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2022-04-17
Dal Colosseo alle università Kiev demolisce tutti i gesti che uniscono ucraini e russi
Ansa
«Amare il nemico», ha titolato l’Osservatore Romano commentando, in un editoriale, la precipitosa condanna dell’arcivescovo maggiore di Kiev, Svjatoslav Schevchuk, alla decisione della Santa Sede di far portare la croce a due donne, una ucraina e una russa, durante la Via crucis del Venerdì santo al Colosseo. Condanna estesa non solo ai «gesti» ma anche ai «testi», giudicati da Sua Beatitudine «incomprensibili e perfino offensivi», benché la meditazione preparata per la XIII stazione non fosse altro che un appello rivolto al Signore a «insegnarci a fare la pace e a non abbandonarci». L’organo ufficiale della Santa Sede ha tentato di ricomporre l’incidente diplomatico corroborando le parole di pace pronunciate, fin dall’inizio della guerra, da papa Francesco: «Queste due donne sono perfino riuscite a rinsaldare il vincolo umano e spirituale che le unisce, e spiegano che l’unica strada per uscire dalla guerra è quella del perdono e della riconciliazione». Cos’altro potrebbe dire chi davvero cerca la pace? Anche padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, è intervenuto ricordando, a chi ha criticato l’abbraccio di due donne amiche, provenienti da nazioni in guerra l’una contro l’altra, che «Albina (russa) e Irina (ucraina) salvano il Vangelo e la cattolicità della Chiesa mettendola al riparo dal pantano dei nazionalismi. Insieme. In silenzio. In preghiera».
Ma il lavoro diplomatico dietro le quinte e gli appelli alla ragionevolezza non sono serviti ad appianare i dissidi: in Ucraina i media cattolici online come Ugcc Live Tv, la rivista cattolica Credo, Radio Maria ed Ewtn Ucraina, così come le tv nazionali ucraine, hanno deciso di non trasmettere la Via crucis in diretta dal Colosseo. L’agenzia di informazione Risu, rilanciata dall’agenzia della Cei, Sir, ha confermato che anche sulla sua pagina Web non sarebbe stata trasmessa, sottolineando - quasi a rivendicare il carattere ritorsivo della decisione - che «questi media hanno quasi sempre coperto tutti gli eventi importanti in Vaticano, come la consacrazione al Cuore ommacolato di Maria di Russia e Ucraina da parte del Pontefice». «Per politici ed ecclesiastici», ha constatato con amarezza Spadaro, «queste due donne (che idealmente rappresentano le due nazioni in conflitto) “devono” essere nemiche».
L’insofferenza verso le mine antidiplomatiche ucraine rischia di sconfinare dal Vaticano. Dopo il veto del ministero della Cultura ucraino su Ciaikovskij, che ha impedito all’Ukrainian classical ballet di portare in scena Il lago dei cigni in Italia, è arrivata la protesta del console onorario dell’Ucraina in Piemonte, Dario Arrigotti, contro l’università di Torino, «colpevole» di mettere a disposizione 20 borse di studio da 2.000 euro l’una per studenti russi e bielorussi «in grave situazione di difficoltà economica a seguito dell’insorgere della crisi internazionale ucraina»: «È quantomeno sorprendente equiparare lo stato di “grave difficoltà” degli studenti russi e bielorussi a quello degli studenti ucraini», ha dichiarato Arrigotti. «Nell’università si realizza il principale investimento nella pace», ha replicato con fermezza il rettore, Stefano Genua. «Il provvedimento è pienamente in linea con la missione costituzionale dell’università di garantire il diritto allo studio a chi ne sia privato», ad esempio anche gli studenti russi che «non possono prelevare né usare denaro, viste le sanzioni», ha osservato Guido Saracco, promotore di un identico bando al Politecnico di Torino, dove è rettore.
