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2019-06-01
La guerra sotterranea a Di Maio può innescare il rimpasto gialloblù
Ansa
In qualunque democrazia, dopo un voto che rovescia completamente gli equilibri di una maggioranza parlamentare, si apre la verifica di governo che porta, poi, a un riequilibrio degli assetti dell'esecutivo che rifletta in qualche modo la tendenza espressa dall'elettorato. Si chiama «rimpasto», che non è una parolaccia, ma semplicemente un modo per tenere il governo in sintonia con la volontà degli elettori. Tale pratica è ovviamente all'ordine del giorno anche qui in Italia, dove le ultime elezioni europee hanno completamente rovesciato gli equilibri di governo: attualmente il M5s ha il doppio dei ministri della Lega ed esprime anche il presidente del Consiglio, ma ha la metà dei consensi dell'alleato.
Sacrosanto sarebbe dunque il rimpasto: Matteo Salvini ha già messo nel mirino tre ministeri del M5s: quello della Difesa (guidato da Elisabetta Trenta), quello dell'Ambiente (Sergio Costa) e quello dei Trasporti (Danilo Toninelli); in più, c'è il ministero degli Affari europei, vacante dopo l'addio di Paolo Savona. «Non chiedo niente a nessuno, non chiedo mezza poltrona o mezzo ministro in più», ha ripetuto negli ultimi giorni Salvini, individuando senza citarli i dicasteri che a suo parere dovrebbero cambiare guida, «ma è chiaro che su alcuni settori ci sono problemi perché per difendere l'ambiente non puoi bloccare un intero Paese. I militari poi meritano copertura politica totale: ho come avuto l'impressione che non tutti si siano sentiti protetti e tagliare gli investimenti sulla difesa è suicida. Toninelli? Ho piena fiducia in lui», ha ironizzato Salvini, «si è dimostrato uno sbloccatore di cantieri senza uguali». Il M5s, però, tiene duro: Luigi Di Maio non ha nessuna intenzione di mollare poltrone di governo e cederle alla Lega. Bene: ma come faranno i pentastellati a resistere all'assalto del Carroccio? Lo spiega alla Verità un esponente di governo del M5s, tra i più vicini a Di Maio: «Salvini», sottolinea la fonte, «vorrebbe passare all'incasso, ma riusciremo a frenarlo perché lui stesso si è inchiodato alla retorica del “non chiediamo poltrone". Far saltare il governo per qualche ministero in più sarebbe un passo falso, e lui lo sa bene, quindi spera che all'interno del M5s qualcuno ponga il problema del ricambio. Se si apre una sola falla, se cambiamo anche un solo ministro per accontentare la minoranza interna, la Lega ne approfitterà per far valere le sue ragioni». Mi sta dicendo che in questo momento i migliori alleati della Lega sono gli avversari interni di Di Maio? «Certo! Guardi che ha combinato il nostro sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, un cavallo pazzo che non risponde a nessuno: criticando il ministro Trenta, ha offerto un assist a Salvini. In buona sostanza, se riusciamo a reggere al nostro interno, la Lega o esce allo scoperto chiedendo esplicitamente poltrone o deve accettare di andare avanti così. Se dall'interno del M5s», argomenta l'esponente del governo, «qualcuno insisterà per togliere qualche posizione all'ala più vicina a Di Maio, non sappiamo dove si andrà a finire. Il Carroccio, oltre ai nomi già usciti, punta anche al ministero della Salute, è stato fatto anche il nome di Giulia Grillo».
Dunque, almeno per ora, soltanto Roberto Fico e gli altri avversari interni di Luigi Di Maio potrebbero far saltare il tappo del rimpasto, chiedendo una più forte rappresentanza nell'esecutivo della minoranza interna del M5s. Intanto, c'è attesa per il prossimo Consiglio dei ministri, che dovrebbe essere convocato per venerdì prossimo: la Lega presenterà certamente il decreto Sicurezza bis, che prima delle europee era stato rinviato dopo 1.000 polemiche, ma si potrebbe anche già discutere di flax tax, mentre sull'autonomia Matteo Salvini ha dichiarato che il provvedimento deve passare in Cdm entro e non oltre il prossimo 21 giugno.
