimir Luxuria si è reiventata cantante. L'ex parlamentare, che a fine gennaio ha tentato di infarcire le testoline dei bambini Rai con favole su uccelli in gabbia e vecchie cattive, ha pubblicato oggi il suo primo singolo. E al diavolo chiunque le dica che il troppo stroppia.
«Sicuramente qualcuno penserà: “Questa ha fatto la parlamentare, la televisione, le battaglie per i diritti civili e ora vuole fare pure la cantante?". Ebbene sì, voglio fare anche la cantante», ha dichiarato Luxuria a VanityFair.it, presentando l'ultima sua fatica. Sono un uomo, brano deputato ad anticipare l'album Vladyland, è stato definito una «ballata ironica sulla retorica machista». Ma ad ascoltare il singolo e a guardarne il video, recitato da un Ken di Barbie con mutandina e divisa daranger, di ironico vi si ritrova ben poco. Protetta dallo spauracchio del sarcasmo, Luxuria ha potuto riversare in musica una morale spiccia, per cui l'uomo è un essere di caratura infima, «stravaccato sul divano» con «sei telecomandi in mano».
«Vorrei non banalizzare, dir qualcosa di speciale, ma sono un uomo e non credo che l'amore vada oltre un bel sedere», ha cantato, sciorinandoli tutti i luoghi comuni sull'universo maschile. La birra, le suocere, le fidanzate.
E, ancora, l'incapacità di ascoltare, la fobia del medico, la matrice spaccona che ogni maschio degno di un tale epiteto dovrebbe sentire connaturata al proprio io. Luxuria ha passato in rassegna ogni stereotipo associato all'uomo. Peccato solo si sia data la pena di farlo nell'era di Facebook, quando tutto è già stato meme e nulla è più capace di produrre un sorriso.
Sono un uomo, di cui VanityFair.it ha tenuto a mettere in luce l'origine satirica, l'intento parodistico, non è riuscito ad assolvere il proprio compito. Non ha divertito e nemmeno intrattenuto. Anzi. Quasi si è prodotto nell'effetto opposto, sostanziando l'ipotesi di una Luxuria certa della propria invincibilità.
L'ex parlamentare, nell'arco di un mese, ha tenuto la propria lezione sul gender ai bambini di Alla Lavagna!, su Rai3, e poi ne ha rivendicato la bontà a Non è l'Arena, su La7, imbarcandosi in una diatriba con Daniela Santanchè culminata in un elegante: «Sei più trans di me». La Santanchè, al cospetto di Massimo Giletti, aveva osato chiamare in causa la natura, associando un pene al sesso maschile e una vagina al sesso femminile. Di qui la logica conclusione: «Con tutto il rispetto, lei ha il pene e quindi è un uomo». Banalizzazione, questa, che a Luxuria è risultata indigesta.
L'attivista, che su Twitter non lesina ramanzine sull'importanza delle parole e l'orrore del bullismo, ha liquidato la Santanchè con una frase non esattamente di classe: «Non mi parli di natura proprio lei che ha fatto molti più interventi estetici di me». Come se, in un dibattito ponderato sull'identità sessuale, potesse giocare un qualche ruolo l'esistenza del filler per le labbra.
Luxuria, su La7, ha rivendicato il proprio diritto di essere donna. Poi, però, ha negato quello della Santanchè alla cura della propria immagine. L'ha denigrata perché rifatta, Luxuria, protetta da una gonna in nome della quale non tutto può essere detto e perdonato.
L'impressione, infatti, è che Vladimir Luxuria usi sé stessa, l'identità sessuale per la quale ha lottato fuori e dentro le piazze, (anche) per dire quel che a nessun uomo sarebbe mai scusato. E il debutto musicale non eccede la regola. Sono un uomo, canzone banale che alla bonaria rivalità tra sessi non è stata capace di aggiungere alcunché, è giudicata ironica perché cantata da una donna e rivolta all'uomo balordo.
Ma se, per assurdo, il progetto fosse stato inverso, se fosse stato un uomo a cantare, parodiandole, le donne, il cielo si sarebbe aperto e uno sciame di piccole Boldrini inferocite sarebbe calato sull'umanità. Se la canzone si fosse chiamata Sono una donna e avesse irriso, con tanto di Barbie, bionda e seminuda, nel video, l'incapacità femminile di parcheggiare, il ciclo mestruale e i telefoni roventi, la bandiera della satira sarebbe stata bruciata al grido di #MeToo.
