2024-11-04
Il rifiuto dei padri rende più esposti all’indottrinamento
Konrad Lorenz (Getty Images). Nel riquadro la copertina del suo libro «L'uccisione dei propri simili» (edizioni Piano B)
Esce in libreria un testo profetico in cui il grande etologo Konrad Lorenz diagnosticava le «malattie» della nostra civiltà, dallo scontro generazionale all’autismo di massa al dominio della tecnica. Parlerò ora delle malattie della civiltà, cioè dei guasti rispetto ai quali non è in questione il problema della responsabilità morale. La civiltà è un prodotto dello spirito umano e, in quanto tale, un’unità sistematica per sua natura sovraindividuale. Le patologie della civiltà sono, letteralmente, patologie dello spirito umano, possono abbracciare la civiltà intera diventando quindi, dal punto di vista individuale, malattie epidemiche.Uno dei disturbi – che può sfociare nella nevrosi – è quello che Freud ha definito il «disagio della civiltà». La sua forma acuta è ben nota a tutti sotto la definizione di stress. Questa malattia ha le sue cause più profonde in una discrepanza radicata in tutte le civiltà umane, e che si manifesta nel fatto che il ritmo dell’evoluzione genetica dell’uomo è esponenzialmente più lento di quello dell’evoluzione culturale. [...] Esistono altre malattie della civiltà i cui pericoli sono tanto maggiori quanto più la civiltà si evolve. Tra queste gli squilibri provocati dalle disfunzioni nei rapporti tra i processi che stabilizzano e quelli che demoliscono la tradizione. Il ritmo sempre crescente dello sviluppo culturale fa sì che di generazione in generazione aumentino in proporzione gli elementi superati e da rifiutare. Nello stesso tempo, i mezzi di trasporto e i mass media fanno diminuire sempre più le differenze culturali tra i vari paesi. Mentre la distanza tra le generazioni aumenta, quella tra i diversi popoli diminuisce rapidamente. Questo processo ha raggiunto oggi un punto critico, dal momento che i giovani di tutti i paesi civili sono molto più simili tra loro che ai propri genitori. La conseguenza più pericolosa è che le due generazioni reagiscano l’una all’altra come se si trattasse di due diverse civiltà. Ne nasce un’ostilità tra vecchi e giovani che può arrivare a configurarsi come una forma di odio tra le più stupide e pericolose: l’odio nazionale. Come tante altre malattie della nostra civiltà, anche questa manifesta i sintomi della nevrosi di massa, il che dà adito per altro a un moderato ottimismo: la maggior parte delle nevrosi, infatti, possono essere efficacemente curate rendendo consapevole il paziente delle cause della sua sofferenza.Il radicale rifiuto della cultura dei padri – anche se pienamente legittimo – può avere la grave conseguenza che ogni giovane sottratto alla retta via diventi vittima di indegni seduttori. E non parlo solo dei demagoghi, ai quali i giovani sradicati sono fin troppo pronti a prestare orecchio, ripetendo ingenuamente le loro ben congegnate formule dottrinarie. L’impulso ad appartenere a un gruppo è tanto forte che i giovani che non ne trovano uno al quale unirsi si volgono a oggetti sostitutivi. Sorgono quindi comunità che soddisfano alcune richieste istintive. Esse devono rifiutare la cultura paterna, esserle addirittura ostili, e si deve essere disposti a lottare per loro. [...] Queste comunità artificiali possono diventare estremamente pericolose, non da ultimo per gli stessi giovani. Lo psicologo dell’adolescenza Aristide Esser, che ha studiato la criminalità giovanile e la tossicodipendenza negli stati americani dell’Est, è approdato alla stupefacente scoperta che il motivo fondamentale che spinge i giovani delle migliori famiglie alla fuga nella droga non è, come generalmente si ritiene, la noia o la ricerca di nuove sensazioni, ma l’incoercibile bisogno di appartenere a un gruppo chiuso con interessi comuni. Che questi giovani preferiscano unirsi alla comunità dei diseredati che stare da soli è una stupefacente riprova della forza dell’impulso di appartenenza a un gruppo.Il processo critico che spinge un giovane adulto allo