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2021-09-09
La Cina porge i suoi omaggi ma l’accozzaglia talebana può crearle molti problemi
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Sono reazioni internazionali piuttosto variegate quelle che hanno accolto la nascita del nuovo governo di Kabul. Reazioni che, neanche a dirlo, evidenziano una netta divergenza tra Cina e Stati Uniti. Da una parte, Pechino si è mostrata piuttosto morbida. «La Cina attribuisce grande importanza all'annuncio da parte dei talebani dell'istituzione di un governo ad interim», ha affermato ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin. «Ciò ha posto fine a più di tre settimane di anarchia in Afghanistan ed è un passo necessario per ristabilire l'ordine e ricostruire il Paese», ha aggiunto.
Una posizione ben più fredda è stata invece quella assunta dagli Stati Uniti. «Notiamo che l'elenco dei nomi [dei ministri] annunciato consiste esclusivamente di individui che sono membri dei talebani o dei loro stretti collaboratori e nessuna donna. Siamo anche preoccupati per le affiliazioni e i precedenti di alcuni individui», ha dichiarato martedì un portavoce del Dipartimento di Stato americano. Preoccupazioni, quelle d'oltreatlantico, dettate soprattutto dal fatto che il nuovo esecutivo talebano - oltre che da soli uomini - sia anche in gran parte costituito da personaggi della vecchia guardia, alcuni dei quali considerati significativamente pericolosi: il primo ministro Mohammad Hasan Akhund è soggetto a sanzioni dell'Onu, mentre il ministro dell'Interno, Sirajuddin Haqqani, è ricercato dall'Fbi.
A metà strada tra le posizioni di Pechino e Washington si sono collocati Turchia e Qatar, i quali - pur ostentando cautela sui nomi del nuovo esecutivo - hanno in realtà molto da guadagnare nel tenere dei buoni rapporti con il neonato regime di Kabul. Non a caso sia Ankara che Doha - notoriamente stretti alleati - puntano a ritagliarsi il ruolo di mediatori tra i talebani e l'Occidente. Più negativa invece la reazione di Bruxelles che - non si capisce onestamente su quali basi - si aspettava un altro tipo di governo. «A una prima analisi dei nomi annunciati», ha detto un portavoce dell'Unione europea, «[il governo talebano] non sembra la formazione inclusiva e rappresentativa in termini di ricca diversità etnica e religiosa dell'Afghanistan che speravamo di vedere e che i talebani stavano promettendo nelle ultime settimane».
Insomma, le posizioni in campo sembrerebbero delineare il quadro di una Cina vincitrice e di un'America che se ne esce con la coda tra le gambe. La situazione risulta tuttavia ben più complicata. Nonostante la soddisfazione ostentata, è ragionevole ritenere che Pechino non sia poi troppo contenta del nuovo governo talebano. La presenza di personaggi appartenenti alla vecchia guardia non costituisce infatti una garanzia per il Dragone. Non solo perché quelle figure non risultano storicamente troppo affidabili. Ma anche perché - come sottolineato dalla testata The Diplomat nel settembre 2016 - il vecchio Emirato islamico dell'Afghanistan (di cui Akhund fu, secondo Al Jazeera, vicepremier e viceministro degli Esteri) diede di fatto ospitalità, tra il 1998 e il 2001, a esponenti del Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim): organizzazione di miliziani dello Xinjiang acerrima nemica di Pechino.
Va ricordato che, in occasione dei contatti con i talebani negli scorsi mesi, i cinesi hanno subordinato il proprio aiuto economico alla rottura dei legami - da parte dei «barbuti» - con quell'organizzazione. Non sarà del resto un caso che ad esprimere delle preoccupazioni sia stato, giusto ieri, il Global Times (organo del Partito comunista cinese), che in un'analisi ha avanzato dubbi sull'eventualità che i talebani abbiano realmente tagliato i ponti con i loro «vecchi alleati», manifestando inoltre una certa apprensione proprio in riferimento all'Etim.