Federico Rossi
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Il leghista Simone Pillon primo firmatario di una proposta che prevede il carcere da 3 a 6 anni e multe fino a 1 milione di euro per chi sfrutta il corpo femminile. Verranno puniti anche i «turisti della riproduzione» che vanno all'estero per aggirare le norme italiane.Sul Times, la tennista lesbica scrive: «È un imbroglio farli gareggiare con le donne». Mesi fa l'aveva detto in tweet ma fu costretta a rimuoverlo.L'ex parlamentare ha presentato «Sono un uomo», il brano singolo che anticipa l'album «Vladyland». Vorrebbe essere un pezzo satirico, ma si rivela una rassegna di banalità.Lo speciale contiene tre articoli.Vedremo chi avrà il coraggio di appoggiarlo, questo disegno di legge. Vedremo chi sarà capace di dare un calcio all'ideologia e di schierarsi a favore di una causa sacrosanta. Il nuovo testo che ha per primo firmatario il senatore leghista Simone Pillon è, a tutti gli effetti, uno spartiacque. Approvarlo significa bloccare una volta per tutte quella pratica ignobile chiamata, in tragico burocratese, «maternità surrogata». Una pratica proibita dalla legge italiana, condannata dai legislatori, da numerosi giudici e pure dal buonsenso, ma che è in corso di sdoganamento grazie ai volonterosi difensori dei diritti arcobaleno. «Le tristi pratiche dell'utero in affitto e della compravendita di gameti umani», si legge nel testo del disegno di legge, «pur essendo considerate delittuose dal nostro ordinamento (legge n. 40 del 2004) sono purtroppo impunemente utilizzate da alcuni nostri connazionali che non si fanno scrupolo di acquistare gameti umani scelti su veri e propri cataloghi online, impiegando poi le donne quali autentiche incubatrici». Come noto, infatti, sono numerose le coppie (sia gay sia eterosessuali) che fanno ricorso alla surrogazione all'estero, per poi tornare in Italia e registrare all'anagrafe i bambini. Purtroppo, come notano Pillon e i suoi colleghi, «non è possibile per il giudice italiano sanzionare tali reati commessi all'estero in quanto non rientrano nella previsione di cui all'articolo 7 del codice penale». Il nuovo disegno di legge serve proprio a colmare questo vuoto e a porre un freno «al triste fenomeno del cosiddetto “turismo riproduttivo", inasprendo inoltre le rispettive pene onde aumentare l'effetto deterrente della norma».Le pene previste, infatti, sono severe. All'articolo due si legge: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da 800.000 a un milione di euro». Sono misure più che condivisibili. Del resto, è stata la Corte costituzionale, nel 2017, a ribadire che la maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». E, pochi giorni fa, è stata la Cassazione a spiegare che il ricorso all'utero in affitto è comunque un reato, anche se non c'è stato passaggio di denaro. Non è finita, però. Questo disegno di legge ha un ulteriore obiettivo, cioè quello di rendere «impossibile iscrivere o trascrivere atti di nascita di minori con due padri o con due madri, in violazione delle più elementari esigenze naturali oltre che del primario e superiore interesse del minore a non essere separato dai propri genitori naturali, come previsto dalla Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia».Questo, ovviamente, è il punto più delicato. Da parecchi mesi, vari Comuni italiani hanno cominciato a registrare i bambini delle coppie arcobaleno come «figli di due padri o due madri». Come sempre accade, sono stati tirati in ballo i «diritti» degli omosessuali. La registrazione si è trasformata in una sorta di battaglia di civiltà contro i bigotti cattivi che non vogliono rassegnarsi al progresso. Sotto le frasi commoventi e dietro le parole altisonanti, tuttavia, si cela la truffa. Registrare i «figli di due padri» significa, nei fatti, legittimare il ricorso all'utero in affitto. Ovvero aggirare la legge italiana, fingendo che le coppie arcobaleno abbiano trovato i pargoli sotto un cavolo durante un viaggio oltre confine. Possiamo già prevedere quello che