2021-12-23
La caccia al tampone certifica la fine del pass
Mentre il governo assiste al fallimento della carta verde senza riuscire ad ammettere l’errore, gli italiani in coda per il test mandano un segnale: nessuno crede più alla narrazione ufficiale. Per essere sicuri le iniezioni e le tessere non bastano.Al netto dell’ottusità, l’ostinazione con cui gli adepti della Cattedrale sanitaria continuano a difendere il green pass è quasi commovente. Quasi, però. Perché suscita invece un filino di irritazione la recente tendenza a confessare surrettiziamente ciò che fino a ieri era accuratamente nascosto in piena luce, e cioè che la carta verde fosse solo ed esclusivamente uno strumento politico, per nulla sensato dal punto di vista sanitario e privo di ogni base scientifica. Come noto, la carta fu presentata come indispensabile al fine di mettere in sicurezza la popolazione, una sorta di chiave utile a spalancare i cancelli del paradiso immunitario. Ora, tuttavia, anche Mario Draghi è stato costretto a correggere il tiro, ovviamente evitando di ammettere l’errore. Quella sul green pass, ha detto ieri «è stata una comunicazione appropriata, è diventato un po’, forse enfaticamente, strumento di libertà». Beh, se lo è diventato è perché qualcuno lo ha presentato come tale, anche se era evidente fin dal principio che l’intero impianto retorico riguardante la carta verde fosse stato costruito su una clamorosa fallacia. Draghi sostiene adesso che «la comunicazione sul green pass e sul super green pass si basava sulle conoscenze a quel momento, e quella affermazione era giusta su quelle basi. Nessuno ha mai voluto dire che il green pass garantiva l’immunità anche dopo la sua scadenza o dopo scadenza dell’efficacia della seconda dose». Di nuovo, si tratta di una bugia. Che il tesserino garantisse la protezione è stato fatto credere eccome, ancora adesso ci sono fior di dottori i quali - quando non cantano alla radio - sono comunque impegnati a canticchiare le lodi del documento verde. C’è persino, in queste ore, chi tenta di aggrapparsi ai vetri e arriva a sostenere che il lasciapassare sia stato introdotto per «proteggere i non vaccinati» dal contagio da parte degli inoculati (lo ha dichiarato, e senza ridere, il professor Luca Richeldi del Gemelli).Come stiano realmente le cose lo ha svelato - con involontaria onestà - il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Parlando al Corriere della Sera, ha certificato la natura squisitamente politica (e ideologica) della tessera. «Il Paese si è dato una strategia politica netta», ha detto, «estendere la campagna vaccinale a tappeto, con terze dosi, ai bambini tra 5 e 11 anni, le categorie professionali, per non dire dei tanti che stanno facendo le prime dosi dopo mesi di dubbi. Chiedere adesso ai vaccinati di fare il tampone per entrare in cinema, teatri, ristoranti o stadi indebolisce proprio la campagna vaccinale nel momento in cui dobbiamo invece spingere ancora di più sulle somministrazioni».Tutto chiarissimo, ma conviene tradurlo al fine di rendere il discorso ancora più esplicito. Il Paese non «si è dato una strategia politica netta». È stato il governo a scegliere di puntare tutto solo ed esclusivamente sul vaccino, introducendo il green pass come forma mascherata (e nemmeno troppo) di obbligo. Si tratta dello stesso governo che - nella persona del ministro Roberto Speranza - ora vorrebbe introdurre il tampone anche per i vaccinati. Misura, quest’ultima, in sé anche sensata: poiché tutti possono contagiare e contagiarsi (come si sa da mesi), fidarsi del lasciapassare è pericoloso, perché induce false sicurezze. Ed è qui che Bonaccini e tanti altri hanno da ridire: si sono resi conto, giustamente, che l’imposizione del tampone sbriciola ogni discorso a favore della carta verde, e fiutano l’aria sentendo odore della rabbia. Cioè del risentimento degli italiani a cui avevano voluto far credere di aver risolto la situazione grazie alla tessera miracolosa.Delle due l’una, infatti: o il certificato verde è uno «strumento di libertà», come Partito democratico, Movimento 5 stelle, Forza Italia e tanti altri hanno dichiarato per settimane (evitiamo per pietà di riportare nomi e citazioni) oppure è soltanto una mistificazione utile a coprire numerose carenze governative a prezzo di una discriminazione feroce.Bonaccini, da emiliano vecchio stile, vorrebbe risolvere la questione in termini marxisti, sostituendo però il vaccinismo (malattia senile della sanità) alla fede nel partito. Il marxismo, scriveva Raymond Aron, «è una sintesi eclettica, che combina i motivi fondamentali del pensiero progressista, e si ispira a una scienza garante della vittoria finale». Ecco, il vaccinismo è la stessa identica cosa. Esso sostiene, proprio come il marxismo, che «la storia del partito (vaccinista, ndr) è storia sacra, e si risolverà nella redenzione dell’umanità». In questa prospettiva, la Cattedrale sanitaria «non può né deve sbagliare, poiché è il portavoce e il realizzatore della verità della Storia» (ancora Aron). Ergo è necessario negare l’evidenza, e difendere l’indifendibile, aggrappandosi al lasciapassare come fosse un piano quinquennale.C’è però, in questa situazione orrenda e purtroppo già vista, un elemento di novità. C’è il fatto che il popolo italiano - finora bistrattato, considerato infantile, destinatario di menzogne e di violenze - ha iniziato a spogliare l’imperatore dei suoi vestiti nuovi. Mentre i caporioni di partito si accapigliano e i dottorini fanno oooh, i nostri concittadini hanno svelato da soli la bugia del green pass. In vista delle feste, stanno affollando le farmacie onde sottoporsi a test rapido. Altri, purtroppo, hanno provveduto a cancellare brindisi in ufficio, cene festive e scambi di baci sotto il vischio. Vaccinati con due e perfino con tre dosi, non si fidano più del codice immunitario, e non sono più così sicuri che la colpa del contagio ricada solo ed esclusivamente sui miserabili no vax.Ebbene, in una nazione seria, si prenderebbe atto di questa realtà e si agirebbe di conseguenza. Si provvederebbe, cioè, all’abolizione della carta verde, evitando contestualmente di trasformare il tampone in un nuovo feticcio sanitario. Accadrà? Probabilmente no: la Cattedrale sanitaria non può ammettere di aver sbagliato, e infatti sta provvedendo maldestramente a cancellare le tracce. La fede vaccinista, dopo tutto, non ammette dubbi: solo dogmi. Dunque il certificato verde (oppio dei medici più che dei popoli) deve restare una divinità incontestabile, l’Alfa e l’Omega, con buona pace di Omicron.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)