Quanti paventano o auspicano il governo giallorosso a succedere a quello gialloblù lambiccano alchimie politiche squisitamente nazionali. Non di meno l'Italia è da sempre al centro d'una faglia geopolitica più minacciosa di quella di San Andreas, che insidia San Francisco e dintorni.
Dopo la morte di Aldo Moro s'acuì il carattere «proconsolare» delle massime istituzioni repubblicane, Quirinale e Palazzo Chigi. Fin dal nostro ingresso nella Nato, nel 1949, presidenza della Repubblica e governi si legittimarono con la benedizione del Dipartimento di Stato statunitense e quella della Curia vaticana, osservatore fiduciario permanente degli Usa, fino al 1989. Oggi Jorge Mario Bergoglio conta meno di Jean Claude Juncker dopo il quarto drink. Il ruolo dell'Unione sovietica crebbe a partire dagli anni Ottanta, in seguito alla scomparsa di Moro. Una beffa per quanti oltre l'Atlantico concessero in fretta e furia il visto di ingresso a Giorgio Napolitano, reputando il Pci più affidabile dello stesso Aldo Moro.
Caduto il muro di Berlino, il ruolo di Mosca fu scalzato dall'asse franco prussiano, con il favore dei Bush, padre e figlio, seguiti dai Clinton, marito e moglie, e da Hussein Barack Obama. Un club di avidi sciocchi e sanguinari, manutengoli della Repubblica popolare cinese, cui stavano consegnando il mondo e l'Europa, com'è oramai visibile nei mutati equilibri in Africa e nel Mediterraneo.
L'avvento di Donald Trump ha scombinato i disegni del Quarto Reich (Francia e Germania) e del club filocinese statunitense, senza tuttavia cancellarli del tutto.
L'Italia è ancora al centro d'una faglia di instabilità, differente e più pericolosa di quella bipolare che mise a confronto Est e Ovest durante la guerra fredda. A partire dal trattato di Maastricht, il dissanguamento della nostra sovranità è trascolorato in vantaggi per vecchi e nuovi attori, Cina in primo luogo.
Dall'elezione di Trump lo schieramento vede Stati Uniti e Gran Bretagna da un lato, contrapposte a Cina, Germania e Francia. L'Italia è nel mezzo del confronto.
Perché l'Italia è importante? Nel 1992 cominciò il tentativo - da parte di Bill Clinton - di coniugare la presenza statunitense in Sicilia (portaerei nel Mediterraneo) e nell'area veneto giuliana (porta di ingresso nei Balcani) con l'influenza crescente dell'asse franco-prussiano. In Sicilia rinacque l'autonomismo - come confermò nel 1994 in un'intervista all'Europeo il primo Procuratore generale antimafia, Bruno Siclari. A Washington si resero finalmente conto che l'autonomia siciliana, rinfocolatasi fra Capaci e via D'Amelio, non era affatto scontata a stelle e strisce, come nel 1946. D'altronde il lombardo veneto sbandava verso la Germania. I cervelloni del Dipartimento di Stato cercarono di correre ai ripari, tirando ora la briglia di sinistra ora quella di destra dei governi italiani, senza tuttavia ottenere altro che un trasferimento di almeno dieci punti di Pil dall'Italia all'asse franco-prussiano. Per di più quando capirono che dietro Francia e Germania irrompeva la Cina, tentarono la «primavera musulmana», una sorta di contro fuoco, come si fa quando si incendia una porzione di bosco per fermare l'incendio che avanza da tergo, in questo caso dal Centrafrica, dove la Cina dilaga con esercito e mercenari franco prussiani a darle copertura. La «primavera musulmana» è andata come si sa, consentendo poi a Vladimir Putin di rientrare nel grande gioco del Mediterraneo. In due parole, una catastrofe.
Trump ha cercato di limitare i danni, aprendo un confronto con Pechino, spalleggiato dalla Gran Bretagna, la cui Brexit materializza il rifiuto di Londra di genuflettersi al Quarto Reich, costi quello che costi.
