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2019-06-28
La Finanza a bordo per i diari nautici. In mare commessa una sfilza di reati
Ansa
Sea Watch 3 atto finale. L'informativa della Guardia di finanza con molta probabilità verrà depositata già oggi in Procura ad Agrigento, dove sul caso della Ong tedesca è aperto un fascicolo che ipotizza il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (al momento contro ignoti). Già ieri però, in tempo reale, il capopattuglia salito con i suoi uomini a bordo della nave che batte bandiera olandese, ha aggiornato i magistrati. La ricostruzione parte dalla forzatura del blocco e, passando per la trasgressione rispetto all'atto di notifica con le indicazioni contenute nel decreto Sicurezza bis, arriva fino al mancato rispetto dell'ordine di fermarsi, imposto dalle autorità italiane.
E, ancora, c'è il tentativo di entrare in porto senza aver ricevuto il consenso e l'aver tentato di mettere in mare due gommoni per far sbarcare gli immigrati. Tutti i documenti di bordo sono stati controllati: dall'atto di nazionalità, un documento di pubblicità navale che viene rilasciato dall'Ufficio marittimo di zona se la nave è destinata a navigare tra i porti di nazioni estere; ai documenti dell'equipaggio; al giornale nautico, quello di macchina e quello sul quale vengono annotati gli orari e le frequenze di chiamate e comunicazioni con le stazioni radio costiere e con le stazioni di altre navi in navigazione ed eventuali allarmi di Sos o May day. I controlli sono estesi anche ai certificati di classe e di navigabilità, a quello di stazza e ai documenti che attengono alla sicurezza. Nel frattempo la Procura di Agrigento, guidata dal procuratore Luigi Patronaggio, attende la relazione della polizia giudiziaria. Dall'altro campo, quello della Ong, in Procura è arrivato un esposto nel quale si chiede di «valutare i soccorsi» che in queste ore sono stati forniti ai migranti a bordo dell'imbarcazione (indicazione che era stata data all'Italia dai giudici della Corte europea dei diritti umani). E la «sussistenza di eventuali condotte di rilevanza penale, poste in essere dalle autorità marittime e portuali preposte alla gestione delle attività di soccorso, nonché demandare alla valutazione dell'autorità giudiziaria l'adozione di tutte le misure necessarie a porre fine alla situazione di gravissimo disagio a cui sono attualmente esposte le persone a bordo della nave».
Una delle partite, quindi, si gioca anche sul campo giudiziario. Lo scenario giuridico viene descritto da una toga di lunghissimo corso: Augusto Sinagra, 79 anni, magistrato catanese in pensione e professore ordinario di diritto internazionale e dell'Unione Europea alla Sapienza. Il suo è un parere da giurista. Contattato dalla Verità, ha subito elencato, codice alla mano, cosa potrebbe accadere: «Credo che ce ne sia abbastanza per mandare in galera comandante ed equipaggio». Dopo una breve pausa aggiunge: «Ovviamente la nave va sequestrata, perché corpo del reato. Ma si badi, nel caso di specie non si può procedere con un sequestro probatorio (come di solito ordinato dalla Procura di Agrigento, ndr), perché non c'è nulla da probare, ma si deve disporre un sequestro giudiziario finalizzato alla confisca». I reati ipotizzabili? Secondo Sinagra è stato commesso di tutto: «Dal favoreggiamento dell'immigrazione clandestina alla violazione delle norme di navigazione». E poi c'è l'inosservanza dei provvedimenti dell'autorità. Perché Sea Watch 3 ha forzato il blocco e non si è fermata all'alt, pur di entrare nel porto di Lampedusa.
E ancora, secondo il professor Sinagra: «Si può ipotizzare anche il sequestro di persona, perché la comandante, pagata per portare gli immigrati in Italia, ha evitato qualsiasi altro porto sicuro, costringendoli a bordo per tutti quei giorni». È di parere opposto Giorgio Bisegna, avvocato che nel 2004 si occupò del caso della nave tedesca Cap Anamur, entrata nelle acque italiane nonostante il divieto del ministero dell'Interno: «Non c'è possibilità di contestare il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, visti i precedenti giurisprudenziali, e nessuna possibilità di applicare il codice della navigazione in merito all'inosservanza del blocco delle forze dell'ordine, vista la sua applicabilità alle sole navi italiane». Secondo Bisegna, a Carola Rackete, la comandante della Sea Watch che ha forzato il blocco, sarebbe contestabile solo la violazione del cosiddetto decreto Sicurezza bis entrato in vigore lo scorso 15 giugno, che prevede una multa tra i 10.000 e i 50.000 euro (il sequestro della nave è previsto solo in caso di recidiva). Se così fosse, l'Italia non avrebbe strumenti per difendersi dagli ingressi illegali. Ora la palla passa alla Procura di Agrigento.