scetticismo nei confronti della tradizione, a criticare i vecchi valori, a cercarne di nuovi e a far propri nuovi ideali, è una delle più importanti forze istintive, se non la più importante, dell’evoluzione creativa della civiltà umana. La risolutezza con cui ci si tiene saldamente attaccati a ciò che si è fatto proprio, la lealtà con cui si onorano gli impegni presi, l’inviolabilità del giuramento sono fattori imprescindibili di ogni comunità umana perché ne costituiscono il nerbo. Tragiche circostanze esterne fanno sì che dall’incontro di due nobili virtù umane – l’impulso alla libertà e la lealtà – sorga una trappola mortale per la civiltà e l’umanità: l’indottrinamento. I giovani, quando oggi a milioni e decine di milioni gettano a mare l’intera tradizione dei padri e cercano nuovi punti d’appoggio e nuove identità, sono anche pronti a creare, al posto di una degna e vera comunità umana, i più strani sostituti. In questa fase critica ricevono dai demagoghi un sistema preconfezionato e ben costruito di dottrine, tanto più simili all’apparenza a veri ideali in quanto si trattava effettivamente, un tempo, di veri ideali. Erano verità, finché non si sono fissate in schemi, attraverso quel processo così ben descritto da Thomas Huxley in cui il vivo spirito umano diventa una morta immagine ingannevole di se stesso, una sorta di «spirito congelato», comodo e facilmente smerciabile. Queste verità congelate sono quelle che definiamo con parole che terminano in «-ismo».L’attaccamento a nuovi ideali, tipico dell’ingresso nell’età puberale, mostra straordinarie analogie con quei processi di fissazione di un istinto a un determinato oggetto che definiamo imprinting, studiati a fondo negli animali. Come questi, l’attaccamento a un ideale ha luogo in un determinato «periodo critico» della vita del giovane, e neanch’esso è reversibile, o lo è in minima parte. Quanto più leale è il suo giuramento di fedeltà, tanto meno il giovane è in grado di entusiasmarsi per nuovi ideali se un amaro destino lo convince che quelli per cui lottava erano indegne illusioni.In tutti i paesi avanzati crescono milioni di giovani che hanno perso, per motivi del resto pienamente comprensibili, la fede nei valori tradizionali delle generazioni precedenti, e che sono esposti a ogni forma di indottrinamento. Si sentono liberi, essendosi sottratti alla tradizione dei padri, e non si rendono conto di aver rinunciato non solo a questa, ma a ogni libertà di pensiero e di azione, arrendendosi a una delle ideologie preconfezionate; mentre l’assoluta abnegazione a un’ideologia sembra suscitare il più intenso sentimento di libertà soggettiva. L’espressione fisiognomica di questo sentimento è quella descritta da Maler e Bildhauer sul volto di Friedrich Schiller mentre dava lettura del suo manifesto In Tyrannos. Conosciamo fin troppo bene questa espressione che osserviamo sul volto dei giovani indottrinati di tutte le fedi. Questi milioni di giovani pronti al sacrificio sono a tesi al varco dagli ideologi di tutti i partiti, essi stessi entusiasmati dalla propria fede, essi stessi soggetti, nel loro periodo critico, allo stesso processo di fissazione. Il debole legame con la tradizione paterna e il rafforzamento degli effetti propagandistici di ogni ideologia sui suoi seguaci, attraverso le possibilità tecniche offerte dai media, fanno sì che l’indottrinamento si gonfi come una slavina minacciando l’umanità nel suo bene più prezioso, la libertà di pensiero. [...] Un’altra delle malattie della civiltà, in stretto rapporto con quelle che abbiamo descritto e che le favorisce, [...] è l’allentamento dei contatti intersoggettivi. Nei casi estremi di incapacità di un legame con il prossimo, gli psichiatri parlano di «autismo», la tendenza a sostituire sé stessi alla realtà oggettiva. Il contatto intersoggettivo, la simpatia, l’amore per il prossimo si riduce in modo preoccupante laddove gli uomini vivono a stretto contatto gli uni con gli altri, nelle metropoli. In una strada affollata si può rubare, uccidere, violentare, e nessuno si sente obbligato