2022-03-30
La Cina critica Biden e si stringe a Putin
Xi Jinping (Kevin Frayer/Getty Images)
Le gaffe e le uscite improvvide del presidente americano rafforzano l’asse tra Mosca e Pechino. Il cui ministero degli Esteri ora fa la voce grossa: «Siamo due grandi potenze, non cercate di contenerci o sopprimerci». Emmanuel Macron sente il leader russo.Nel 2016, il macroeconomista Peter Navarro (che poi sarebbe entrato nel team di Donald Trump) pubblicò un prezioso volume che descriveva la Cina come una «tigre accovacciata» («crouching tiger»). L’immagine - altamente evocativa - di una belva al momento ferma ma un domani pronta ad aggredire, ha il valore di un avvertimento per noi occidentali: il mix tra lo spaventoso militarismo cinese e la sua crescita economica non può farci pensare a relazioni tranquille. Navarro, nel volume, cita pour cause la «trappola di Tucidide», concetto elaborato dallo studioso Graham Allison: se c’è un potere costituito, una potenza pre-esistente (Sparta), e improvvisamente entra in scena una potenza emergente (Atene), è fatale che si inneschino meccanismi di conflitto (paura degli uni, mire espansionistiche degli altri). Rispetto a 2500 anni fa, i pessimisti potrebbero far notare che, diversamente dalle Guerre del Peloponneso, stavolta la potenza in ascesa non assomiglia ad Atene, ma alla superbelligerante Sparta, il che rende lo scenario ancora più minaccioso. Ripescando i capitoli più interessanti di quel saggio, c’è una sezione dedicata alla Russia di Vladimir Putin. Tanti elementi - fa capire Navarro - inducono a ritenere naturale l’asse tra Mosca e Pechino: due regimi autoritari, e soprattutto una enorme complementarietà tra lo strapotere energetico russo e lo strapotere manifatturiero cinese. L’unico elemento (scriveva Navarro nel 2016) che avrebbe potuto indurre l’orso russo alla cautela era il divario economico e di popolazione vantato da Pechino, che poteva far temere a Mosca di giocare un ruolo fatalmente subordinato, in prospettiva. Ecco, sei anni dopo la pubblicazione di quel testo, è come se la scintilla dell’invasione russa in Ucraina avesse materializzato la peggiore delle ipotesi tratteggiate da Navarro: la saldatura tra Russia e Cina, l’accettazione da parte della prima (per necessità) della primazia cinese, l’uso (da parte della seconda) di un’occasione magari non ricercata, forse perfino non gradita (il conflitto in Ucraina), ma a questo punto propizia per consentire alla tigre di non restare più solo «accovacciata».Certo, l’intervento di Joe Biden, sabato a Varsavia, non è stato felice: a maggior ragione perché seguito da troppe piroette (una doppia smentita dalla Casa Bianca e dal Segretario di Stato, e poi invece una conferma due giorni dopo da parte dello stesso presidente Usa). Inutile girarci intorno: Biden, dalla precipitosa fuga dall’Afghanistan in poi, sta trasmettendo un senso di debolezza e di confusione che rappresenta un’occasione per tutti i nemici dell’Occidente.E ieri Pechino ha colto la palla al balzo. Prima è giunta la polemica da parte del Global Times, uno dei megafoni del regime: «Non importa quanto bene funzioni la macchina della propaganda di Biden: non può sminuire il fatto che una dichiarazione del genere in un momento tanto delicato potrebbe infiammare ulteriormente la situazione. Questo è stato poco saggio e irresponsabile, e riflette un terribile problema all’interno della politica statunitense».Poi è arrivato l’ulteriore attacco da parte del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin contro il rapporto Usa sulla strategia di difesa nazionale: «È pieno di idee da Guerra fredda: Cina e Russia sono due grandi potenze e il tentativo di contenere e sopprimere entrambi i Paesi non avrà successo». Vedete come la prospettiva è ribaltata, con un tocco vittimistico tipico dei regimi in ogni tempo: sono gli altri che vogliono «sopprimerli». Ma Wang ha insistito, con toni esplicitamente provocatori: l’America «dovrebbe riflettere sulle proprie responsabilità nella crisi in Ucraina e correggere le sue pratiche di creazione di nemici immaginari, ignorando le preoccupazioni politiche e di sicurezza di altri Paesi». Infine una sequenza di avvertimenti: gli Usa non devono «cercare di cambiare il sistema cinese», né «cercare di opporsi alla Cina rafforzando le alleanze», né «sostenere l’indipendenza di Taiwan».A maggior ragione, c’è da essere preoccupati. Da un lato, si materializza una chiara convergenza tra i nemici dell’Occidente. Dall’altro, questo Occidente già diviso al proprio interno (si pensi ad alcune ambiguità europee) e minato dalla cultura woke rischia di perdere la capacità di mantenere il contatto con altri interlocutori di cui avrebbe bisogno. Ad esempio, è un clamoroso errore di Biden essersi ritrovato proprio adesso al livello più basso di rapporti con l’Arabia Saudita (che infatti dialoga a sua volta con Pechino): l’amministrazione democratica non sta aiutando Riad rispetto alla vicenda dello Yemen, e semmai sta provocando l’Arabia Saudita attraverso una nuova intesa con l’Iran. Su un piano diverso, non è sfuggito a nessuno il voto di astensione all’Onu dell’India, sempre più oscillante e «terza». Sarebbe autolesionistico continuare a fare regali strategici di questo tipo a Pechino.Rilevanti personalità Usa sono consapevoli del problema. Ieri il senatore repubblicano Marco Rubio ha tenuto una importante conferenza presso la Heritage Foundation proprio sul tema della guerra russa e della minaccia cinese. Delineando una strategia articolata, Rubio ha proposto una maggiore unità in America sulla politica estera, una più dura lotta contro lo spionaggio di Pechino, un più rapido disaccoppiamento dell’economia occidentale da quella cinese, e un rafforzamento delle difese da assicurare agli alleati. Il tempo stringe e la minaccia cresce. Da segnalare infine, sempre ieri, un’ennesima e molto lunga telefonata tra Putin ed Emmanuel Macron.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?
Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)