Sulle fibrillazioni in maggioranza, ieri è intervenuto il premier Giuseppe Conte: «In questi giorni», ha sottolineato Conte, «ravviso ancora delle scorie della campagna elettorale che vanno smaltite. C'è ancora una super-eccitazione che riconduco ai postumi di una consultazione elettorale molto intensa e vivace. Lunedì sarà la prima, buona occasione per fare il punto della situazione. Voglio parlare agli italiani. Questo è il governo del cambiamento», ha aggiunto Conte, «abbiamo sempre rivendicato un cambiamento nel segno della chiarezza, della sicurezza del cammino, che sia strategico e che proceda in modo lungimirante e senza strappi. Dobbiamo afferrare queste premesse e queste condizioni per poter proseguire. Sto facendo delle consultazioni», ha proseguito il presidente del Consiglio, «con le forze politiche che sostengono la maggioranza. Ho già parlato con il vicepresidente Salvini e con il vicepresidente Di Maio. Continuo a parlare con loro, tornerò a parlare con loro. Poi ci riuniremo insieme. Voglio massima chiarezza, dobbiamo massima chiarezza agli italiani».
E tre ex generali disertano il 2 giugno demilitarizzato
Domani è il 2 Giugno, Festa della Repubblica, festa dell'«inclusione», annuncia Elisabetta Trenta per la sfilata ai Fori Imperiali. Sarà l'ennesima kermesse dell'«esclusione» dei valori militari.
Il manifesto ufficiale dell'evento pone in primo piano donne, cooperanti civili, vigili del fuoco e poliziotti. La sfilata ai Fori Imperiali rifletterà la melassa buonista del manifesto. Sfileranno per primi i civili della «riserva selezionata», nella quale ha operato la Trenta, e una rappresentanza di impiegati civili della Difesa; il tutto mescolato con bandiere Onu e Nato, per confondere le idee. Resta tuttavia forte e chiaro il messaggio al Paese e alle «classi subalterne»: le componenti marginali della Difesa sfilano prima dei parà, dei Comsubin, prima dei reparti combattenti.
L'ordine di sfilata del 2 giugno subordina le Forze armate vere - esercito, marina, aeronautica e carabinieri - alle formazioni civili, a favore delle quali è largamente sproporzionato a dispetto del contributo vero e sostanziale dei soldati alla sicurezza dello Stato.
A conferma del disagio serpeggiante, si sono alzate tre voci autorevoli, quelle di tre ex generali che hanno annunciato che diserteranno la cerimonia. Si tratta di Mario Arpino, già capo di stato maggiore della Difesa; Dino Tricarico, ex capo di stato maggiore dell'aeronautica e Vincenzo Camporini, anch'egli ex capo di stato maggiore della Difesa. «Non me la sento di avallare ipocritamente con la mia presenza una gestione che sta minando un'istituzione di cui il Paese deve essere orgoglioso», ha commentato Camporini. Sulla stessa linea i suoi ex colleghi, che hanno criticato anche l'atteggiamento ostile dei 5 stelle verso le pensioni dei militari di alto rango. «Non è tollerabile la gogna mediatica a cui sono stati sottoposti i pensionati», ha sottolineato Arpino.