succederà. Gli attivisti Lgbt diranno che il ddl proposto da Pillon è omofobo e retrogrado, che punta alla discriminazione delle «famiglie omogenitoriali» e via dicendo. Ecco perché questo disegno di legge è fondamentale: permetterà di scoprire finalmente tutte le carte. Come voteranno i 5 stelle? Come si schiererà il Partito democratico? Staranno dalla parte dell'ordinamento italiano, dalla parte della Cassazione e della Consulta, oppure chiameranno in causa l'omofobia e difenderanno lo sfruttamento del corpo femminile per non fare dispetto agli amici rainbow? Sceglieranno di tutelare le donne e i bambini oppure respingeranno il testo perché lo ha proposto un leghista cattivo?Il fronte che si oppone all'utero in affitto è molto ampio. Ci sono i cattolici e i conservatori, ma anche femministe, attiviste lesbiche, pensatori di sinistra. Per esempio la autorevole sociologa Daniela Danna, le cui parole andrebbero scolpite nella pietra: «Che cosa dà diritto ai medici di disporre di alcuni corpi femminile come “terapia" per l'incapacità di altri di avere dei figli?», scrive la studiosa. «Che cosa dà loro diritto di impiantare embrioni in una donna dicendo che sono di altri? Nulla, se non leggi ingiuste che configurano un nuovo campo di potere e un nuovo mercato che, come tutti i mercati, in parte risponde alla domanda e in parte la crea». Ecco, è il momento di farla finita con questo mercato orrendo. È il momento di fermare una volta per tutte l'utero in affitto. La legge è scritta, sono appena tre articoletti. Basta semplicemente approvarla. Vedremo chi avrà il coraggio di farlo, chi oserà andare oltre l'appartenenza politica e schierarsi a favore di una buona battaglia. Una lotta per i diritti: ma i diritti veri, questa volta.Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-legge-per-farla-finita-con-lutero-in-affitto-2629319529.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="navratilova-campionessa-contro-il-pensiero-unico-niente-trans-in-campo" data-post-id="2629319529" data-published-at="1766615460" data-use-pagination="False"> Navratilova campionessa contro il pensiero unico: «Niente trans in campo» Una tennista lesbica contro gli atleti transessuali. Martina Navratilova, leggenda del tennis, sul Sunday Times si è scagliata contro la moda di far gareggiare i trans con le donne. Secondo la sportiva, questa regola «ricompensa gli imbrogli e punisce l'innocente». La Navratilova non è andata per il sottile: «Lasciare che degli uomini gareggino come donne semplicemente perché hanno cambiato nome e assumono ormoni è ingiusto». Equiparare atleti trans ad atlete donne, in definitiva, è «una pratica folle». Parole di buon senso. Perché il fisico di un transessuale rimane pur sempre quello di un uomo, anche se con i farmaci spunta il seno e si perde la peluria in eccesso. Le prestazioni non sono equiparabili: rimane un vantaggio strutturale che penalizza una donna, solo in quanto biologicamente tale. Il tutto, nel nome dell'ideologia arcobaleno, che pretende di costringere la realtà ad adeguarsi alla sua farneticazione sui «generi» distinti dai «sessi». Niente più maschi e femmine per volere divino o, semplicemente, per caso. Al posto della natura e della biologia, la fantasia al potere: ognuno può essere quel che preferisce, uomo, donna, transgender, non binario... A New York, già da parecchi mesi l'anagrafe propone oltre trenta opzioni diverse. La tesi della Navratilova, però, assume una particolare rilevanza non solamente per la sua storia sportiva, ma anche e soprattutto perché la tennista con doppia nazionalità, statunitense e ceca, è un'icona gay. Fece coming out negli anni Ottanta, si è battuta per i diritti degli omosessuali ed è sposata con una donna, la modella russa Julia Lemigova. Inevitabilmente, se è lei a dire che bisogna «deplorare la tirannia» degli attivisti trans, i quali «denunciano chiunque si opponga a loro», la stoccata fa più effetto. Set, game, match, come si dice nella disciplina che l'ha resa celebre. La Navratilova è l'atleta più