Va da sé che tali preoccupazioni cinesi non dispiacciano troppo a Washington. E non è neppure escluso che un simile scenario fosse alla fine uno degli obiettivi impliciti dell'accordo di Doha, siglato da Donald Trump a febbraio 2020. D'altronde, non solo l'allora presidente americano effettuò pressioni per il rilascio nel 2018 dell'attuale vicepremier talebano, Abdul Ghani Baradar, ma - lo scorso novembre - cancellò anche l'Etim dalla lista delle organizzazioni terroristiche, suscitando le ire di Pechino. Chissà che allora i servizi segreti americani non puntino a instaurare dei canali con alcuni pezzi del composito fronte talebano: magari con l'obiettivo di destabilizzare la regione dello Xinjiang. Anche perché proprio lo Xinjiang costituisce - per così dire - l'anello di congiunzione tra i due principali fronti di scontro in essere tra Washington e Pechino: l'Afghanistan e l'Indo-Pacifico.
È quindi in questo contesto che gli americani continueranno prevedibilmente a puntare i riflettori sul tema della repressione cinese degli uiguri. Un tema che, a livello generale, è fonte di imbarazzo internazionale per il Dragone. E che, più nel dettaglio, rischia di creare notevoli turbolenze nei rapporti tra Pechino e Kabul. La Cina, insomma, non può permettersi di dormire sonni tranquilli. E gli americani questo lo sanno bene.
Prima scelta della giunta dei mullah. No cricket femminile: «Si scoprono»
Qualora ci fossero ancora dubbi sul fatto che i talebani siano cambiati rispetto a 20 anni fa, loro stessi sembrano impegnarsi per far capire che rimangono identici al passato. Con la formazione del nuovo governo «provvisorio», un monocolore fondamentalista, è stato reso palese che i nomi saliti al potere sono quelli del vecchio Emirato e, quando ciò non è stato possibile per decessi sopraggiunti nel frattempo, il comando è stato affidato a figli, nipoti e compari d'arte. Ma le somiglianze col passato non si fermano certo qui.
Dopo i pestaggi dei manifestanti contro il nuovo governo, l'uccisione di donne poliziotto, il divieto della musica e la distruzione dell'orchestra nazionale, la separazione tra uomini e donne nelle università e l'obbligo per queste di indossare il niqab che lascia scoperti solo gli occhi, ulteriori tasselli si aggiungono al quadro che richiama alla mente antichi orrori. Questa volta tocca allo sport essere messo sotto accusa. Negli ultimi venti anni si erano formate a Kabul come a Herat, prestigiose squadre di cricket femminile. Uno sport molto amato e diffuso nel Paese, segno dell'antica presenza inglese, che ha portato i suoi atleti al di fuori dei confini afghani con risultati ottimi. Questa attività sarà da oggi vietata alle donne, come avveniva prima del 2001.
Ahmadullah Wasiq, vice della commissione cultura talebana, ha esplicitato il divieto fornendone anche le motivazioni: «Non credo che alle donne sia consentito giocare a cricket, perché non è necessario che le donne giochino a cricket». Una spiegazione che, qualora lasci perplessità sul suo senso, viene fornita di dettagli: «Lo sport fa sì che durante il gioco le donne possano trovarsi ad affrontare situazioni in cui il loro viso o una parte del corpo restino scoperte. L'islam non permette che le donne vengano viste così». La paura è che il mondo intero possa guardare queste immagini ritenute «scandalose», visto che nell'era di Internet e della tv le foto delle giocatrici potrebbero girare il globo.