Non è una degenerazione dell'ultima ora. La manifestazione ha vita difficile dal 1976, quando fu soppressa a causa del terremoto che un mese prima aveva colpito il Friuli, dov'erano impegnate vaste porzioni di esercito e di altre forze armate. Fu un provvedimento giustificato ma dette a qualcuno l'idea che si potesse iniziare un percorso. L'anno successivo furono schierati pochissimi reparti a Piazza Venezia, senza la sfilata. Poi fu soppressa del tutto dal 1978 al 1982; per risparmiare sui costi, fu la spiegazione ufficiale. In realtà si temeva che l'assassinio di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, innescasse reazioni incontrollabili nella piazza e nelle truppe. Fra il 1983 e il 1991 si fecero manifestazioni dimesse, come la sfilata nel 1983 a Porta San Paolo, oppure patetiche mostre fotografiche a piazza di Siena. Era iniziata una vasta e articolata operazione per separare le Forze armate dal popolo, mortificandone il senso di identità nazionale. Quando si palesò il pericolo di secessioni e di spaccature incontrollabili, causate dalle politiche che celavano la rapina dietro lo spirito europeista, Carlo Azeglio Ciampi riportò dal 4 giugno 2001 la manifestazione su via dei Fori Imperiali. Fu un grande successo, perché le «classi subalterne» hanno grande amore per la patria e volevano manifestarlo.
Tutta la vita tormentata della Festa della Repubblica si dipanò senza alcuna reazione da parte dei militari. Nessuno mai protestò per le umiliazioni inflitte alle Forze armate. Certe timide proteste che udiamo in questi ultimi tempi arrivano tardi. Chi voglia comprendere che cosa sia un tale evento, scorra le immagini della sfilata sull'avenue des Champs-Élysées, a Parigi, il 14 luglio di ogni anno, anniversario della presa della Bastiglia. Sfilano forze combattenti, senza alcuna concessione a inclusioni e contaminazioni. Manifestazione militare, di forza militare. Punto.
Il sovranismo francese non necessita di proclami né di approvazioni da parte delle nostre classi illuminate. Non di meno quel sovranismo è visibilmente crescente nei fatti e nelle manifestazioni, col plauso delle nostre classi illuminate. Il sovranismo italiano, al contrario, appena nascente, rischia la morte nella culla per i veleni edulcorati col buonismo. Come mai?
Sergio Mattarella aprirà la manifestazione partendo dal Quirinale, dove garrisce lo stendardo, adottato da Francesco Cossiga e imposto da Napoleone, primo Console e presidente della Repubblica Italiana del 1802-1805. Italia e Senegal sono stati gli unici Paesi al mondo - con la Francia, si capisce - a celebrare il bicentenario della Rivoluzione Francese, nel 1989. Quell'anno non si celebrò il 2 Giugno.
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Rousseau ha salvato il vicepremier ma l'ala sinistra del M5s ribolle. E se chiederà cambi nei ministeri farà un clamoroso assist alla Lega. Che, oltre alla Difesa, ha messo nel mirino Salute, Trasporti e Affari europei.E tre ex generali disertano il 2 giugno demilitarizzato. Nella sfilata di domani i veri protagonisti saranno cooperanti e civili. Vincenzo Camporini: «Il governo mette a rischio un'istituzione cruciale». Lo speciale comprende due articoli.In qualunque democrazia, dopo un voto che rovescia completamente gli equilibri di una maggioranza parlamentare, si apre la verifica di governo che porta, poi, a un riequilibrio degli assetti dell'esecutivo che rifletta in qualche modo la tendenza espressa dall'elettorato. Si chiama «rimpasto», che non è una parolaccia, ma semplicemente un modo per tenere il governo in sintonia con la volontà degli elettori. Tale pratica è ovviamente all'ordine del giorno anche qui in Italia, dove le ultime elezioni europee hanno completamente rovesciato gli equilibri di governo: attualmente il M5s ha il doppio dei ministri della Lega ed esprime anche il presidente del Consiglio, ma ha la metà dei consensi dell'alleato.Sacrosanto sarebbe dunque il rimpasto: Matteo Salvini ha già messo nel mirino tre ministeri del M5s: quello della Difesa (guidato da Elisabetta Trenta), quello dell'Ambiente (Sergio Costa) e quello dei Trasporti (Danilo Toninelli); in più, c'è il ministero degli Affari europei, vacante dopo l'addio di Paolo Savona. «Non chiedo niente a nessuno, non chiedo mezza poltrona o mezzo ministro in più», ha ripetuto negli ultimi giorni Salvini, individuando senza citarli i dicasteri che a suo parere dovrebbero cambiare guida, «ma è chiaro che su alcuni settori ci sono problemi perché per difendere l'ambiente non puoi bloccare un intero Paese. I militari poi meritano copertura politica totale: ho come avuto l'impressione che non tutti si siano sentiti protetti e tagliare gli investimenti sulla difesa è suicida. Toninelli? Ho piena fiducia in lui», ha ironizzato Salvini, «si è dimostrato uno sbloccatore di cantieri senza uguali». Il M5s, però, tiene duro: Luigi Di Maio non ha nessuna intenzione di mollare poltrone di governo e cederle alla Lega. Bene: ma come faranno i pentastellati a resistere all'assalto del Carroccio? Lo spiega alla Verità un esponente di governo del M5s, tra i più vicini a Di Maio: «Salvini», sottolinea la fonte, «vorrebbe passare all'incasso, ma riusciremo a frenarlo perché lui stesso si è inchiodato alla retorica del “non chiediamo poltrone". Far saltare il governo per qualche ministero in più sarebbe un passo falso, e lui lo sa bene, quindi spera che all'interno del M5s qualcuno ponga il problema del ricambio. Se si apre una sola falla, se cambiamo anche un solo ministro per accontentare la minoranza interna, la Lega ne approfitterà per far valere le sue ragioni». Mi sta dicendo che in questo momento i migliori alleati della Lega sono gli avversari interni di Di Maio? «Certo! Guardi che ha combinato il nostro sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, un cavallo pazzo che non risponde a nessuno: criticando il ministro Trenta, ha offerto un assist a Salvini. In buona sostanza, se riusciamo a reggere al nostro interno, la Lega o esce allo scoperto chiedendo esplicitamente poltrone o deve accettare di andare avanti così. Se dall'interno del M5s», argomenta l'esponente del governo, «qualcuno insisterà per togliere qualche posizione all'ala più vicina a Di Maio, non sappiamo dove si andrà a finire. Il Carroccio, oltre ai nomi già usciti, punta anche al ministero della Salute, è stato fatto anche il nome di Giulia Grillo».Dunque, almeno per ora, soltanto Roberto Fico e gli altri avversari interni di Luigi Di Maio potrebbero far saltare il tappo del rimpasto, chiedendo una più forte rappresentanza nell'esecutivo della minoranza interna del M5s. Intanto, c'è attesa per il prossimo Consiglio dei ministri, che dovrebbe essere convocato per venerdì prossimo: la Lega presenterà certamente il decreto Sicurezza bis, che prima delle europee era stato rinviato dopo 1.000 polemiche, ma si potrebbe anche già discutere di flax tax, mentre sull'autonomia Matteo Salvini ha dichiarato che il provvedimento deve passare in Cdm entro e non oltre il prossimo 21 giugno. Sulle fibrillazioni in maggioranza, ieri è intervenuto il premier Giuseppe Conte: «In questi giorni», ha sottolineato Conte, «ravviso ancora delle scorie della campagna elettorale che vanno smaltite. C'è ancora una super-eccitazione che riconduco ai postumi di una consultazione elettorale molto intensa e vivace. Lunedì sarà la prima, buona occasione per fare il punto della situazione. Voglio parlare agli italiani. Questo è il governo del cambiamento», ha aggiunto Conte, «abbiamo sempre rivendicato un cambiamento nel segno della chiarezza, della sicurezza del cammino, che sia strategico e che proceda in modo lungimirante e senza strappi. Dobbiamo afferrare queste premesse e queste condizioni per poter proseguire. Sto facendo delle consultazioni», ha proseguito il presidente del Consiglio, «con le forze politiche che sostengono la maggioranza. Ho già parlato con il vicepresidente Salvini e con il vicepresidente Di Maio. Continuo a parlare con loro, tornerò a parlare con loro. Poi ci riuniremo insieme. 