anziana ad aver vinto una prova del Grande slam: nel 2006, quasi cinquantenne, trionfò nel doppio misto agli Us open. A metà degli anni Settanta, si trasferì negli Stati Uniti, di cui divenne cittadina nel 1981. Dato che si rincorrevano le indiscrezioni su una sua relazione saffica con la scrittrice Rita Mae Brown, poco dopo aver ottenuto la cittadinanza americana, la Navratilova ammise di essere lesbica. Questo la rese un mito per la comunità omosessuale, mentre la turbolenta separazione dalla compagna Judy Nelson, avvenuta dopo una relazione durata otto anni, contribuì a tenere la sua vita privata sotto i riflettori. In teoria, alla Navratilova non manca nessun requisito per conservare la sua aura di eroina Lgbt. È stata anche un'attivista dei diritti degli animali, per un certo periodo ha scelto un regime alimentare vegetariano e alla fine si è convertita al «pescetarianismo». Le carte del politicamente corretto, in breve, parrebbero tutte in regola. Eppure, l'idea che bastino la bizzarra dicotomia tra sesso e genere e qualche artificio legale per consentire a un uomo di gareggiare contro atlete donne, strutturalmente svantaggiate, proprio non le va giù. E non le va giù che chi esige quest'equiparazione, proprio perché è un'operazione che cozza con qualunque evidenza scientifica, pretenda di imporla attraverso la censura ideologica. La battaglia della Navratilova contro quelli che vogliono vincere facile, per usare lo slogan di una nota pubblicità, dura in effetti già da qualche mese. Lo scorso dicembre, una delle sue seguaci su Twitter le aveva chiesto un parere sui transgender nello sport. Evidentemente, gli atleti arcobaleno si aspettavano una convinta sponsorizzazione da un'animalista lesbica sposata con una donna. E invece, lei aveva risposto così: «Chiaramente non può essere giusto. Non puoi semplicemente proclamarti una femmina e competere con le donne. Ci devono essere degli standard e avere un pene e competere come una donna non sarebbe adatto a quello standard». Paradosso esistenziale: un'omosessuale che scrive cose omofobe. Tipo che gli uomini hanno un pene. E che nello sport servono degli standard, affinché si possa gareggiare in condizioni di parità. Dinanzi a un tale saggio di intolleranza, la comunità transgender non poteva restare in silenzio. Rachel McKinnon, ciclista trans che - coincidenza - a ottobre aveva vinto il titolo femminile iridato della pista ai campionati mondiali di Los Angeles, si era subito ribellata: «Martina è gravemente responsabile dei commenti transfobici pubblici fatti contro persone di sesso alternativo alla nascita. La incito a chiedere pubblicamente scusa, non si gioca a tennis con i genitali». Un perfetto esempio di inquisizione Lgbt. Parola d'ordine: sesso alternativo. Capo d'imputazione: transfobia. Condanna: pubblica ammenda. Pena tutto sommato indulgente, forse per i trascorsi meriti della rea. La quale, infatti, cancellò il tweet e si scusò: «Sono dispiaciuta se ho detto qualcosa di transfobico, non volevo offendere nessuno, cercherò di informarmi meglio e, nel frattempo, non ne parlerò più». Perché chi, nonostante le dosi quotidiane di propaganda Lgbt, ha un'idea diversa, per la lobby arcobaleno fa meglio a stare zitto. Ma il silenzio non si confaceva alla Navratilova, che domenica è tornata a dire la sua, osando stigmatizzare la furia censoria degli attivisti transgender. Ora, vista la reiterazione del reato, la punizione rischia di essere molto più severa. Alessandro Rico <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-legge-per-farla-finita-con-lutero-in-affitto-2629319529.