2018-12-14
La battaglia di Terna contro la plastica monouso
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Jamie Michael è un marine, un veterano britannico della guerra in Iraq. Uno che ha visto la morte in faccia per servire il proprio Paese. Quello stesso Paese, il Regno Unito, che ora non gli permette di allenare la squadra di calcio della figlia perché, in un video su Facebook, Jamie ha definito i migranti «psicopatici» e «feccia» dopo un terribile fatto di cronaca.
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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Il giudice Brian Cregan ha deciso che Enoch Burke resterà in carcere fino a quando non avrà fatto ammenda, non si sarà mostrato pentito di avere offeso la Corte e non la smetterà di presentarsi nella sua ex scuola, l’istituto che lo ha cacciato ormai nel 2022. Burke è ancora in carcere e potrebbe dunque restarvi fino a Natale. Si trova nella prigione irlandese di Mountjoy, popolata per lo più da stupratori e persino da un killer, passa il tempo a leggere la Bibbia e partecipa in collegamento alle udienze che lo riguardano. Alle stesse udienze non possono invece partecipare i suoi famigliari, che martedì sono stati allontanati dall’aula dallo stesso Cregan. Martedì il tribunale ha discusso l’ennesimo ricorso di Burke, rispedendolo al mittente. E il giudice Cregan non ha usato parole dolci, anzi. A suo dire, Burke «non è in carcere per le sue opinioni sul transgenderismo, che ha pienamente diritto di avere». È detenuto, aggiunge Cregan, per aver offeso l’Alta Corte e per essere entrato più volte nella sua ex scuola.
«Non si limita a violare i locali», ha detto Cregan, «ma entra direttamente nel cuore della scuola, aggirandosi per i corridoi anche quando non ne ha il diritto. È una presenza maligna e minacciosa, un intruso che perseguita la scuola, i suoi insegnanti e i suoi alunni. Ma questa è una strategia deliberata: una strategia di confronto. Confrontarsi con il preside, confrontarsi con il vescovo, confrontarsi con la scuola, confrontarsi con le guardie di sicurezza; confrontarsi con i tribunali». Secondo il giudice, l’insegnante irlandese è in cerca di celebrità, ha addirittura qualcosa da nascondere sulle sue entrate, mente ed è pericoloso.
Probabilmente una affermazione è vera: quella di Enoch Burke è una strategia deliberata, utile a far discutere del suo caso. Una vicenda che ha dell’incredibile e avviene in Europa nel silenzio pressoché totale dei nostri media. Burke è stato sospeso dalla Wilson’s Hospital School nell’Irlanda centrale nell’agosto 2022 perché si è rifiutato di usare i pronomi richiesti da uno studente transgender. L’insegnante ha rifiutato di scusarsi, così la scuola lo ha licenziato e ha ottenuto un’ingiunzione del tribunale che gli impediva di entrare nell’edificio. Che si possa perdere il posto di lavoro perché ci si rifiuta di usare un pronome è decisamente assurdo, oltre che lievemente autoritario. Ma in Europa cose del genere non suscitano scandalo.
Ci si preoccupa e ci si indigna molto, anche in Italia, per la sorte di Géza Buzás-Hábel, attivista omosessuale rom fra gli organizzatori del gay pride svoltosi il 4 ottobre a Pecs, in Ungheria. Géza ha deliberatamente violato la legge ungherese che proibisce le parate dell’orgoglio, e per questo motivo rischia un anno di carcere. Ed è comprensibile che si ritenga ingiusto che qualcuno, nel Vecchio continente, possa rischiare il carcere per avere messo in piedi una manifestazione. Purtroppo la stessa enfasi non è posta sul caso di Burke. Anzi, nei suoi riguardi si scrive di tutto allo scopo di denigrarlo, di farlo passare come un pazzo che si ostina a violare la legge. E non ci si scandalizza se lo portano in tribunale con una catena che pare un guinzaglio, né per questo lo si candida alle elezioni.
A dirla tutta, le cose stanno in po’ diversamente da come vengono di solito raccontate. È vero, nonostante il divieto l’insegnante irlandese ha continuato a presentarsi nella sua ex scuola. Per questo motivo è stato incarcerato per la prima volta per oltraggio alla corte nel settembre 2022, dato che aveva ignorato l’ordinanza del tribunale. Altre tre incarcerazioni sono seguite, l’ultima di recente. Dal 2024, poi, Enoch viene condannato a pagare 700 euro ogni volta che si presenta a scuola. Ad ora deve allo Stato irlandese circa 225.000 euro.
La sua, con tutta evidenza, è una protesta politica e umanitaria. Una incredibile e caparbia dimostrazione di tenacia nella lotta contro il politicamente corretto fattosi regime che lo ha costretto a perdere il lavoro, lo stipendio e i diritti. Presentandosi davanti alla Wilson’s School lo scorso agosto, Burke ha dichiarato: «Ecco dove dovrei essere oggi. Non solo devo stare in corridoio e non posso insegnare e fare il mio dovere, ma mi stanno anche togliendo lo stipendio. Vengo ancora pagato, ho qui in tasca la mia busta paga, sono ancora in busta paga. Questo è il mio stipendio, questo è ciò a cui ho diritto, ogni centesimo viene dirottato dal mio conto a causa del Procuratore generale di questo governo».
In realtà, a differenza di ciò che afferma il giudice che continua a rimandarlo in prigione, Burke è punito per le sue idee. Se viola le ordinanze del tribunale è per disobbedienza civile nei riguardi di chi lo ha messo alla gogna proprio in virtù delle sue posizioni sul tema trans. Se Burke manifestasse per una causa diversa magari opposta, sarebbe trattato da eroe. Ma è soltanto un cristiano un po’ conservatore, e sappiamo come vanno queste cose. Come del resto accade anche in Italia, la libertà di pensiero vale soltanto per i pochi eletti, per i presunti buoni, non per gli altri. Burke resta in carcere, l’Europa liberale per lui non ha tempo: deve occuparsi di altri attivisti.
Il maestro Riccardo Muti si rivolge alla politica perché trovi una via per far tornare a Firenze i resti del genio toscano.