La Nato oggi è insignificante e nel prossimo futuro lo sarà ancor meno. La condotta inequivocabile della Turchia lo certifica. Quanto a Parigi e Berlino, solo gli sciocchi non s'avvedono che il loro gioco egemonico in Europa è tanto protervo verso Roma quanto servile verso Pechino.
L'Italia è in mezzo. La sua posizione è resa più importante dal canale di Suez che ha raddoppiato la sua capacità di transito. Un'eventuale rinascita italiana dei traffici portuali e ferroviari (scongiurata tenacemente fino alla gestione di Mauro Moretti) restituirebbe alla marginalità i porti a 3.000 miglia da Suez: Amburgo, Rotterdam e Anversa, guarda caso dove hanno i santuari le 'ndrine che tengono sotto scacco Gioia Tauro e vanno spandendosi nel cuore economico italiano, Milano. Finché ci terranno vincolati a una crescita dell'1% e meno - come i Paesi dell'area del franco africano - ci potranno tenere sotto scacco.
Appare quindi alquanto improbabile che la crisi di governo, aperta da Matteo Salvini, possa risolversi per mano di statisti del peso di Luigi Di Maio, Matteo Renzi e di Nicola «Montalbano» Zingaretti.
Più d'un elemento lascia pensare che vi sia un canale privilegiato fra Salvini e Washington, probabilmente ignoto anche ai suoi collaboratori più stretti, come accade sovente in questi frangenti. Salvini è stato avventato ad aprire la crisi? Chi lo afferma forse dimentica quanto pesino a Washington la spinta di Davide Casaleggio e Beppe Grillo sulla via della Seta, verso la Cina, e il collaborazionismo di Di Maio per l'elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue.
Salvini è con Washington? Certo, anche se non lo è la Lega nel suo intero. M5s e Pd sono figli della stessa madre, ignota ma non del tutto, la Cina, ma di padri differenti. La Francia è sul Pd come la Germania sul M5s.
La soluzione della crisi italiana si giocherà quindi tra Washington e Pechino, dove sono i perni di manovra dei veri rapporti di forza. L'Italia è nelle mani di Dio; speriamo che non applauda.
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Cari colleghi generali, piss-e-lov. Il nuovo saluto, offertoci dall'autorità di vertice; adottiamolo con l'accento e la pronuncia anglovelletrana ch'ella sfoggiò in Parlamento. Nulla è più triste d'una bassezza che non dà i suoi frutti. Eppure il ministro piss-e-lov non ispira tristezza, tutt'altro. Un gendarme francese, uno fra quanti violano il confine italiano, davanti al televisore domenica mattina si scompisciò: «Questa è la Difesa italiana? Piss-e-lov? Dovrei temerla quando oltraggio il loro confine, scaricando quanti noi scacciamo? Domani faccio un'altra incursione».
Quattro generali hanno rifiutato l'invito alla sfilata di piss-e-lov. Alcuni li sostengono, altri li criticano. Con due di essi ho lavorato e li stimo moltissimo. Condivido la loro scelta. «Non posso stringere le mani a chi ignora i soldati» ha sottolineato il generale Mario Arpino. «Troppe disattenzioni del governo nei confronti della Difesa» ha aggiunto il generale Vincenzo Camporini.
Condivido la scelta e tuttavia mi chiedo se non si dovesse farla prima. L'uniforme è divenuta come il frac dei camerieri. Secondo Karl Kraus: «Un cameriere porta un frac senza che nessuno se ne accorga. Per contro taluni hanno l'aspetto di cameriere appena mettono un frac. Così in ambedue i casi il frac non ha nessun valore». L'uniforme come il frac del cameriere, mentre sfilavano i vigili urbani di Roma, cantando il loro bellicosissimo inno sulle note di Jimmie Dodd per il Topolino di Walt Disney. I generali in piedi applaudivano, in frac.
Alla sfilata c'erano più fanfare che soldati veri. Il capitano Corelli, con il suo mandolino, avrebbe rifiutato l'invito, sentendosi superfluo e persino inadeguato.