Con altrettanto fastidio è stata accolta, in Italia e nell’Occidente, la decisione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di dichiarare pubblicamente il rieletto presidente della Repubblica federale tedesca, Frank Walter Steinmeier, «persona non grata», rifiutando l’offerta di un incontro. Commentando le reazioni a Berlino a seguito del suo rifiuto di invitare Steinmeier nella Capitale, Zelensky ha, se possibile, peggiorato la situazione: «Non abbiamo mai ricevuto richiesta ufficiale dal presidente federale e dal suo ufficio riguardo a una visita in Ucraina», ha dichiarato, ponendo una questione di «forma» nell’ambito di un quadro diplomatico già saltato da settimane. Non a caso, Steinmeier ha definito le frasi di Zelensky «irritanti, per usare un eufemismo». Zelensky è dunque riuscito nell’improbabile impresa di creare tensioni in un milieu occidentale unanimemente schierato in suo favore. Le richieste e le prese di posizione degli ucraini, a volte ingenuamente irruenti, sono ovviamente comprensibili e vanno inquadrate nel contesto bellico di Paese aggredito e in quello socioculturale di una guerra che lo stesso Zelensky gestisce anche sul filo della comunicazione social, non esattamente adatta a comporre questioni complesse perché basata sull’algoritmo e sulla comunicazione binaria (citofonare Italia).
C’è però da dire che l’Occidente (a cominciare dal presidente americano, Joe Biden), che all’Ucraina doveva dare il buon esempio, non è riuscito a impartire in questi primi 50 giorni di guerra alcuna «lezione di pace», né tantomeno di diplomazia. Sarà complicato, per il presidente ucraino, ricomporre questi piccoli-grandi dissidi diplomatici che lo collocano attualmente - e chissà per quanto tempo ancora - nel mortificante ruolo del capo di Stato subalterno e già di fatto commissariato.
A Mariupol la vendetta per il Moskva. Zelensky: «Se cade niente negoziati»
È arrivata nella giornata di ieri la risposta russa all’affondamento dell’incrociatore Moskva, colpito e affondato giovedì. Il Cremlino non ha più parlato della vicenda ma è partita la caccia al colpevole nella Marina e tra gli ammiragli che hanno sottovalutato la capacità di reazione e gli armamenti degli ucraini.
La cinquantaduesima giornata di guerra, che è iniziata intorno alle 4 del mattino, ha visto suonare le sirene d’allarme antiaeree in alcune città dell’Ucraina centrale, orientale e meridionale tra le quali Dnipropetrovsk, Kryvyi Rih, Zaporizhzhia, Cherkasy, Donetsk, Odessa, Kharkiv, Poltava e Mykolaiv. Mentre a Mariupol, secondo un consigliere del sindaco della città, Petro Andryushchenko, «i russi stanno raccogliendo tutti gli uomini e li trasferiscono a Bezimenne, un villaggio del Donetsk sotto il loro controllo». Un fatto che le autorità della città, diventata un cumulo di macerie, hanno confermato sul loro canale Telegram, dove hanno raccontato che agli uomini vengono sequestrati i documenti personali in attesa di decisioni: «Stanno compiendo una intensa “pulizia” degli uomini, abbiamo le prime conferme».
Bombe anche sul distretto di Kiev dove si registra un morto e numerosi feriti nel Sudest della Capitale, dove è stata presa di mira una fabbrica di armi. Il sindaco, Vitali Klitschko, è certo che i russi intensificheranno i bombardamenti su Kiev: «Non è un segreto che un generale russo abbia recentemente affermato di essere pronto per attacchi missilistici contro la Capitale». Klitschko ha lanciato un accorato appello alla popolazione, che è riuscita a fuggire affinché non torni, almeno per il momento: «Non ignorate gli allarmi aerei. E a coloro che se ne sono andati e stanno già facendo ritorno nella Capitale, vi chiedo di evitarlo e restare in un posto più sicuro».
Combattimenti feroci si sono registrati nella regione di Zaporizhya, dove sono state bombardate non solo le strutture militari ma anche case, ospedali e le scuole e, secondo quanto dichiarato da Artur Krupsky, capo dell’amministrazione del distretto di Polog, tra le vittime c’è anche un bambino di 12 anni che si aggiunge agli altri 200 che hanno perso la vita fino a oggi nel conflitto. Cinque morti e una ventina di feriti a Mykolaiv (Ucraina meridionale), mentre le bombe continuano a cadere nell’Est del Paese e in particolare a Derhachi, Balakliia e Zolochiv.