Fabio Amendolara
Non è resistenza a Salvini ma pirateria organizzata contro un Paese sovrano
Siamo in curva come sempre. Schierati con trombette e striscioni arcobaleno, Gad Lerner, Roberto Saviano, Michele Serra, quelli del «Capitano mio capitano» e Massimo Cacciari con bombetta e ombrello si fanno fotografare sugli spalti mentre inneggiano alla piratessa Carola Rackete, eccitati dallo sfondamento del blocco come da un gol in rovesciata di Cristiano Ronaldo. Il motivo è semplice, addirittura semplicistico: la nipote del Corsaro Nero ha sfidato Matteo Salvini, lo ha beffato, ha messo il suo striscione sul balcone e nessuno ha osato toglierlo. Ora lei, con quel suo sguardo di ghiaccio da carrista della Wehrmacht e i capelli rasta da attivista gauchiste alla moda, è indubbiamente la nuova pasionaria della sinistra. Dopo lo scioglimento mediatico dell'iceberg Greta Thunberg e il ritorno doveroso di Michela Murgia nell'anonimato, un volto nuovo era necessario. A tal punto da indurre Matteo Orfini e Graziano Delrio a intonare Bella ciao in suo onore e - con il loro incedere politico da mal di mare - a innalzarla a eroina della settimana.
Ora però la realtà come irrompe con la sua banale quotidianità. La signorina rischia 15 anni di carcere, l'armatore della Sea Watch rischia il sequestro della nave e una multa. E lo scontro frontale non si annuncia fra il ministro dell'Interno cattivo e la ribelle buona; non siamo al cinema a rivedere Balla coi lupi. La querelle giudiziaria è fra una nave pirata e uno Stato sovrano. Con le sue regole d'ingaggio, le sue leggi e il supporto della Corte europea dei diritti umani, che non più tardi di tre giorni fa aveva rigettato la richiesta di «obbligo di sbarco» da parte dell'Italia.
La curva di sinistra strilla, chiede aiuto ai 5 stelle (guardando al presidente della Camera, Roberto Fico, come a un moderno Che Guevara) e tifa per l'illegalità, ma dimentica un paio di dettagli decisivi: la Capitaneria di porto fa capo al ministro Danilo Toninelli (Infrastrutture), la Guardia di finanza dipende dal ministro Giovanni Tria (Economia) e la Guardia costiera dal ministro Elisabetta Trenta (Difesa). La testarda capitana tedesca li ha presi a schiaffi tutti. E ha stracciato idealmente a coriandoli il decreto Sicurezza voluto sì da Salvini, ma approvato a maggioranza dal Parlamento italiano e controfirmato senza un plissè, quindi condividendone i contenuti, dal capo dello Stato, Sergio Mattarella. Tutti in sentina, tutti a fare un giro di chiglia mentre Delrio e Orfini ridono con un ghigno che somiglia a una paresi facciale.
Carola Rackete sapeva perfettamente cosa stava facendo. E la Ong tedesca Sea Watch, con un fatturato annuo di due milioni di euro senza contare le erogazioni liberali degli aficionados (quindi con uffici legali dalle spalle larghe), era perfettamente al corrente del significato politico del gesto. Aveva detto no all'invito del governo olandese (titolare della bandiera della nave) di dirigersi verso la Tunisia, aveva rifiutato ogni soluzione che non fosse l'Italia. E con questo atteggiamento aveva mostrato un interesse residuale nei confronti del destino dei 42 disperati raccolti a bordo, ma un interesse primario, dominante, prepotente nel creare l'incidente con il nostro Paese.
La Rackete lo aveva anche dichiarato mostrando i muscoli: «Per me esiste solo Lampedusa». E pur di entrare nelle acque dell'isola ha ciondolato in perdita per 1.4oo miglia nautiche aspettando Godot, la stessa distanza che le avrebbe consentito di arrivare in un porto spagnolo o addirittura di oltrepassare lo Stretto di Gibilterra. L'Ong estremista Sea Watch è finanziata dai verdi tedeschi, da attori e gruppi rock. Il referente politico è Gregor Gysi, figura di punta della Linke, con un passato diplomatico nella Germania Est. E con un padre agente della Stasi, la famigerata polizia politica della Ddr. Dalla curva, gli ultrà della nostra sgangherata sinistra fanno ancora il tifo per loro.
