Trenta dicembre: è questa la data in cui il parlamento britannico si riunirà per ratificare l’accordo sulla Brexit: un’intesa di 1.246 pagine, raggiunta lo scorso giovedì tra Londra e Bruxelles. Da quanto emerge, le due parti sembrerebbero aver siglato un sostanziale compromesso, subito battezzato “l’intesa della Vigilia di Natale”.
A livello generale, le attività commerciali tra Regno Unito ed Unione Europea non risulteranno gravate da dazi. Nello specifico, troviamo vittorie e sconfitte in entrambi i lati. Londra ha raggiunto alcuni risultati significativi. In primo luogo, eventuali dispute non ricadranno sotto la giurisdizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: un punto decisivo per il fronte britannico, che ha costantemente visto in questo obiettivo la salvaguardia della propria sovranità. In secondo luogo, Downing Street è riuscita ad ottenere normative più vantaggiose in materia di aiuti di Stato. Bruxelles è stata tuttavia in grado di spuntarla su altri fronti. Londra ha accettato condizioni meno favorevoli del previsto in riferimento alla spinosa questione della pesca, mentre non avrà luogo il riconoscimento automatico delle qualifiche professionali.
Insomma, si tratta – per entrambe le parti – di un accordo in chiaroscuro: un accordo dalle conseguenze politiche difficilmente prevedibili. Guardiamo innanzitutto al Regno Unito. È indubbiamente plausibile ritenere che questa intesa possa rafforzare Boris Johnson, il quale sul completamento della Brexit aveva impostato la propria campagna elettorale l’anno scorso. Il primo ministro aveva del resto estrema necessità di conseguire un risultato importante, soprattutto dopo che – negli ultimi mesi – la sua leadership si era ritrovata fortemente indebolita a causa della pandemia del Covid-19. In tal senso, almeno sulla carta, l’accordo dovrebbe avere i numeri per essere approvato a Westminster la prossima settimana: ampi settori del Partito Conservatore dovrebbero sostenerlo, mentre lo stesso leader laburista Keir Starmer si è detto favorevole a votarlo. “Quando questo accordo verrà presentato al parlamento, i laburisti lo accetteranno e voteranno a favore”, ha dichiarato.
Eppure bisogna essere cauti. Perché all’orizzonte rischiano di addensarsi preoccupanti nubi. Innanzitutto sarà necessario capire la posizione delle aree più euroscettiche dello stesso Partito Conservatore: quelle aree che, per intenderci, puntavano sul no deal. In secondo luogo, lo stesso Starmer sta subendo in queste ore delle rivolte all’interno del suo partito, da parte di settori che chiedono o l’astensione o addirittura il voto contrario all’intesa. In terzo luogo, ulteriori turbolenze stanno arrivando dalla Scozia. L’accordo sulla Brexit penalizzerà infatti l’export della patata da seme, che viene soprattutto prodotta proprio in Scozia e nel Nord dell’Inghilterra. Un discorso parzialmente analogo parrebbe valere per la pesca, con la premier scozzese, Nicola Sturgeon, che ha attaccato Johnson su questo fronte. In tal senso, la stessa Sturgeon è tornata a ripetere che la Brexit sia avvenuta a discapito della Scozia e contro il suo volere: una linea che sembrerebbe preludere alla richiesta di un nuovo referendum indipendentista (dopo quello – fallito – del 2014). Tutto questo, senza infine dimenticare alcuni rilevanti mal di pancia nell’Irlanda del Nord che, nel 2016, votò – come la Scozia – a favore del Remain. Insomma, la questione principale che rischia di caratterizzare la politica interna britannica dei prossimi mesi è quella della gestione, da parte di Downing Street, di spinte centrifughe che si stanno facendo sempre più significative.
Venendo all’Unione Europea, la situazione appare piuttosto ingarbugliata. A livello generale, il compromesso raggiunto con il Regno Unito potrebbe produrre alcune particolari conseguenze. Innanzitutto, Bruxelles – senza Londra – vede un ulteriore indebolimento del proprio peso geopolitico, aprendo inoltre indirettamente le porte ad eventuali casi di emulazione. In secondo luogo, non è escluso che l’accordo possa creare delle tensioni in seno all’asse franco-tedesco. Non dimentichiamo infatti che – nella fase delle trattative con Londra – Francia e Germania portassero (nascostamente) avanti delle linee non poco divergenti. Parigi chiedeva un approccio duro, per silurare definitivamente il Regno Unito dall’orbita dell’Unione e rafforzare così il suo progetto di leadership politica a livello europeo. Dall’altra parte, proprio per controbilanciare le mire di Emmanuel Macron, Berlino ha sempre mirato a un divorzio amichevole con i britannici. È quindi chiaro che, all’interno del fronte europeo, l’accordo sia stato probabilmente salutato con maggior favore dalla Germania che dalla Francia. E che verosimili fibrillazioni nell’asse franco-tedesco si ripercuoteranno prevedibilmente sull’intera Unione Europea.
Infine non trascuriamo il “convitato di pietra”: gli Stati Uniti d’America. Non dimentichiamo che la Brexit fosse entrata – per quanto lievemente – nell’ultima campagna elettorale per le presidenziali americane, con l’allora candidato democratico, Joe Biden, che si era mostrato freddo su un eventuale accordo di libero scambio tra Washington e Londra. Una linea ben differente da quella di Donald Trump che, al contrario, ha ripetutamente invocato negli ultimi anni un’intesa del genere. Va d’altronde da sé che il risultato delle presidenziali statunitensi abbia avuto un impatto sull’esito dei negoziati per la stessa Brexit. La sconfitta di Trump ha in un certo senso indebolito il potere contrattuale di Johnson: non trascuriamo infatti che la strategia di quest’ultimo fosse oscillare come un pendolo tra Washington e Bruxelles, mettendo così gli europei sotto pressione. È quindi proprio nella sconfitta di Trump che va ricercata forse una delle ragioni che hanno spinto il premier britannico ad accettare alcune condizioni non troppo vantaggiose per Londra.
C’è poi un’ultima considerazione da fare. La Brexit potrebbe favorire Londra sul piano geopolitico, proprio a partire dal rapporto con Washington. Il Regno Unito si è separato dall’Unione Europea in una fase storica in cui il Vecchio Continente sta diventando sempre meno centrale per la politica estera americana (e, questo, indipendentemente da chi sieda alla Casa Bianca). Al di là delle differenze di natura ideologica con i democratici, Johnson – svincolato dai lacci europei – potrebbe ora tentare di rilanciare la “relazione speciale” con gli Stati Uniti. Un’idea ambiziosa che – c’è da giurarci – a Downing Street stanno accarezzando. Un’idea che dovrà comunque fare i conti con le suddette fibrillazioni interne. La grande sfida di Johnson nel post Brexit sarà quindi quella di trovare un ragionevole equilibrio tra dimensione locale e internazionale. Non sarà facile. Ma neppure impossibile.