Cari colleghi generali, negli ultimi tempi, beninteso dopo essere andati in pensione, siamo più loquaci, rilasciamo interviste, evochiamo blocchi navali e sfracelli, denunciamo che l'esercito sta morendo. Facciamo bene a dirlo, facciamo bene a protestare. Mentre il mondo corre verso la guerra, noi spingemmo i nostri soldati verso il prossimo disastro. Facciamo bene, quindi a farci sentire. Mi chiedo nuovamente se non fosse stato il caso di iniziare prima.
Era il 1989. Un Paolo Cirino Pomicino, ministro del Bilancio e della programmazione economica, uomo di specchiata onestà, additò la Difesa come il salvadanaio cui attingere per aggiustare i conti dello Stato. Il Muro era caduto. La Guerra fredda era terminata, figurarsi se scoppiava quella calda, dissero. Saccheggiarono la Difesa senza ammodernare un bel nulla. Come accadde spesso negli anni successivi. Quell'anno non ci fu la parata del 2 giugno, ma sono certo che avremmo partecipato tutti.
Due anni dopo scoppiò la guerra in Iraq. Non avevamo neppure una brigata da «spendere», su 24, dico su 24! Non eravamo pronti. I responsabili di quell'impreparazione hanno fatto carriera. Offrimmo la brigata paracadutisti per l'Iraq, ma gli Usa non la vollero; ne avevano a sufficienza. Alla fine mandammo appena sette velivoli dell'Aeronautica militare.
Inviammo la Folgore in Somalia, esponendola alla vendetta di Bill Clinton che dalla Somalia voleva cacciarci. In Somalia lasciammo la Folgore e la dimenticammo per oltre nove mesi, dal 28 dicembre 1992 al 3 settembre 1993. E la Folgore fu selvaggiamente attaccata per alcuni episodi controversi accaduti in quei lunghi mesi. Nessuno di noi protestò. Piss-e-lov.
La sfilata del 2 giugno era intanto stata soppressa. Perché? Nessuno di noi protestò. Riprese nel 2001 per volere del presidente, Carlo Azeglio Ciampi. Fu un grande successo, ma erano iniziate pure le contaminazioni. Le forze di polizia, smilitarizzatesi e sindacalizzate sin dagli anni Ottanta, occuparono una porzione troppo importante della sfilata. D'altronde era normale, per uno Stato di polizia quale eravamo nel frattempo divenuti. Nessuno di noi fiatò. Cosicché accettammo di buon grado la sceneggiata dei Vespri siciliani, impiegando soldati veri in finti presidi nelle vie palermitane, nell'estate del 1992, accreditando la «lotta alla mafia», mentre le polizie andavano in vacanza. Eravamo divenuti nel frattempo il Paese con più polizia al mondo, rispetto al numero dei cittadini e all'estensione del territorio. Oggi ci stupiamo se il sindacato, dopo aver sottomesso le polizie, si fa strada in mezzo alle truppe da noi abbandonate a sé stesse.
Rimanemmo in silenzio anche quando soldati e carabinieri furono costretti a sfilare davanti a chi volle intitolare un'aula del Parlamento a un tal Carlo Giuliani. Neanche i generali dei carabinieri protestarono, anzi plaudirono, in frac.
Riflettiamo infine, sulla «riserva selezionata». Il ministro piss-e-lov, proveniente da quei ranghi, vi trasse la convinzione di poter guidare le Forze armate. Essa è la dimostrazione del fallimento della selezione. Quando si dice la coincidenza piss-e-lov fu «selezionata» dai vertici militari di oggi. E gli sta bene. Plaudono in frac, senza assentarsi dalla fiera.
Ma sì abbiamo fatto bene a disertare la sfilata quest'anno, ma negli anni scorsi le umiliazioni inflitte ai soldati non sono state meno dolorose di quelle inferte oggi dal ministro piss-e-lov e da chi toglie cinque fucili ai soldati mentre fa la messa in piega.
Non da domenica scorsa dunque, la sfilata del 2 giugno e un qualunque Gay pride sono equivalenti in quanto a stupidità, disordine, improvvisazione. Il Gay pride tuttavia ha un messaggio di gran lunga più coerente di quello del 2 giugno. Un messaggio sconcio? Il ministro piss-e-lov non è dello stesso avviso e comunque nessuno di noi ha mai fiatato.