Per tornare a Kiev, nella tarda mattinata di ieri, l’Associated Press ha riferito che le 900 persone morte nella regione di Kiev sarebbero state per il 95% dei casi vittime di esecuzioni sommarie: «La presenza di ferite d’arma da fuoco indica che molti sono stati semplicemente giustiziati». Andriy Nebytov, il capo della polizia regionale di Kiev, ha raccontato al Guardian che «i corpi sono stati abbandonati nelle strade o hanno ricevuto sepolture sommarie». Sempre ieri, grazie al Times di Londra, si è saputo che in Ucraina sarebbero presenti le forze le forze speciali di Sua Maestà, con il preciso incarico di formare le truppe ucraine (anche all’uso delle nuove armi). Mosca ha reagito con due comunicazioni raggelanti: «Ulteriori aiuti occidentali provocheranno conseguenze imprevedibili» - e ancora - «l’assistenza militare all’Ucraina da parte dell’Occidente significa che è già cominciata la terza guerra mondiale».
Il mistero della giornata invece riguarda Eduard Basurin, portavoce militare dei separatisti filorussi: nel pomeriggio sarebbe stato prelevato da agenti dell’Fsb a Mariupol. Negli scorsi giorni aveva parlato della possibilità di usare le armi chimiche.
In serata Zelensky ha parlato al Kyiv Independent della possibile fine dei negoziati: «Mariupol potrebbe essere come dieci Borodyanka. L’eliminazione dei nostri militari porrà fine a tutti i negoziati. Non scambiamo i nostri territori e la nostra gente».
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Dopo i veti su Pëtr Il'ič Ciaikovskij, oscurata dai media in patria la Via crucis papale all’insegna della fratellanza. Critiche all’ateneo di Torino che aiuta gli studenti, senza distinzioni.Rastrellamenti dei militari in corso a Mariupol. Pioggia di bombe sulla Capitale.Lo speciale contiene due articoli.«Amare il nemico», ha titolato l’Osservatore Romano commentando, in un editoriale, la precipitosa condanna dell’arcivescovo maggiore di Kiev, Svjatoslav Schevchuk, alla decisione della Santa Sede di far portare la croce a due donne, una ucraina e una russa, durante la Via crucis del Venerdì santo al Colosseo. Condanna estesa non solo ai «gesti» ma anche ai «testi», giudicati da Sua Beatitudine «incomprensibili e perfino offensivi», benché la meditazione preparata per la XIII stazione non fosse altro che un appello rivolto al Signore a «insegnarci a fare la pace e a non abbandonarci». L’organo ufficiale della Santa Sede ha tentato di ricomporre l’incidente diplomatico corroborando le parole di pace pronunciate, fin dall’inizio della guerra, da papa Francesco: «Queste due donne sono perfino riuscite a rinsaldare il vincolo umano e spirituale che le unisce, e spiegano che l’unica strada per uscire dalla guerra è quella del perdono e della riconciliazione». Cos’altro potrebbe dire chi davvero cerca la pace? Anche padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, è intervenuto ricordando, a chi ha criticato l’abbraccio di due donne amiche, provenienti da nazioni in guerra l’una contro l’altra, che «Albina (russa) e Irina (ucraina) salvano il Vangelo e la cattolicità della Chiesa mettendola al riparo dal pantano dei nazionalismi. Insieme. In silenzio. In preghiera». Ma il lavoro diplomatico dietro le quinte e gli appelli alla ragionevolezza non sono serviti ad appianare i dissidi: in Ucraina i media cattolici online come Ugcc Live Tv, la rivista cattolica Credo, Radio Maria ed Ewtn Ucraina, così come le tv nazionali ucraine, hanno deciso di non trasmettere la Via crucis in diretta dal Colosseo. L’agenzia di informazione Risu, rilanciata dall’agenzia della Cei, Sir, ha confermato che anche sulla sua pagina Web non sarebbe stata trasmessa, sottolineando - quasi a rivendicare il carattere ritorsivo della decisione - che «questi media hanno quasi sempre coperto tutti gli eventi importanti in Vaticano, come la consacrazione al Cuore ommacolato di Maria di Russia e Ucraina da parte del Pontefice». «Per politici ed ecclesiastici», ha constatato con amarezza Spadaro, «queste due donne (che idealmente rappresentano le due nazioni in conflitto) “devono” essere nemiche».L’insofferenza verso le mine antidiplomatiche ucraine rischia di sconfinare dal Vaticano. Dopo il veto del ministero della Cultura ucraino su Ciaikovskij, che ha impedito all’Ukrainian classical ballet di portare in scena Il