Giorgio Gandola
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Le forze dell'ordine hanno acquisito documentazione da trasmettere alla Procura, che ha aperto un fascicolo. Il giurista: «Capitano ed equipaggio rischiano la galera, mentre la confisca della nave è pressoché certa».La sfida al leader leghista è una favola: la Rackete calpesta leggi approvate da governo, Parlamento e presidente della Repubblica.Lo speciale contiene due articoli Sea Watch 3 atto finale. L'informativa della Guardia di finanza con molta probabilità verrà depositata già oggi in Procura ad Agrigento, dove sul caso della Ong tedesca è aperto un fascicolo che ipotizza il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (al momento contro ignoti). Già ieri però, in tempo reale, il capopattuglia salito con i suoi uomini a bordo della nave che batte bandiera olandese, ha aggiornato i magistrati. La ricostruzione parte dalla forzatura del blocco e, passando per la trasgressione rispetto all'atto di notifica con le indicazioni contenute nel decreto Sicurezza bis, arriva fino al mancato rispetto dell'ordine di fermarsi, imposto dalle autorità italiane. E, ancora, c'è il tentativo di entrare in porto senza aver ricevuto il consenso e l'aver tentato di mettere in mare due gommoni per far sbarcare gli immigrati. Tutti i documenti di bordo sono stati controllati: dall'atto di nazionalità, un documento di pubblicità navale che viene rilasciato dall'Ufficio marittimo di zona se la nave è destinata a navigare tra i porti di nazioni estere; ai documenti dell'equipaggio; al giornale nautico, quello di macchina e quello sul quale vengono annotati gli orari e le frequenze di chiamate e comunicazioni con le stazioni radio costiere e con le stazioni di altre navi in navigazione ed eventuali allarmi di Sos o May day. I controlli sono estesi anche ai certificati di classe e di navigabilità, a quello di stazza e ai documenti che attengono alla sicurezza. Nel frattempo la Procura di Agrigento, guidata dal procuratore Luigi Patronaggio, attende la relazione della polizia giudiziaria. Dall'altro campo, quello della Ong, in Procura è arrivato un esposto nel quale si chiede di «valutare i soccorsi» che in queste ore sono stati forniti ai migranti a bordo dell'imbarcazione (indicazione che era stata data all'Italia dai giudici della Corte europea dei diritti umani). E la «sussistenza di eventuali condotte di rilevanza penale, poste in essere dalle autorità marittime e portuali preposte alla gestione delle attività di soccorso, nonché demandare alla valutazione dell'autorità giudiziaria l'adozione di tutte le misure necessarie a porre fine alla situazione di gravissimo disagio a cui sono attualmente esposte le persone a bordo della nave». Una delle partite, quindi, si gioca anche sul campo giudiziario. Lo scenario giuridico viene descritto da una toga di lunghissimo corso: Augusto Sinagra, 79 anni, magistrato catanese in pensione e professore ordinario di diritto internazionale e dell'Unione Europea alla Sapienza. Il suo è un parere da giurista. Contattato dalla Verità, ha subito elencato, codice alla mano, cosa potrebbe accadere: «Credo che ce ne sia abbastanza per mandare in galera comandante ed equipaggio». Dopo una breve pausa aggiunge: «Ovviamente la nave va sequestrata, perché corpo del reato. Ma si badi, nel caso di specie non si può procedere con un sequestro probatorio (come di solito ordinato dalla Procura di Agrigento, ndr), perché non c'è nulla da probare, ma si deve disporre un sequestro giudiziario finalizzato alla confisca». I reati ipotizzabili? Secondo Sinagra è stato commesso di tutto: «Dal favoreggiamento dell'immigrazione clandestina alla violazione delle norme di navigazione». E poi c'è l'inosservanza dei provvedimenti dell'autorità. Perché Sea Watch 3 ha forzato il blocco e non si è fermata all'alt, pur di entrare nel porto di Lampedusa. E ancora, secondo il professor Sinagra: «Si può ipotizzare anche il sequestro di persona, perché la comandante, pagata per portare gli immigrati in Italia, ha evitato qualsiasi altro porto sicuro, costringendoli a bordo per tutti quei giorni». È di parere opposto Giorgio Bisegna, avvocato che nel 2004 si occupò del caso della nave tedesca Cap Anamur, entrata nelle acque italiane nonostante il divieto del ministero dell'Interno: «Non c'è possibilità di contestare il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, visti i precedenti giurisprudenziali, e nessuna possibilità di applicare il codice della navigazione in merito all'inosservanza del blocco delle forze dell'ordine, vista la sua applicabilità alle sole navi italiane». Secondo Bisegna, a Carola Rackete, la comandante della Sea Watch che ha forzato il blocco, sarebbe contestabile solo la violazione del cosiddetto decreto Sicurezza bis entrato in vigore lo scorso 15 giugno, che prevede una multa tra i 10.000 e i 50.000 euro (il sequestro della nave è previsto solo in caso di recidiva). Se così fosse, l'Italia non avrebbe strumenti per difendersi dagli ingressi illegali. Ora la palla passa alla Procura di Agrigento.Fabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-finanza-a-bordo-per-i-diari-nautici-in-mare-commessa-una-sfilza-di-reati-2639006671.