Dopo le dichiarazioni di Roberto Fico e le onorificenze elargite dal Quirinale, le prossime edizioni si adorneranno con una delegazione di rom, una di scafisti, una di Fratelli musulmani e vedrei bene anche una processione di monsignori accoglienti, perché no? Piss-e-lov, cari colleghi generali. Sarebbe anche appropriata una folta e impettita delegazione dei 5.000 furbacchioni, colonnelli e generali con pensioni da 5.000 euro e più al mese, che hanno fregato una casa alla Difesa, ai quali il ministro piss-e-lov sta dando l'opportunità di comperarsela a prezzi stracciati. Piss-e-lov.
D'altronde, se in nome dei valori (?) europei l'identità nazionale italiana non ha titolo a sopravvivere - come vaticinò il predecessore di Roberto Fico -è ovvio che la sfilata del 2 giugno rifletta la discordia, iniettata nelle vene degli italiani, mentre noi, cari colleghi generali, tacevamo, anzi alcuni di noi hanno propalato l'infezione, genuflettendosi ai padroni franco prussiani. Una famigerata foto ne dà testimonianza nel Web. Piss-e-lov, finché di questo passo non ci scanneremo per le strade e fino alla prossima guerra. Come dite? La guerra è improbabile? Lo dicevate anche nel 1989, e stiamo ancora piangendo morti e invalidi, grazie alla nostra incompetenza. Piss-e-lov.
- Rousseau ha salvato il vicepremier ma l'ala sinistra del M5s ribolle. E se chiederà cambi nei ministeri farà un clamoroso assist alla Lega. Che, oltre alla Difesa, ha messo nel mirino Salute, Trasporti e Affari europei.
- E tre ex generali disertano il 2 giugno demilitarizzato. Nella sfilata di domani i veri protagonisti saranno cooperanti e civili. Vincenzo Camporini: «Il governo mette a rischio un'istituzione cruciale».
Lo speciale comprende due articoli.
In qualunque democrazia, dopo un voto che rovescia completamente gli equilibri di una maggioranza parlamentare, si apre la verifica di governo che porta, poi, a un riequilibrio degli assetti dell'esecutivo che rifletta in qualche modo la tendenza espressa dall'elettorato. Si chiama «rimpasto», che non è una parolaccia, ma semplicemente un modo per tenere il governo in sintonia con la volontà degli elettori. Tale pratica è ovviamente all'ordine del giorno anche qui in Italia, dove le ultime elezioni europee hanno completamente rovesciato gli equilibri di governo: attualmente il M5s ha il doppio dei ministri della Lega ed esprime anche il presidente del Consiglio, ma ha la metà dei consensi dell'alleato.
Sacrosanto sarebbe dunque il rimpasto: Matteo Salvini ha già messo nel mirino tre ministeri del M5s: quello della Difesa (guidato da Elisabetta Trenta), quello dell'Ambiente (Sergio Costa) e quello dei Trasporti (Danilo Toninelli); in più, c'è il ministero degli Affari europei, vacante dopo l'addio di Paolo Savona. «Non chiedo niente a nessuno, non chiedo mezza poltrona o mezzo ministro in più», ha ripetuto negli ultimi giorni Salvini, individuando senza citarli i dicasteri che a suo parere dovrebbero cambiare guida, «ma è chiaro che su alcuni settori ci sono problemi perché per difendere l'ambiente non puoi bloccare un intero Paese. I militari poi meritano copertura politica totale: ho come avuto l'impressione che non tutti si siano sentiti protetti e tagliare gli investimenti sulla difesa è suicida. Toninelli? Ho piena fiducia in lui», ha ironizzato Salvini, «si è dimostrato uno sbloccatore di cantieri senza uguali». Il M5s, però, tiene duro: Luigi Di Maio non ha nessuna intenzione di mollare poltrone di governo e cederle alla Lega. Bene: ma come faranno i pentastellati a resistere all'assalto del Carroccio? Lo spiega alla Verità un esponente di governo del M5s, tra i più vicini a Di Maio: «Salvini», sottolinea la fonte, «vorrebbe passare all'incasso, ma riusciremo a frenarlo