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Sfileranno per primi i civili della «riserva selezionata», nella quale ha operato la Trenta, e una rappresentanza di impiegati civili della Difesa; il tutto mescolato con bandiere Onu e Nato, per confondere le idee. Resta tuttavia forte e chiaro il messaggio al Paese e alle «classi subalterne»: le componenti marginali della Difesa sfilano prima dei parà, dei Comsubin, prima dei reparti combattenti. L'ordine di sfilata del 2 giugno subordina le Forze armate vere - esercito, marina, aeronautica e carabinieri - alle formazioni civili, a favore delle quali è largamente sproporzionato a dispetto del contributo vero e sostanziale dei soldati alla sicurezza dello Stato. A conferma del disagio serpeggiante, si sono alzate tre voci autorevoli, quelle di tre ex generali che hanno annunciato che diserteranno la cerimonia. Si tratta di Mario Arpino, già capo di stato maggiore della Difesa; Dino Tricarico, ex capo di stato maggiore dell'aeronautica e Vincenzo Camporini, anch'egli ex capo di stato maggiore della Difesa. «Non me la sento di avallare ipocritamente con la mia presenza una gestione che sta minando un'istituzione di cui il Paese deve essere orgoglioso», ha commentato Camporini. Sulla stessa linea i suoi ex colleghi, che hanno criticato anche l'atteggiamento ostile dei 5 stelle verso le pensioni dei militari di alto rango. «Non è tollerabile la gogna mediatica a cui sono stati sottoposti i pensionati», ha sottolineato Arpino. Non è una degenerazione dell'ultima ora. La manifestazione ha vita difficile dal 1976, quando fu soppressa a causa del terremoto che un mese prima aveva colpito il Friuli, dov'erano impegnate vaste porzioni di esercito e di altre forze armate. Fu un provvedimento giustificato ma dette a qualcuno l'idea che si potesse iniziare un percorso. L'anno successivo furono schierati pochissimi reparti a Piazza Venezia, senza la sfilata. Poi fu soppressa del tutto dal 1978 al 1982; per risparmiare sui costi, fu la spiegazione ufficiale. In realtà si temeva che l'assassinio di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, innescasse reazioni incontrollabili nella piazza e nelle truppe. Fra il 1983 e il 1991 si fecero manifestazioni dimesse, come la sfilata nel 1983 a Porta San Paolo, oppure patetiche mostre fotografiche a piazza di Siena. Era iniziata una vasta e articolata operazione per separare le Forze armate dal popolo, mortificandone il senso di identità nazionale. Quando si palesò il pericolo di secessioni e di spaccature incontrollabili, causate dalle politiche che celavano la rapina dietro lo spirito europeista, Carlo Azeglio Ciampi riportò dal 4 giugno 2001 la manifestazione su via dei Fori Imperiali. Fu un grande successo, perché le «classi subalterne» hanno grande amore per la patria e volevano manifestarlo. Tutta la vita tormentata della Festa della Repubblica si dipanò senza alcuna reazione da parte dei militari. Nessuno mai protestò per le umiliazioni inflitte alle Forze armate. Certe timide proteste che udiamo in questi ultimi tempi arrivano tardi. Chi voglia comprendere che cosa sia un tale evento, scorra le immagini della sfilata sull'avenue des Champs-Élysées, a Parigi, il 14 luglio di ogni anno, anniversario della presa della Bastiglia. Sfilano forze combattenti, senza alcuna concessione a inclusioni e contaminazioni. Manifestazione militare, di forza militare. Punto. Il sovranismo francese non necessita di proclami né di approvazioni da parte delle nostre classi illuminate. Non di meno quel sovranismo è visibilmente crescente nei fatti e nelle manifestazioni, col plauso delle nostre classi illuminate. Il sovranismo italiano, al contrario, appena nascente, rischia la morte nella culla per i veleni edulcorati col buonismo. Come mai? Sergio Mattarella aprirà la manifestazione partendo dal Quirinale, dove garrisce lo stendardo, adottato da Francesco Cossiga e imposto da Napoleone, primo Console e presidente della Repubblica Italiana del 1802-1805. Italia e Senegal sono stati gli unici Paesi al mondo - con la Francia, si capisce - a celebrare il bicentenario della Rivoluzione Francese, nel 1989. Quell'anno non si celebrò il 2 Giugno.