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-e-resistenza-a-salvini-ma-pirateria-organizzata-contro-un-paese-sovrano" data-post-id="2639006671" data-published-at="1766801543" data-use-pagination="False"> Non è resistenza a Salvini ma pirateria organizzata contro un Paese sovrano Siamo in curva come sempre. Schierati con trombette e striscioni arcobaleno, Gad Lerner, Roberto Saviano, Michele Serra, quelli del «Capitano mio capitano» e Massimo Cacciari con bombetta e ombrello si fanno fotografare sugli spalti mentre inneggiano alla piratessa Carola Rackete, eccitati dallo sfondamento del blocco come da un gol in rovesciata di Cristiano Ronaldo. Il motivo è semplice, addirittura semplicistico: la nipote del Corsaro Nero ha sfidato Matteo Salvini, lo ha beffato, ha messo il suo striscione sul balcone e nessuno ha osato toglierlo. Ora lei, con quel suo sguardo di ghiaccio da carrista della Wehrmacht e i capelli rasta da attivista gauchiste alla moda, è indubbiamente la nuova pasionaria della sinistra. Dopo lo scioglimento mediatico dell'iceberg Greta Thunberg e il ritorno doveroso di Michela Murgia nell'anonimato, un volto nuovo era necessario. A tal punto da indurre Matteo Orfini e Graziano Delrio a intonare Bella ciao in suo onore e - con il loro incedere politico da mal di mare - a innalzarla a eroina della settimana. Ora però la realtà come irrompe con la sua banale quotidianità. La signorina rischia 15 anni di carcere, l'armatore della Sea Watch rischia il sequestro della nave e una multa. E lo scontro frontale non si annuncia fra il ministro dell'Interno cattivo e la ribelle buona; non siamo al cinema a rivedere Balla coi lupi. La querelle giudiziaria è fra una nave pirata e uno Stato sovrano. Con le sue regole d'ingaggio, le sue leggi e il supporto della Corte europea dei diritti umani, che non più tardi di tre giorni fa aveva rigettato la richiesta di «obbligo di sbarco» da parte dell'Italia. La curva di sinistra strilla, chiede aiuto ai 5 stelle (guardando al presidente della Camera, Roberto Fico, come a un moderno Che Guevara) e tifa per l'illegalità, ma dimentica un paio di dettagli decisivi: la Capitaneria di porto fa capo al ministro Danilo Toninelli (Infrastrutture), la Guardia di finanza dipende dal ministro Giovanni Tria (Economia) e la Guardia costiera dal ministro Elisabetta Trenta (Difesa). La testarda capitana tedesca li ha presi a schiaffi tutti. E ha stracciato idealmente a coriandoli il decreto Sicurezza voluto sì da Salvini, ma approvato a maggioranza dal Parlamento italiano e controfirmato senza un plissè, quindi condividendone i contenuti, dal capo dello Stato, Sergio Mattarella. Tutti in sentina, tutti a fare un giro di chiglia mentre Delrio e Orfini ridono con un ghigno che somiglia a una paresi facciale. Carola Rackete sapeva perfettamente cosa stava facendo. E la Ong tedesca Sea Watch, con un fatturato annuo di due milioni di euro senza contare le erogazioni liberali degli aficionados (quindi con uffici legali dalle spalle larghe), era perfettamente al corrente del significato politico del gesto. Aveva detto no all'invito del governo olandese (titolare della bandiera della nave) di dirigersi verso la Tunisia, aveva rifiutato ogni soluzione che non fosse l'Italia. E con questo atteggiamento aveva mostrato un interesse residuale nei confronti del destino dei 42 disperati raccolti a bordo, ma un interesse primario, dominante, prepotente nel creare l'incidente con il nostro Paese. La Rackete lo aveva anche dichiarato mostrando i muscoli: «Per me esiste solo Lampedusa». E pur di entrare nelle acque dell'isola ha ciondolato in perdita per 1.4oo miglia nautiche aspettando Godot, la stessa distanza che le avrebbe consentito di arrivare in un porto spagnolo o addirittura di oltrepassare lo Stretto di Gibilterra. L'Ong estremista Sea Watch è finanziata dai verdi tedeschi, da attori e gruppi rock. Il referente politico è Gregor Gysi, figura di punta della Linke, con un passato diplomatico nella Germania Est. E con un padre agente della Stasi, la famigerata polizia politica della Ddr. Dalla curva, gli ultrà della nostra sgangherata sinistra fanno ancora il tifo per loro. Giorgio Gandola
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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