perché lui stesso si è inchiodato alla retorica del “non chiediamo poltrone". Far saltare il governo per qualche ministero in più sarebbe un passo falso, e lui lo sa bene, quindi spera che all'interno del M5s qualcuno ponga il problema del ricambio. Se si apre una sola falla, se cambiamo anche un solo ministro per accontentare la minoranza interna, la Lega ne approfitterà per far valere le sue ragioni». Mi sta dicendo che in questo momento i migliori alleati della Lega sono gli avversari interni di Di Maio? «Certo! Guardi che ha combinato il nostro sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, un cavallo pazzo che non risponde a nessuno: criticando il ministro Trenta, ha offerto un assist a Salvini. In buona sostanza, se riusciamo a reggere al nostro interno, la Lega o esce allo scoperto chiedendo esplicitamente poltrone o deve accettare di andare avanti così. Se dall'interno del M5s», argomenta l'esponente del governo, «qualcuno insisterà per togliere qualche posizione all'ala più vicina a Di Maio, non sappiamo dove si andrà a finire. Il Carroccio, oltre ai nomi già usciti, punta anche al ministero della Salute, è stato fatto anche il nome di Giulia Grillo».
Dunque, almeno per ora, soltanto Roberto Fico e gli altri avversari interni di Luigi Di Maio potrebbero far saltare il tappo del rimpasto, chiedendo una più forte rappresentanza nell'esecutivo della minoranza interna del M5s. Intanto, c'è attesa per il prossimo Consiglio dei ministri, che dovrebbe essere convocato per venerdì prossimo: la Lega presenterà certamente il decreto Sicurezza bis, che prima delle europee era stato rinviato dopo 1.000 polemiche, ma si potrebbe anche già discutere di flax tax, mentre sull'autonomia Matteo Salvini ha dichiarato che il provvedimento deve passare in Cdm entro e non oltre il prossimo 21 giugno.
Sulle fibrillazioni in maggioranza, ieri è intervenuto il premier Giuseppe Conte: «In questi giorni», ha sottolineato Conte, «ravviso ancora delle scorie della campagna elettorale che vanno smaltite. C'è ancora una super-eccitazione che riconduco ai postumi di una consultazione elettorale molto intensa e vivace. Lunedì sarà la prima, buona occasione per fare il punto della situazione. Voglio parlare agli italiani. Questo è il governo del cambiamento», ha aggiunto Conte, «abbiamo sempre rivendicato un cambiamento nel segno della chiarezza, della sicurezza del cammino, che sia strategico e che proceda in modo lungimirante e senza strappi. Dobbiamo afferrare queste premesse e queste condizioni per poter proseguire. Sto facendo delle consultazioni», ha proseguito il presidente del Consiglio, «con le forze politiche che sostengono la maggioranza. Ho già parlato con il vicepresidente Salvini e con il vicepresidente Di Maio. Continuo a parlare con loro, tornerò a parlare con loro. Poi ci riuniremo insieme. Voglio massima chiarezza, dobbiamo massima chiarezza agli italiani».
E tre ex generali disertano il 2 giugno demilitarizzato
Domani è il 2 Giugno, Festa della Repubblica, festa dell'«inclusione», annuncia Elisabetta Trenta per la sfilata ai Fori Imperiali. Sarà l'ennesima kermesse dell'«esclusione» dei valori militari.
Il manifesto ufficiale dell'evento pone in primo piano donne, cooperanti civili, vigili del fuoco e poliziotti. La sfilata ai Fori Imperiali rifletterà la melassa buonista del manifesto. Sfileranno per primi i civili della «riserva selezionata», nella quale ha operato la Trenta, e una rappresentanza di impiegati civili della Difesa; il tutto mescolato con bandiere Onu e Nato, per confondere le idee. Resta tuttavia forte e chiaro il messaggio al Paese e alle «classi subalterne»: le componenti marginali della Difesa sfilano prima dei parà, dei Comsubin, prima dei reparti combattenti.
