2019-03-27
La confessione di Battisti: «Li ho uccisi così»
Interrogato in carcere, l'ex membro dei Pac comincia a svelare i dettagli dei suoi omicidi: «Torregiani e Sabbadin dovevano essere solamente feriti. I soldi dei bottini li devolvevo in parte alla causa comunista. Ai miei difensori non interessava che fossi innocente».«Io non sono un killer». Quando il procuratore aggiunto Alberto Nobili gli contesta la «freddezza» con cui ha massacrato degli innocenti, Cesare Battisti prova a giustificarsi. «La mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce», dice al capo dell'antiterrorismo di Milano nella saletta riservata del carcere di Oristano, dov'è detenuto (...) da gennaio. «Quando credi in una cosa sei deciso e determinato. A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio ma all'epoca era così». Sono i ricordi raccolti nei due verbali che l'ex terrorista dei Pac ha affidato all'autorità giudiziaria di Milano confessando. Svela i primi due ferimenti a cui ha partecipato («il dr Fava su segnalazione di compagni operanti all'interno del collettivo dell'Alfa Romeo» e «un agente di custodia a Verona, Nigro...» indicato «da un collettivo di territorio perché molto duro nel carcere»).Battisti ammette gli omicidi per cui sconta l'ergastolo, precisando però - dal suo punto di vista - come sono andate le cose. Il maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro fu ucciso su «richiesta dei compagni del Veneto» per le «“torture" commesse nel carcere a carico dei detenuti politici». Battisti non sa di più sul movente «in quanto ero appena giunto nel gruppo armato e l'azione era già stata decisa». Malgrado giuri di non essere «un killer», lui arriva e preme il grilletto. Con «ruolo di copertura», l'ex terrorista dei Pac partecipa invece all'agguato al macellaio Lino Sabbadin avvenuto lo stesso giorno di quello al gioielliere Pierluigi Torregiani. Entrambi avevano ammazzato dei rapinatori e «rivendicavano questo atteggiamento per noi inaccettabile». Ma non dovevano morire, dice l'ex terrorista. «La maggioranza del gruppo dei Pac, me compreso, aveva deciso di procedere, per ragioni politiche, al solo ferimento di queste due persone» proprio per «non metterci al loro stesso livello, cioè quello di giustizieri». Invece Torregiani reagì e fu trucidato. Malgrado ribadisca più volte, nel verbale, di non «voler fare nomi», Battisti, a proposito dell'omicidio Sabbadin, conferma che «la persona incaricata dell'azione lo uccise» (Diego Giacomini, reo confesso). Battisti spara invece al poliziotto della Digos Andrea Campagna come invocato «dal collettivo di Zona Sud» perché «era stato ritenuto uno dei principali responsabili di una retata di compagni» del «Barona» che «erano stati poi torturati in caserma». Dei mandanti degli agguati, però, non conosce nomi e volti. «Non per una volontà omertosa» ma «perché essendo io in quel periodo clandestino non era opportuno che avessi contatti con militanti che vivevano pubblicamente il territorio». L'ex terrorista di Cisterna parla oggi ma avrebbe potuto farlo già quarant'anni fa «se non fossi evaso nel 1981». Una dissociazione postuma dovuta anche alla paura degli «ex compagni di lotta armata», e forse collegata al tentativo di ottenere benefici carcerari, oggi che sconta il fine pena mai. Delle rapine e dei furti ricostruisce poco, salvo specificare di aver «diverse volte» destinato parti dei bottini «per la causa comunista». Quando scappa all'estero, girovagando tra Francia, Messico e Brasile, si appoggia a una rete di amici e di simpatizzanti. Ma come ha fatto a fuggire dall'Italia? «Ho avuto i documenti da un amico di famiglia». Invece, «quando sono andato via dalla Francia, avevo documenti falsi francesi, credo che provenissero da rifugiati spagnoli della guerra civile dei tempi di Franco».Ma l'apice Battisti lo tocca quando scarica senza troppi scrupoli gli innocentisti che per anni lo hanno vellicato nei salotti buoni dell'intellighenzia parigina e brasiliana. «Io sono stato sostenuto per ragioni ideologiche di solidarietà e posso anche dire che non so se queste persone si siano mai chieste se io fossi effettivamente responsabile dei reati per cui sono stato condannato […] ma posso dire che per molti di questi il problema non si poneva, andava semplicemente sostenuta la mia ideologia dell'epoca dei fatti [...]. Posso dire che gli appoggi di cui ho goduto sono stati il più delle volte di carattere politico proprio per i motivi che ho detto prima, rafforzati dal fatto che io ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri, ero insomma una persona ideologicamente motivata». Insomma non importava che fosse innocente o colpevole, bastava che facesse parte della medesima conventicola ideologica.Il procuratore aggiunto antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili ha sintetizzato così questo gioco delle parti: «Battisti ha barato per 37 anni e per anni ha avuto ospitalità all'estero grazie alla sua immagine da persona innocente e da perseguitato politico». Immagine che ancora gli riconosce, ad esempio, Joëlle Losfeld. Sua editrice e sodale che, al Corriere della Sera, ricorda di averlo «difeso non perché approvavamo i crimini ma perché la Francia aveva preso un impegno». E che oggi abbia svelato le sue responsabilità, l'assassino di Cisterna di Latina, poco importa, evidentemente. «Ho amici italiani che mi vogliono bene comunque. Sanno che ho difeso Cesare Battisti perché è un amico. Non faccio analisi politiche riguardo ai miei amici, credo a quel che mi dicono». Come pure fa il vignettista Vauro che ha borbottato che «non è il caso di fare condanne morali senza appello» perché «ergersi a giudici del comportamento degli altri è molto difficile». Difensore ad oltranza è ancora il direttore del Dubbio, Piero Sansonetti: «Io ho sempre contestato il processo a Battisti, a mio avviso condannato senza alcuna prova, un processo durante il quale furono violate le norme di diritto», ha spiegato all'Adnkronos. Non abbandona la linea Maginot dell'innocentismo nemmeno lo scrittore Valerio Evangelisti che, dopo aver detto alla Verità di non volersi esprimere sul tema, su Repubblica, parla di «accanimento» su Battisti perché «dopo 40 anni, quel capitolo va chiuso: una guerra si deve considerare conclusa». La pensano ovviamente all'opposto i familiari delle vittime. Per Alberto Torregiani, figlio del gioielliere Pierluigi, «se non ci fosse stato l'appoggio morboso» a favore del killer in fuga, «già nel 2004, i passaggi per avere Battisti in carcere sarebbero stati molto più veloci».
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