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="luxuria-debutta-come-cantante-a-colpi-di-insulti-rivolti-ai-maschi" data-post-id="2629319529" data-published-at="1766615460" data-use-pagination="False"> Luxuria debutta come cantante a colpi di insulti rivolti ai maschi Vladimir Luxuria si è reiventata cantante. L'ex parlamentare, che a fine gennaio ha tentato di infarcire le testoline dei bambini Rai con favole su uccelli in gabbia e vecchie cattive, ha pubblicato oggi il suo primo singolo. E al diavolo chiunque le dica che il troppo stroppia. «Sicuramente qualcuno penserà: “Questa ha fatto la parlamentare, la televisione, le battaglie per i diritti civili e ora vuole fare pure la cantante?". Ebbene sì, voglio fare anche la cantante», ha dichiarato Luxuria a VanityFair.it, presentando l'ultima sua fatica. Sono un uomo, brano deputato ad anticipare l'album Vladyland, è stato definito una «ballata ironica sulla retorica machista». Ma ad ascoltare il singolo e a guardarne il video, recitato da un Ken di Barbie con mutandina e divisa daranger, di ironico vi si ritrova ben poco. Protetta dallo spauracchio del sarcasmo, Luxuria ha potuto riversare in musica una morale spiccia, per cui l'uomo è un essere di caratura infima, «stravaccato sul divano» con «sei telecomandi in mano». «Vorrei non banalizzare, dir qualcosa di speciale, ma sono un uomo e non credo che l'amore vada oltre un bel sedere», ha cantato, sciorinandoli tutti i luoghi comuni sull'universo maschile. La birra, le suocere, le fidanzate. E, ancora, l'incapacità di ascoltare, la fobia del medico, la matrice spaccona che ogni maschio degno di un tale epiteto dovrebbe sentire connaturata al proprio io. Luxuria ha passato in rassegna ogni stereotipo associato all'uomo. Peccato solo si sia data la pena di farlo nell'era di Facebook, quando tutto è già stato meme e nulla è più capace di produrre un sorriso. Sono un uomo, di cui VanityFair.it ha tenuto a mettere in luce l'origine satirica, l'intento parodistico, non è riuscito ad assolvere il proprio compito. Non ha divertito e nemmeno intrattenuto. Anzi. Quasi si è prodotto nell'effetto opposto, sostanziando l'ipotesi di una Luxuria certa della propria invincibilità. L'ex parlamentare, nell'arco di un mese, ha tenuto la propria lezione sul gender ai bambini di Alla Lavagna!, su Rai3, e poi ne ha rivendicato la bontà a Non è l'Arena, su La7, imbarcandosi in una diatriba con Daniela Santanchè culminata in un elegante: «Sei più trans di me». La Santanchè, al cospetto di Massimo Giletti, aveva osato chiamare in causa la natura, associando un pene al sesso maschile e una vagina al sesso femminile. Di qui la logica conclusione: «Con tutto il rispetto, lei ha il pene e quindi è un uomo». Banalizzazione, questa, che a Luxuria è risultata indigesta. L'attivista, che su Twitter non lesina ramanzine sull'importanza delle parole e l'orrore del bullismo, ha liquidato la Santanchè con una frase non esattamente di classe: «Non mi parli di natura proprio lei che ha fatto molti più interventi estetici di me». Come se, in un dibattito ponderato sull'identità sessuale, potesse giocare un qualche ruolo l'esistenza del filler per le labbra. Luxuria, su La7, ha rivendicato il proprio diritto di essere donna. Poi, però, ha negato quello della Santanchè alla cura della propria immagine. L'ha denigrata perché rifatta, Luxuria, protetta da una gonna in nome della quale non tutto può essere detto e perdonato. L'impressione, infatti, è che Vladimir Luxuria usi sé stessa, l'identità sessuale per la quale ha lottato fuori e dentro le piazze, (anche) per dire quel che a nessun uomo sarebbe mai scusato. E il debutto musicale non eccede la regola. Sono un uomo, canzone banale che alla bonaria rivalità tra sessi non è stata capace di aggiungere alcunché, è giudicata ironica perché cantata da una donna e rivolta all'uomo balordo. Ma se, per assurdo, il progetto fosse stato inverso, se fosse stato un uomo a cantare, parodiandole, le donne, il cielo si sarebbe aperto e uno sciame di piccole Boldrini inferocite sarebbe calato sull'umanità. Se la canzone si fosse chiamata Sono una donna e avesse irriso, con tanto di Barbie, bionda e seminuda, nel video, l'incapacità femminile di parcheggiare, il ciclo mestruale e i telefoni roventi, la bandiera della satira sarebbe stata bruciata al grido di #MeToo. Federico Rossi
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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