
Una sentenza della Suprema corte stabilisce che ci può essere odio etnico anche se non si fa riferimento all'inferiorità di una razza. In questo modo, però, chiunque si opponga all'immigrazione senza limiti diventa un mascalzone. Pure se ha la ragione dalla sua.Ed ecco che, in un solo colpo, siamo diventati tutti razzisti. Grazie a una paginetta di testo, chiunque si opponga all'immigrazione di massa è un pericoloso odiatore, una specie di nazista. Giovedì la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza numero 32028, ha confermato la condanna inflitta a un uomo di 45 anni per lesioni ai danni di due stranieri (fatti avvenuti a Gallarate nel 2010) e ha riconosciuto come aggravante la «finalità di discriminazione razziale». A testimonianza di tale volontà discriminatoria ci sarebbero alcune frasi rivolte dal colpevole alle sue vittime (due bengalesi): «Che venite a fare qua... Dovete andare via», ha gridato l'uomo. Per questo motivo, sui media italiani e presso larga parte dell'opinione pubblica, la questione è stata ridotta a un semplice concetto: dire che gli immigrati devono andare via dall'Italia è razzismo. In realtà, la faccenda è un poco più complicata. Tanto per cominciare, nella vicenda di Gallarate ci sono state anche violenze fisiche, percosse inflitte con un bastone o un manganello. Insomma, l'uomo che ha invitato i migranti a lasciare il Paese è passato alle vie di fatto, picchiando. Il contesto in cui la frase «andate via» è stata pronunciata, dunque, non è irrilevante: non si tratta di uno scambio di opinioni, ma di botte. Ma vediamo che dice la sentenza. La Corte spiega che «la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso è configurabile in linea generale [...] in espressioni che rivelino la volontà di discriminare la vittima in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa». Non serve che una frase «riconduca alla manifestazione in un pregiudizio nel senso di inferiorità di una determinata razza». Quel che conta è che «la condotta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio etnico e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori».Qui non si parla propriamente di razzismo, dunque, ma al massimo di discriminazione etnica, la quale consiste nel «trattamento differenziato di un individuo o di un gruppo di individui a causa dei suoi / loro tratti somatici, dell'appartenenza culturale e di quella linguistica».Proprio qui sta il punto. Il razzismo, secondo la Treccani, è la «concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze». Se uno sostiene che gli immigrati irregolari devono andare via dall'Italia, non sta affermando la supremazia di una razza. Anche perché gli immigrati non sono soltanto i neri africani. Ci sono anche i bianchi provenienti da altri Paesi europei, i cinesi eccetera. Semmai, sono i signori umanitari di sinistra a stabilire una sovrapposizione fra «migrante» e «nero».In ogni caso, il comune cittadino che vuole limitare gli ingressi e tifa per i rimpatri non lo fa per motivi che riguardano il colore della pelle o la supremazia razziale. E non lo fa nemmeno per questioni di etnia, lingua o cultura. Lo fa sulla base di altre ragioni. Sul fatto, per esempio, che un immigrato irregolare delinque parecchie volte di più di un italiano (consultare gli studi di Luca Ricolfi in materia per fugare ogni dubbio). Il rifiuto del migrante, poi, è motivato dal fatto che l'arrivo di un esercito di lavoratori a basso costo contribuisce a livellare i salari degli autoctoni. In aggiunta, ci sono altri non trascurabili dettagli come il rischio terrorismo, il degrado dei quartieri, le spese per il Welfare che ricadono sulle tasche di tutti. La sentenza della Cassazione (anche in virtù del modo in cui viene utilizzata nella polemica politica) contribuisce a far passare un concetto pericoloso, una vera e propria modificazione genetica della nostra lingua. Quello che si tenta di fare, oggi, è di imporre una nuova visione del razzismo, più ampia e generica.È il «neorazzismo» di cui ha parlato in un breve ma denso saggio uscito qualche tempo fa Donatella Di Cesare. Si tratta di un tipo di razzismo che, ha scritto la filosofa, «seguita a discriminare, ma non “in nome della razza". Un razzismo che non dice, ad esempio, “gettiamo a mare quei negroni", ma parla di “respingimenti" e del necessario “rimpatrio degli immigrati"». Il «neorazzismo» - questo il pensiero diffuso a sinistra - «sceglie pratiche inedite, preferisce un nuovo vocabolario», fa leva «sul timore del declassamento e se ne serve in difesa dell'identità nazionale». Capito? In base a questa definizione «larga», razzista non è solo chi discrimina su basi biologiche, ma chiunque rifiuti, appunto, di accogliere gli immigrati. O chiunque difenda l'identità nazionale. In pratica, ogni persona che abbia idee diverse da quelle della sinistra multiculturalista.A che cosa serve cambiare il senso della parola razzismo? Semplice: permette di mutare la realtà e rivolgere accuse infamanti agli avversari politici, delegittimandoli. L'opinione del popolo italiano è chiara: no all'accoglienza indiscriminata. Non esistono, del resto, motivazioni logiche per sostenere l'apertura delle frontiere a chiunque. E allora come si fa ad attaccare chi esprime una posizione di puro buonsenso? Facile: gli si impone la scomunica. Si dice che è razzista, anche se il razzismo vero è un'altra cosa. Dunque, chi ha certe idee bisogna che le cambi, se non vuole venire additato come un mascalzone. Facciamo un esempio pratico. Io sono convinto che i richiedenti asilo nigeriani che a Mestre spacciavano eroina killer debbano tornarsene immediatamente a casa. Se li incontrassi, direi loro: «Che venite a fare qua... Dovete andare via». Quindi, secondo la Cassazione, diventerei immediatamente colpevole di odio razziale. Eppure, a me non frega assolutamente niente del colore della pelle di queste persone. Non mi interessa se parlano inglese, francese o tedesco. Non mi infastidisce la loro «cultura» o la loro «etnia». Mi fa infuriare, però, il loro comportamento. Le ragioni per cui non li voglio qui sono estremamente razionali e documentate. Se però qualcuno mi appiccica - magari tramite sentenza - l'etichetta di «razzista», allora tutte le mie argomentazioni non valgono più. Divento, automaticamente, un imbecille che odia chi è diverso da lui. Divento un fanatico che si richiama a teorie pseudoscientifiche le quali, nel corso della storia, hanno prodotto orrori, stragi e massacri. Ecco perché è necessario stare molto attenti. Il razzismo è una cosa precisa, ha precise origini e precise manifestazioni pubbliche. Invitare uno straniero a tornarsene a casa non è razzismo. In certi casi può perfino essere un bell'augurio. Dopo tutto, poter vivere bene a casa propria è un diritto.
2025-09-14
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