Intanto monta l'insofferenza verso il governo talebano, accusato da parte della popolazione - che continua a protestare nelle piazze - di pensare solo a come limitare i diritti e le libertà, mentre la gente muore di fame, anche per il blocco dei fondi bancari da parte dei governi esteri. Ai giornalisti è stato fatto espresso divieto di documentare tutto quello che riguarda le proteste: i talebani intendono mantenere la loro apparenza di governo che gode dell'appoggio popolare. A demolire questa rappresentazione c'è il Fronte di resistenza nazionale. I combattenti del Panjshir, dopo la caduta della valle, proseguono comunque nella loro lotta. «I ialebani continuano con attacchi deliberati e su larga scala contro i civili. La loro è una campagna di massacri e il loro governo è illegale».
Intanto, nel pomeriggio di ieri, si è fatto sentire l'ex presidente afghano, Ashraf Ghani, fuggito dal Paese durante la presa di Kabul: «Per tutta la mia vita, ho creduto che la formula di una repubblica democratica fosse l'unica in grado di portare ad un Afghanistan prospero, sovrano e pacifico. Le mie azioni sono state sempre guidate dalla costituzione del 2004 che ci dà tutti gli strumenti per il dialogo e per comporre le nostre differenze». Ghani ha voluto ribadire di essersi allontanato dall'Afghanistan per evitare che scoppiasse una nuova guerra civile come negli anni Novanta e ha invitato l'Onu a controllare le sue finanze per liberarlo dall'accusa di corruzione che gli è stata mossa. «Durante il mio mandato ho lottato contro la corruzione, vera piaga del nostro Paese», ha detto.
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Il governo ufficialmente esulta per «la fine dell'anarchia», però teme che i legami con gli islamisti del Turkestan accendano la miccia uigura. Cosa che gli Usa si auguranoNuova stretta alle libertà delle donne. Giornalisti minacciati se riprendono le protesteLo speciale contiene due articoliSono reazioni internazionali piuttosto variegate quelle che hanno accolto la nascita del nuovo governo di Kabul. Reazioni che, neanche a dirlo, evidenziano una netta divergenza tra Cina e Stati Uniti. Da una parte, Pechino si è mostrata piuttosto morbida. «La Cina attribuisce grande importanza all'annuncio da parte dei talebani dell'istituzione di un governo ad interim», ha affermato ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin. «Ciò ha posto fine a più di tre settimane di anarchia in Afghanistan ed è un passo necessario per ristabilire l'ordine e ricostruire il Paese», ha aggiunto. Una posizione ben più fredda è stata invece quella assunta dagli Stati Uniti. «Notiamo che l'elenco dei nomi [dei ministri] annunciato consiste esclusivamente di individui che sono membri dei talebani o dei loro stretti collaboratori e nessuna donna. Siamo anche preoccupati per le affiliazioni e i precedenti di alcuni individui», ha dichiarato martedì un portavoce del Dipartimento di Stato americano. Preoccupazioni, quelle d'oltreatlantico, dettate soprattutto dal fatto che il nuovo esecutivo talebano - oltre che da soli uomini - sia anche in gran parte costituito da personaggi della vecchia guardia, alcuni dei quali considerati significativamente pericolosi: il primo ministro Mohammad Hasan Akhund è soggetto a sanzioni dell'Onu, mentre il ministro dell'Interno, Sirajuddin Haqqani, è ricercato dall'Fbi. A metà strada tra le posizioni di Pechino e Washington si sono collocati Turchia e Qatar, i quali - pur ostentando cautela sui nomi del nuovo esecutivo - hanno in realtà molto da guadagnare nel tenere dei buoni rapporti con il neonato regime di Kabul. Non a caso sia Ankara che Doha - notoriamente stretti alleati - puntano a ritagliarsi il ruolo di mediatori tra i talebani e l'Occidente. Più negativa invece la reazione di Bruxelles che - non si capisce onestamente su quali basi - si aspettava un altro tipo di governo. «A una prima analisi dei nomi annunciati», ha detto un