lago dei cigni in Italia, è arrivata la protesta del console onorario dell’Ucraina in Piemonte, Dario Arrigotti, contro l’università di Torino, «colpevole» di mettere a disposizione 20 borse di studio da 2.000 euro l’una per studenti russi e bielorussi «in grave situazione di difficoltà economica a seguito dell’insorgere della crisi internazionale ucraina»: «È quantomeno sorprendente equiparare lo stato di “grave difficoltà” degli studenti russi e bielorussi a quello degli studenti ucraini», ha dichiarato Arrigotti. «Nell’università si realizza il principale investimento nella pace», ha replicato con fermezza il rettore, Stefano Genua. «Il provvedimento è pienamente in linea con la missione costituzionale dell’università di garantire il diritto allo studio a chi ne sia privato», ad esempio anche gli studenti russi che «non possono prelevare né usare denaro, viste le sanzioni», ha osservato Guido Saracco, promotore di un identico bando al Politecnico di Torino, dove è rettore. Con altrettanto fastidio è stata accolta, in Italia e nell’Occidente, la decisione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di dichiarare pubblicamente il rieletto presidente della Repubblica federale tedesca, Frank Walter Steinmeier, «persona non grata», rifiutando l’offerta di un incontro. Commentando le reazioni a Berlino a seguito del suo rifiuto di invitare Steinmeier nella Capitale, Zelensky ha, se possibile, peggiorato la situazione: «Non abbiamo mai ricevuto richiesta ufficiale dal presidente federale e dal suo ufficio riguardo a una visita in Ucraina», ha dichiarato, ponendo una questione di «forma» nell’ambito di un quadro diplomatico già saltato da settimane. Non a caso, Steinmeier ha definito le frasi di Zelensky «irritanti, per usare un eufemismo». Zelensky è dunque riuscito nell’improbabile impresa di creare tensioni in un milieu occidentale unanimemente schierato in suo favore. Le richieste e le prese di posizione degli ucraini, a volte ingenuamente irruenti, sono ovviamente comprensibili e vanno inquadrate nel contesto bellico di Paese aggredito e in quello socioculturale di una guerra che lo stesso Zelensky gestisce anche sul filo della comunicazione social, non esattamente adatta a comporre questioni complesse perché basata sull’algoritmo e sulla comunicazione binaria (citofonare Italia). C’è però da dire che l’Occidente (a cominciare dal presidente americano, Joe Biden), che all’Ucraina doveva dare il buon esempio, non è riuscito a impartire in questi primi 50 giorni di guerra alcuna «lezione di pace», né tantomeno di diplomazia. Sarà complicato, per il presidente ucraino, ricomporre questi piccoli-grandi dissidi diplomatici che lo collocano attualmente - e chissà per quanto tempo ancora - nel mortificante ruolo del capo di Stato subalterno e già di fatto commissariato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/kiev-gesti-uniscono-ucraini-russi-2657165746.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="a-mariupol-la-vendetta-per-il-moskva-zelensky-se-cade-niente-negoziati" data-post-id="2657165746" data-published-at="1650135068" data-use-pagination="False"> A Mariupol la vendetta per il Moskva. Zelensky: «Se cade niente negoziati» È arrivata nella giornata di ieri la risposta russa all’affondamento dell’incrociatore Moskva, colpito e affondato giovedì. Il Cremlino non ha più parlato della vicenda ma è partita la caccia al colpevole nella Marina e tra gli ammiragli che hanno sottovalutato la capacità di reazione e gli armamenti degli ucraini. La cinquantaduesima giornata di guerra, che è iniziata intorno alle 4 del mattino, ha visto suonare le sirene d’allarme antiaeree in alcune città dell’Ucraina centrale, orientale e meridionale tra le quali Dnipropetrovsk, Kryvyi Rih, Zaporizhzhia, Cherkasy, Donetsk, Odessa, Kharkiv, Poltava e Mykolaiv. Mentre a Mariupol, secondo un consigliere del sindaco della città, Petro Andryushchenko, «i russi stanno raccogliendo tutti gli uomini e li trasferiscono a Bezimenne, un villaggio del Donetsk sotto il loro controllo». Un fatto che le autorità della città, diventata un cumulo di macerie, hanno confermato sul loro canale Telegram, dove hanno raccontato che agli uomini vengono sequestrati i documenti personali in attesa di decisioni: «Stanno compiendo una intensa “pulizia” degli uomini, abbiamo