L'ordine di sfilata del 2 giugno subordina le Forze armate vere - esercito, marina, aeronautica e carabinieri - alle formazioni civili, a favore delle quali è largamente sproporzionato a dispetto del contributo vero e sostanziale dei soldati alla sicurezza dello Stato.
A conferma del disagio serpeggiante, si sono alzate tre voci autorevoli, quelle di tre ex generali che hanno annunciato che diserteranno la cerimonia. Si tratta di Mario Arpino, già capo di stato maggiore della Difesa; Dino Tricarico, ex capo di stato maggiore dell'aeronautica e Vincenzo Camporini, anch'egli ex capo di stato maggiore della Difesa. «Non me la sento di avallare ipocritamente con la mia presenza una gestione che sta minando un'istituzione di cui il Paese deve essere orgoglioso», ha commentato Camporini. Sulla stessa linea i suoi ex colleghi, che hanno criticato anche l'atteggiamento ostile dei 5 stelle verso le pensioni dei militari di alto rango. «Non è tollerabile la gogna mediatica a cui sono stati sottoposti i pensionati», ha sottolineato Arpino.
Non è una degenerazione dell'ultima ora. La manifestazione ha vita difficile dal 1976, quando fu soppressa a causa del terremoto che un mese prima aveva colpito il Friuli, dov'erano impegnate vaste porzioni di esercito e di altre forze armate. Fu un provvedimento giustificato ma dette a qualcuno l'idea che si potesse iniziare un percorso. L'anno successivo furono schierati pochissimi reparti a Piazza Venezia, senza la sfilata. Poi fu soppressa del tutto dal 1978 al 1982; per risparmiare sui costi, fu la spiegazione ufficiale. In realtà si temeva che l'assassinio di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, innescasse reazioni incontrollabili nella piazza e nelle truppe. Fra il 1983 e il 1991 si fecero manifestazioni dimesse, come la sfilata nel 1983 a Porta San Paolo, oppure patetiche mostre fotografiche a piazza di Siena. Era iniziata una vasta e articolata operazione per separare le Forze armate dal popolo, mortificandone il senso di identità nazionale. Quando si palesò il pericolo di secessioni e di spaccature incontrollabili, causate dalle politiche che celavano la rapina dietro lo spirito europeista, Carlo Azeglio Ciampi riportò dal 4 giugno 2001 la manifestazione su via dei Fori Imperiali. Fu un grande successo, perché le «classi subalterne» hanno grande amore per la patria e volevano manifestarlo.
Tutta la vita tormentata della Festa della Repubblica si dipanò senza alcuna reazione da parte dei militari. Nessuno mai protestò per le umiliazioni inflitte alle Forze armate. Certe timide proteste che udiamo in questi ultimi tempi arrivano tardi. Chi voglia comprendere che cosa sia un tale evento, scorra le immagini della sfilata sull'avenue des Champs-Élysées, a Parigi, il 14 luglio di ogni anno, anniversario della presa della Bastiglia. Sfilano forze combattenti, senza alcuna concessione a inclusioni e contaminazioni. Manifestazione militare, di forza militare. Punto.
Il sovranismo francese non necessita di proclami né di approvazioni da parte delle nostre classi illuminate. Non di meno quel sovranismo è visibilmente crescente nei fatti e nelle manifestazioni, col plauso delle nostre classi illuminate. Il sovranismo italiano, al contrario, appena nascente, rischia la morte nella culla per i veleni edulcorati col buonismo. Come mai?
Sergio Mattarella aprirà la manifestazione partendo dal Quirinale, dove garrisce lo stendardo, adottato da Francesco Cossiga e imposto da Napoleone, primo Console e presidente della Repubblica Italiana del 1802-1805. Italia e Senegal sono stati gli unici Paesi al mondo - con la Francia, si capisce - a celebrare il bicentenario della Rivoluzione Francese, nel 1989. Quell'anno non si celebrò il 2 Giugno.