a difendere la vittima – «not to get involved» è la massima: non farsi coinvolgere. E alla diffusione di questo allentamento dei contatti si accompagna quasi sempre la criminalità. Nelle grandi città americane questi fenomeni hanno assunto forme che ricordano da vicino i tempi oscuri del diritto del più forte nel Medio Evo europeo. Passeggiare nel Central Park di New York significa, oggi, anche in pieno giorno, provocare un’aggressione a scopo di rapina.La diffusa insensibilità da cui derivano tutti questi sintomi è una delle poche malattie della nostra civiltà di cui si conosca e si possa combattere, almeno teoricamente, la causa: la mancanza di un contatto sufficientemente stretto tra la madre e il bambino nei primi mesi di vita. [...] Per la cultura occidentale la mancanza di tempo della giovane madre è una seria minaccia. All’infuori di poche madri molto ricche, nessuna di loro può dedicare al proprio figlio il tempo per lui necessario, e quelle ricche gliene dedicano fin troppo. Anche una contadina con sei figli non ha molto tempo da dedicare a ognuno di loro, spesso li affiderà anche a una ragazza, ma rimane pur sempre il centro della famiglia, il punto di riferimento emotivo della vita dei figli, e il più piccolo di loro si sente il centro dell’interesse materno. Per molta, troppa gente, oggi il centro dell’interesse è il successo, cosa che i bambini mal sopportano. Nei casi estremi cadono nell’autismo, nei casi leggermente «meno gravi» diventano «solo» incapaci di contatto umano e criminali, nei casi più leggeri e meno evidenti, cioè nella maggior parte dell’umanità odierna, ne deriva l’incapacità di contatti intersoggettivi, quindi una mancanza d’amore.La mancanza di tempo, una delle principali cause di questi effetti perversi, è a sua volta conseguenza di un’altra malattia della civiltà, della quale parlerò ora. Viviamo in un’epoca in cui l’umanità ha acquisito un enorme potere sulla natura inorganica; essa deve questo potere a una scienza naturale fondata sul metodo matematico, la fisica. Dalla sua applicazione è sorta una tecnica che è diventata il principale strumento dell’umanità. Come spesso accade, purtroppo, nella civiltà occidentale la tecnica è diventata, da mezzo, fine a sé stessa, imponendo all’uomo quella particolare forma di pensiero che chiamo «tecnomorfo». La sua caratteristica è l’applicazione all’ambito del vivente, incluso il sistema vivente della civiltà umana, dei metodi teorici e pratici che hanno dato buoni risultati nella loro applicazione all’ambito della materia inorganica. La maggior parte delle persone ha a che fare, nelle sue occupazioni quotidiane, solo con oggetti inanimati, spesso prodotti dall’uomo, e ha disimparato a trattare con gli esseri viventi. Nulla di ciò di cui la gente si occupa nel lavoro quotidiano impone rispetto, e così, a poco a poco, la capacità di provare sentimenti di rispetto scompare, in una sorta di «atrofia da inattività». Né il rapporto pratico con la natura inanimata suscita riflessioni di ordine etico. Il problema della legittimità morale di un metodo di sfruttamento pratico non si pone neppure se si ha a che fare con un sistema inanimato; tra le massime del pensiero tecnomorfo rientra perciò quella che ogni metodo di sfruttamento è legittimo. Così, l’uomo tecnomorfo è sempre e comunque un predatore; quando strutta un sistema vivente, lo distrugge in breve tempo. [...]Di tutto ciò è responsabile una perversione della sensibilità umana per i valori, che è una conseguenza del pensiero tecnomorfo. L’importanza della matematica come fondamento della fisica e quindi della tecnica seduce il pensiero tecnomorfo con l’idea che la realtà nella sua interezza debba essere quantificabile o che, al contrario, ciò che non può es- sere espresso nella terminologia delle scienze naturali fondate sulla quantificazione non abbia un’esistenza reale. Sentimenti e affetti, dolore e gioia, amore e odio vengono dichiarati inesistenti; pensatori molto seri e molto apprezzati ritengono la libertà e la dignità umane un’illusione.
Charlie Kirk (Getty Images)