portavoce dell'Unione europea, «[il governo talebano] non sembra la formazione inclusiva e rappresentativa in termini di ricca diversità etnica e religiosa dell'Afghanistan che speravamo di vedere e che i talebani stavano promettendo nelle ultime settimane». Insomma, le posizioni in campo sembrerebbero delineare il quadro di una Cina vincitrice e di un'America che se ne esce con la coda tra le gambe. La situazione risulta tuttavia ben più complicata. Nonostante la soddisfazione ostentata, è ragionevole ritenere che Pechino non sia poi troppo contenta del nuovo governo talebano. La presenza di personaggi appartenenti alla vecchia guardia non costituisce infatti una garanzia per il Dragone. Non solo perché quelle figure non risultano storicamente troppo affidabili. Ma anche perché - come sottolineato dalla testata The Diplomat nel settembre 2016 - il vecchio Emirato islamico dell'Afghanistan (di cui Akhund fu, secondo Al Jazeera, vicepremier e viceministro degli Esteri) diede di fatto ospitalità, tra il 1998 e il 2001, a esponenti del Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim): organizzazione di miliziani dello Xinjiang acerrima nemica di Pechino. Va ricordato che, in occasione dei contatti con i talebani negli scorsi mesi, i cinesi hanno subordinato il proprio aiuto economico alla rottura dei legami - da parte dei «barbuti» - con quell'organizzazione. Non sarà del resto un caso che ad esprimere delle preoccupazioni sia stato, giusto ieri, il Global Times (organo del Partito comunista cinese), che in un'analisi ha avanzato dubbi sull'eventualità che i talebani abbiano realmente tagliato i ponti con i loro «vecchi alleati», manifestando inoltre una certa apprensione proprio in riferimento all'Etim. Va da sé che tali preoccupazioni cinesi non dispiacciano troppo a Washington. E non è neppure escluso che un simile scenario fosse alla fine uno degli obiettivi impliciti dell'accordo di Doha, siglato da Donald Trump a febbraio 2020. D'altronde, non solo l'allora presidente americano effettuò pressioni per il rilascio nel 2018 dell'attuale vicepremier talebano, Abdul Ghani Baradar, ma - lo scorso novembre - cancellò anche l'Etim dalla lista delle organizzazioni terroristiche, suscitando le ire di Pechino. Chissà che allora i servizi segreti americani non puntino a instaurare dei canali con alcuni pezzi del composito fronte talebano: magari con l'obiettivo di destabilizzare la regione dello Xinjiang. Anche perché proprio lo Xinjiang costituisce - per così dire - l'anello di congiunzione tra i due principali fronti di scontro in essere tra Washington e Pechino: l'Afghanistan e l'Indo-Pacifico. È quindi in questo contesto che gli americani continueranno prevedibilmente a puntare i riflettori sul tema della repressione cinese degli uiguri. Un tema che, a livello generale, è fonte di imbarazzo internazionale per il Dragone. E che, più nel dettaglio, rischia di creare notevoli turbolenze nei rapporti tra Pechino e Kabul. La Cina, insomma, non può permettersi di dormire sonni tranquilli. E gli americani questo lo sanno bene. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-cina-porge-i-suoi-omaggi-ma-laccozzaglia-talebana-puo-crearle-molti-problemi-2654949093.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prima-scelta-della-giunta-dei-mullah-no-cricket-femminile-si-scoprono" data-post-id="2654949093" data-published-at="1631166599" data-use-pagination="False"> Prima scelta della giunta dei mullah. No cricket femminile: «Si scoprono» Qualora ci fossero ancora dubbi sul fatto che i talebani siano cambiati rispetto a 20 anni fa, loro stessi sembrano impegnarsi per far capire che rimangono identici al passato. Con la formazione del nuovo governo «provvisorio», un monocolore fondamentalista, è stato reso palese che i nomi saliti al potere sono quelli del vecchio Emirato e, quando ciò non è stato possibile per decessi sopraggiunti nel frattempo, il comando è