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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Thierry Breton (Ansa)
«Condanniamo fermamente la decisione degli Stati Uniti di imporre restrizioni di viaggio a cinque individui europei, tra cui l’ex commissario Thierry Breton. Reagiremo», è stato il commento postato sull’account X della Commissione, «la libertà di parola è il fondamento della nostra forte e vivace democrazia europea. Ne siamo orgogliosi. La proteggeremo. Perché la Commissione europea è la custode dei nostri valori», ha cinguettato con piglio autoreferenziale Ursula von der Leyen, cui ha fatto eco la sua vice Kaja Kallas: «La decisione degli Stati Uniti è un tentativo di sfidare la nostra sovranità. L’Europa continuerà a difendere i suoi valori: libertà di espressione, regole digitali eque e il diritto di regolamentare il nostro spazio». Sembrerebbero parole giuste e coraggiose, se non fosse che il bersaglio della decisione di Rubio è la stessa persona che della libertà di espressione ha fatto strame, ideando la famigerata legge del Dsa (Digital services act), che impone alle grandi piattaforme misure di moderazione arbitrarie che di fatto limitano il free speech.
È Breton che il 12 agosto 2024 ha vergato di suo pugno, su carta intestata dell’esecutivo Ue, una lettera senza precedenti in cui, alla vigilia di un’intervista di Elon Musk a Donald Trump su X, ha minacciato Musk di «censura preventiva». Una pesante interferenza nella campagna elettorale Usa due mesi prima delle presidenziali, coronata dalla gravosa multa di 120 milioni di euro comminata dall’Ue a Musk tre settimane fa per violazioni di obblighi di trasparenza previsti dal Dsa, indicando tra i «problemi rilevati» perfino il design della «spunta blu». E non è tutto: a gennaio scorso, Breton non si è fatto problemi nel dichiarare che l’Unione «ha gli strumenti per bloccare qualsiasi ingerenza straniera, come ha fatto in Romania (dove le elezioni sono state invalidate su pressione europea, ndr) e come dovrà fare, se necessario, anche in Germania».
Che il Dsa uccida non soltanto il Primo emendamento ma anche le aziende americane è un altro dato di fatto: l’Unione europea incassa più dalle multe (a Meta, Google, Apple e X) che dalle tasse pagate dalle aziende tecnologiche europee. Per l’amministrazione Trump, però, la questione è soprattutto di principio: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato iniziative organizzate per costringere le piattaforme Usa a punire i punti di vista americani a cui si oppongono.
L’amministrazione Trump non tollererà più questi vergognosi atti di censura extraterritoriale», ha scritto senza mezzi termini Rubio. Christopher Landau, vice segretario di Stato, ha ricordato la missiva di Breton come «una delle lettere più agghiaccianti che abbia mai letto», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder, ha ricordato che «ironia della sorte, le aziende statunitensi che stanno soffrendo delle politiche oppressive di Bruxelles, delle multe e dell’eccedenza normativa sono proprio le aziende che possono portare l’Ue nell’economia dell’Ia (…) investendo e creando posti di lavoro, ma non a rischio di multe paralizzanti (…) che censurano la libertà di parola e ostacolano la crescita economica».
La revoca del visto impedirà a Breton di partecipare agli eventi pianificati negli Stati Uniti, comprese le conferenze tecnologiche. Chi di censura ferisce, di censura perisce.
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