2020-11-05
La Bce ci ricatta su Mes e Recovery fund
Christine Lagarde (Kay Nietfeld:picture alliance via Getty Images)
La Banca centrale avverte l'Eurozona e consiglia ai singoli Paesi di accettare i prestiti Ue, pena l'esclusione dei titoli di debito dal programma di acquisto da parte di Francoforte. E se le obbligazioni restano invendute, gli spread torneranno a impennarsi.Ormai da mesi sosteniamo, dati e documenti alla mano, che la pressione a favore dei prestiti (tra cui il Mes, ma non solo) erogati dalle istituzioni europee, ha motivazioni esclusivamente politiche, data l'assoluta inconsistenza delle motivazioni finanziarie e giuridiche che vengono addotte per dimostrarne la convenienza. Mercoledì sera, l'agenzia giornalistica internazionale Reuters ci ha fornito l'ennesima pistola fumante a sostegno di questa tesi. Attraverso questo canale informale, ben quattro fonti interne alla Bce hanno sapientemente veicolato, come solo loro sanno fare quando c'è da far capire le cose a chi deve capirle, un messaggio forte e chiaro: a Francoforte esistono posizioni diverse circa l'entità e le caratteristiche che dovrebbe avere il prossimo probabile aumento del programma di acquisti di titoli (soprattutto pubblici) da decidersi il prossimo 10 dicembre che, finora, ha avuto l'effetto di abbattere i rendimenti dei titoli di Stato e di rendere meno attrattivi i prestiti europei. E questo non va bene. Bisogna uscire dall'emergenza e tornare alla normalità.Basterebbe questo per smentire anni di prediche sulla «credibilità» del Paese che avrebbe determinato l'andamento dello spread. I fatti ci dimostrano che c'è un unico attore protagonista sulla scena, la signora Christine Lagarde, e nessun comprimario si azzarderebbe a remarle contro, rinunciando peraltro al potenziale guadagno legato alla discesa che ancora promettono i rendimenti dei titoli italiani.Ma, riporta la Reuters, in Bce alcuni sostengono che bisogna spingere di più sul programma App, varato a marzo 2015 da Mario Draghi e ripartito a novembre 2019 con 20 miliardi di acquisti mensili, oltre a un pacchetto di altri 120 miliardi per l'intero 2020. Altri invece privilegerebbero il programma Pepp, partito a fine marzo con un tetto massimo di acquisti di 1.350 miliardi fino al 30 giugno 2021. La differenza tra i due programmi non è banale. Il primo è piuttosto rigido nella chiave di ripartizione degli acquisti tra i diversi Stati membri, identica alla quota di partecipazione al capitale della Bce. Inoltre è già passato al vaglio della Corte di Giustizia europea che ha definito gli essenziali paletti che lo rendono compatibile col divieto di finanziamento monetario del debito pubblico previsto dall'articolo 123 del Tfue. Il secondo è dotato di ben maggiore flessibilità nella scelta dei titoli e soprattutto nella ripartizione degli acquisti tra i Paesi. Basti pensare che, da marzo a ottobre, Bce ha investito in questo programma 629 miliardi, di cui 567 miliardi in titoli pubblici, tra cui 106 miliardi di titoli italiani. Mentre, con il programma Pspp (ramo del programma App), ha acquistato «solo» 199 miliardi di titoli pubblici, di cui 43 italiani. Con quest'ultimo programma, è recentemente molto diminuita la quota di titoli italiani sugli acquisti, viceversa col Pepp continuiamo ad avere una quota del 19/20%.Tutto ciò ha avuto sinora l'evidente effetto di provocare un netto abbassamento della curva dei tassi del nostro debito su tutte le scadenze, con il Bot a 12 mesi piazzata in asta al -0,44% ed il rendimento del Btp a 10 anni sceso al minimo storico del 0,66%. Ma soprattutto ha avuto l'effetto di rendere poco convenienti i tassi dei prestiti già operativi (come Sure e Mes) ed in corso di preparazione (come i 125 miliardi del Recovery fund per l'Italia) che prevedono gravose condizioni sia nella destinazione dei fondi che nel controllo da parte della Commissione.E ciò ci porta dritti al punto dirimente: gli acquisti della Bce, senza un corrispondente aumento del vincolo esterno a carico degli Stati beneficiari, equivalgono ad un «pasto gratis» a loro favore. E questo è intollerabile dal blocco a guida tedesca. L'altro ieri Isabel Schnabel, membro del Comitato esecutivo della Bce, ha confermato che siamo ancora lontani dalla fine dell'emergenza e che si prevede che, al termine degli acquisti del Pepp, i reinvestimenti dureranno ancora a lungo. Bce non può permettersi esitazioni, pena turbolenze sui mercati, ed ecco che si degna di recapitare un «pizzino» inequivocabile: o prendete quei prestiti, con il connesso carico di stringenti condizioni, oppure potrebbero accadere «cose spiacevoli».Un simile messaggio mette a nudo anche la pochezza degli argomenti di natura finanziaria a favore di quei prestiti: essi «convengono» perché sono accompagnati da condizioni, allo stesso modo in cui il programma di acquisti Omt, progettato da Draghi nel 2012 e mai attuato, necessitava di un programma di aggiustamento macroeconomico. Essendo quest'ultima opzione oggi politicamente impraticabile, ecco che i prestiti europei diventano il perfetto cavallo di Troia per far sì che ai piani alti dell'Eurotower dormano sonni tranquilli, vedendo l'Italia debitore di un creditore privilegiato. L'importanza di quelle condizioni è peraltro testimoniata, indirettamente, da quanto rivelato dal nostro giornale il 30 ottobre a proposito del prestito Sure, il cui contratto di finanziamento è tuttora segreto, quando invece, in virtù della tanto decantata convenienza finanziaria, avrebbe dovuto essere diffuso dalla propaganda a reti unificate.Definire tutto ciò un ricatto sembrerebbe forse eccessivo. Se non fosse per almeno un precedente, raccontato il 3 settembre 2016 in pubblico dal ministro della Giustizia del governo Gentiloni, Andrea Orlando: «La modifica - devo dire abbastanza passata sotto silenzio - della Costituzione per quanto riguarda il tema dell'obbligo di pareggio di Bilancio non fu il frutto di una discussione nel Paese. Fu il frutto del fatto che a un certo punto la Banca centrale europea, più o meno - ora la brutalizzo - disse: “O mettete questa clausola nella vostra Costituzione, o altrimenti chiudiamo i rubinetti e non ci sono gli stipendi alla fine del mese"».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)