stato affidato a figli, nipoti e compari d'arte. Ma le somiglianze col passato non si fermano certo qui. Dopo i pestaggi dei manifestanti contro il nuovo governo, l'uccisione di donne poliziotto, il divieto della musica e la distruzione dell'orchestra nazionale, la separazione tra uomini e donne nelle università e l'obbligo per queste di indossare il niqab che lascia scoperti solo gli occhi, ulteriori tasselli si aggiungono al quadro che richiama alla mente antichi orrori. Questa volta tocca allo sport essere messo sotto accusa. Negli ultimi venti anni si erano formate a Kabul come a Herat, prestigiose squadre di cricket femminile. Uno sport molto amato e diffuso nel Paese, segno dell'antica presenza inglese, che ha portato i suoi atleti al di fuori dei confini afghani con risultati ottimi. Questa attività sarà da oggi vietata alle donne, come avveniva prima del 2001. Ahmadullah Wasiq, vice della commissione cultura talebana, ha esplicitato il divieto fornendone anche le motivazioni: «Non credo che alle donne sia consentito giocare a cricket, perché non è necessario che le donne giochino a cricket». Una spiegazione che, qualora lasci perplessità sul suo senso, viene fornita di dettagli: «Lo sport fa sì che durante il gioco le donne possano trovarsi ad affrontare situazioni in cui il loro viso o una parte del corpo restino scoperte. L'islam non permette che le donne vengano viste così». La paura è che il mondo intero possa guardare queste immagini ritenute «scandalose», visto che nell'era di Internet e della tv le foto delle giocatrici potrebbero girare il globo. Intanto monta l'insofferenza verso il governo talebano, accusato da parte della popolazione - che continua a protestare nelle piazze - di pensare solo a come limitare i diritti e le libertà, mentre la gente muore di fame, anche per il blocco dei fondi bancari da parte dei governi esteri. Ai giornalisti è stato fatto espresso divieto di documentare tutto quello che riguarda le proteste: i talebani intendono mantenere la loro apparenza di governo che gode dell'appoggio popolare. A demolire questa rappresentazione c'è il Fronte di resistenza nazionale. I combattenti del Panjshir, dopo la caduta della valle, proseguono comunque nella loro lotta. «I ialebani continuano con attacchi deliberati e su larga scala contro i civili. La loro è una campagna di massacri e il loro governo è illegale». Intanto, nel pomeriggio di ieri, si è fatto sentire l'ex presidente afghano, Ashraf Ghani, fuggito dal Paese durante la presa di Kabul: «Per tutta la mia vita, ho creduto che la formula di una repubblica democratica fosse l'unica in grado di portare ad un Afghanistan prospero, sovrano e pacifico. Le mie azioni sono state sempre guidate dalla costituzione del 2004 che ci dà tutti gli strumenti per il dialogo e per comporre le nostre differenze». Ghani ha voluto ribadire di essersi allontanato dall'Afghanistan per evitare che scoppiasse una nuova guerra civile come negli anni Novanta e ha invitato l'Onu a controllare le sue finanze per liberarlo dall'accusa di corruzione che gli è stata mossa. «Durante il mio mandato ho lottato contro la corruzione, vera piaga del nostro Paese», ha detto.
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A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
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Il punto è che l’argento ha trovato il modo perfetto per piacere a tutti. Agli investitori spaventati dal debito mondiale fuori controllo che potrebbe incenerire il valore delle monete, ai gestori che temono la stagflazione (il mostro fatto da inflazione e recessione), a chi guarda con sospetto al dollaro e all’indipendenza della Fed. Ma anche - ed è qui la vera svolta - all’economia reale che corre verso l’elettrificazione, la digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale. Un metallo bipartisan, potremmo dire: piace ai falchi e alle colombe, ai trader e agli ingegneri.