le prime conferme». Bombe anche sul distretto di Kiev dove si registra un morto e numerosi feriti nel Sudest della Capitale, dove è stata presa di mira una fabbrica di armi. Il sindaco, Vitali Klitschko, è certo che i russi intensificheranno i bombardamenti su Kiev: «Non è un segreto che un generale russo abbia recentemente affermato di essere pronto per attacchi missilistici contro la Capitale». Klitschko ha lanciato un accorato appello alla popolazione, che è riuscita a fuggire affinché non torni, almeno per il momento: «Non ignorate gli allarmi aerei. E a coloro che se ne sono andati e stanno già facendo ritorno nella Capitale, vi chiedo di evitarlo e restare in un posto più sicuro». Combattimenti feroci si sono registrati nella regione di Zaporizhya, dove sono state bombardate non solo le strutture militari ma anche case, ospedali e le scuole e, secondo quanto dichiarato da Artur Krupsky, capo dell’amministrazione del distretto di Polog, tra le vittime c’è anche un bambino di 12 anni che si aggiunge agli altri 200 che hanno perso la vita fino a oggi nel conflitto. Cinque morti e una ventina di feriti a Mykolaiv (Ucraina meridionale), mentre le bombe continuano a cadere nell’Est del Paese e in particolare a Derhachi, Balakliia e Zolochiv. Per tornare a Kiev, nella tarda mattinata di ieri, l’Associated Press ha riferito che le 900 persone morte nella regione di Kiev sarebbero state per il 95% dei casi vittime di esecuzioni sommarie: «La presenza di ferite d’arma da fuoco indica che molti sono stati semplicemente giustiziati». Andriy Nebytov, il capo della polizia regionale di Kiev, ha raccontato al Guardian che «i corpi sono stati abbandonati nelle strade o hanno ricevuto sepolture sommarie». Sempre ieri, grazie al Times di Londra, si è saputo che in Ucraina sarebbero presenti le forze le forze speciali di Sua Maestà, con il preciso incarico di formare le truppe ucraine (anche all’uso delle nuove armi). Mosca ha reagito con due comunicazioni raggelanti: «Ulteriori aiuti occidentali provocheranno conseguenze imprevedibili» - e ancora - «l’assistenza militare all’Ucraina da parte dell’Occidente significa che è già cominciata la terza guerra mondiale». Il mistero della giornata invece riguarda Eduard Basurin, portavoce militare dei separatisti filorussi: nel pomeriggio sarebbe stato prelevato da agenti dell’Fsb a Mariupol. Negli scorsi giorni aveva parlato della possibilità di usare le armi chimiche. In serata Zelensky ha parlato al Kyiv Independent della possibile fine dei negoziati: «Mariupol potrebbe essere come dieci Borodyanka. L’eliminazione dei nostri militari porrà fine a tutti i negoziati. Non scambiamo i nostri territori e la nostra gente».
Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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L’obiettivo è evitare la delocalizzazione della produzione e contrastare l’effetto dei costi energetici elevati sulla competitività europea. La misura riguarda principalmente i settori dell’acciaio, della chimica e dell’automotive, fortemente influenzati dalle bollette elettriche, che in Germania risultano quasi tre volte superiori rispetto agli Stati Uniti. Le autorità tedesche hanno già avviato le trattative con la Commissione Europea per ottenere la compatibilità con le norme sugli aiuti di Stato. Per la Slovacchia, strettamente integrata nelle filiere tedesche, la mossa può rappresentare una sfida competitiva: se le imprese tedesche recuperano tranquillità sui costi dell’energia, le aziende slovacche del comparto manifatturiero esportatrici potrebbero trovarsi a dover far fronte a maggiori pressioni sui costi. Lo stesso potrebbe accadere in Italia.
Prima della Germania il Regno Unito, dove un “price cap” è stato stabilito nel 2019 dall’allora governo May. Dal gennaio 2019 l’Ofgem (l’equivalente della nostra Arera) applica un tetto alla spesa massima dei consumatori di trimestre in trimestre. Ma attenzione: non a tutti i clienti, bensì solo ai sottoscrittori delle “standard variable tariffs”, cioè delle tariffe a prezzo variabile molto basilari, dedicate ai clienti meno abituati a cercare tariffe sul mercato libero, e per questo da anni con lo stesso operatore che a volte approfitta di questo immobilismo applicando prezzi piuttosto elevati.
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