Dietro il rally non c’è solo la solita corsa al riparo mentre i tassi Usa scendono fra le prudenze di Powell e le intemperanze di Trump. Il debito globale fa il giro del mondo senza mai fermarsi. C’è soprattutto una domanda industriale che cresce come l’appetito di un adolescente davanti a una pizza maxi. L’argento ha proprietà di conducibilità elettrica e termica che lo rendono insostituibile in una lunga serie di tecnologie chiave. E così, mentre il mondo si elettrifica, si digitalizza e si affida sempre più agli algoritmi, il metallo lucente diventa il filo conduttore - letteralmente - della nuova economia.
Prendiamo il fotovoltaico. Nel 2014 assorbiva appena l’11% della domanda industriale di argento. Dieci anni dopo siamo al 29%. Certo, i produttori di pannelli sono diventati più efficienti e riescono a usare meno metallo per modulo. Ma dall’altra parte della bilancia ci sono obiettivi sempre più ambiziosi: l’Unione europea punta ad almeno 700 gigawatt di capacità solare entro il 2030. Tradotto: anche con celle più parsimoniose, di argento ne servirà comunque a palate.
Poi ci sono le auto elettriche, che di sobrio hanno solo il rumore del motore. Ogni veicolo elettrico consuma tra il 67% e il 79% di argento in più rispetto a un’auto a combustione interna. Dai sistemi di gestione delle batterie all’elettronica di potenza, fino alle colonnine di ricarica, l’argento è ovunque. Oxford Economics stima che già entro il 2027 i veicoli a batteria supereranno le auto tradizionali come principale fonte di domanda di argento nel settore automotive. E nel 2031 rappresenteranno il 59% del mercato. Altro che rottamazione: qui è l’argento che prende il volante.
Capitolo data center e Intelligenza artificiale. Qui i numeri fanno girare la testa: la capacità energetica globale dell’IT è passata da meno di 1 gigawatt nel 2000 a quasi 50 gigawatt nel 2025. Un aumento del 5.252%. Ogni server, ogni chip, ogni infrastruttura che alimenta l’Intelligenza artificiale ha bisogno di metalli critici. E indovinate chi c’è sempre, silenzioso ma indispensabile? Esatto, l’argento. I governi lo hanno capito e trattano ormai i data center come infrastrutture strategiche, tra incentivi fiscali e corsie preferenziali. Il risultato è una domanda strutturale destinata a durare ben oltre l’ennesimo ciclo speculativo.
Intanto, sul fronte dell’offerta, la musica è tutt’altro che allegra. La produzione globale cresce a passo di lumaca, il riciclo aumenta ma non basta e il mercato è in deficit per il quinto anno consecutivo. Dal 2021 al 2025 il buco cumulato sfiora le 820 milioni di once (circa 26.000 tonnellate). Un dettaglio che aiuta a spiegare perché, nonostante qualche correzione, i prezzi restino ostinatamente alti e la liquidità sia spesso sotto pressione, con tassi di locazione da record e consegne massicce nei depositi del Chicago Mercantile Exchange, il più importante listino del settore.
Nel frattempo gli investitori votano con il portafoglio. Gli scambi sui derivati dell’argento sono saliti del 18% in pochi mesi. Il rapporto oro-argento è sceso, segnale che anche gli istituzionali iniziano a guardare al metallo bianco con occhi diversi. Non più solo assicurazione contro il caos, ma scommessa sulla trasformazione dell’economia globale.
Ecco perché l’argento oggi non si limita a brillare: racconta una storia. Quella di un mondo che cambia, che consuma più elettricità, più dati, più tecnologia. Un mondo che ha bisogno di metalli «di nuova generazione», come li definisce Oxford Economics. L’oro resta il re dei ben rifugio, ma l’argento si è preso il ruolo più ambizioso: essere il ponte tra la paura del presente e la scommessa sul futuro. E a giudicare dai prezzi, il mercato ha già deciso da che parte stare.
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