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2022-04-12
Le Kardashian ritornano con un nuovo reality
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Una nota, diffusa sul finire della prima estate post-pandemia, ha messo fine al sogno di una vita condivisa. «È con i cuori pesanti che, da famiglia, abbiamo preso la difficile decisione di salutare Al passo con i Kardashian», ha scritto online la più famosa fra le sorelle d’America, annunciando – con il viso contratto in una smorfia di dolore – la chiusura del reality che ne ha fatto una star. Kim Kardashian ha detto basta. Lo ha detto online, senza la mediazione di un ufficio stampa. Senza prendersi del tempo per spiegare chi o cosa l’abbia portata a una tale decisione. «Senza Al passo con i Kardashian non sarei dove sono oggi. Sono incredibilmente grata a chiunque abbia guardato e supportato la mia famiglia in questi ultimi quanto straordinari quattordici anni. Questo show ci ha resi quello che siamo e sarò sempre in debito con chiunque abbia giocato un ruolo nel plasmare le nostre carriere e nel cambiare le nostre vite», ha compulsato su Twitter la figlia del fu Robert Kardashian, avvocato di O.J. Simpson nel processo più spettacolarizzato della storia americana. «Con amore e gratitudine», ha firmato la sua lettera virtuale, e migliaia di lacrime ne hanno accompagnato la lettura. Ha pianto Kim Kardashian, hanno pianto le sue sorelle. Hanno versato lacrime amare i fan, attoniti, dopo quattordici anni e venti stagioni, dallo sfratto che il clan ha presentato loro. La missiva della famiglia Kardashian ha creato dolori quasi palpabili. Dolori che il senno di poi avrebbe reso assolutamente vani.
Come nelle più scontate telenovela, dove ogni twist, si sa, sia destinato ad allungare il brodo, le sorelle hanno fatto marcia indietro. È finito, sì, Al passo con i Kardashian, ma dalle ceneri di un programma vecchiotto è nato altro: un reality epurato dei personaggi non necessari, qualcosa di più nuovo, più adatto a rispondere alle crescenti esigenze social. Le Kardashian hanno annunciato, garrule, l’arrivo di The Kardashians, su Disney+ dal 14 aprile. Lo show, diversamente dall’originale, vedrà protagoniste solo le donne della famiglia, accomunate, tutte, dalla lettera K. Saranno Kris, madre manager cui lo scorrere del tempo sembra non fare un baffo, Kim e Kourtney, la bombastica Khloé e le più piccole, Kendall e Kylie, a sedere davanti alla telecamera. Saranno loro, le sorelle più famose d’America, a rispondere, ciascuna, a pettegolezzi e illazioni, loro a raccontare la «propria verità». Le Kardashian si metteranno a nudo, ancora una volta, portando quegli spettatori che amano, gente certa di essere ormai parte del loro mondo dorato, dentro business miliardari, nelle pieghe di amori finiti e di altri appena iniziati.
Divorzi, gravidanze, matrimoni lampo e ritorni a scuola, figli, lacrime, gioie e maternità, acredini familiari si legheranno fra loro, per fare nuova la trama di un reality che ha cambiato forma senza cambiare sostanza. Perché la fine di Al passo con i Kardashian, l’annuncio accorato che ne ha accompagnato l’ultima stagione a niente è servito se non a tratteggiare l’esistenza di un nuovo schema pubblicitario. La fine è stata urlata, ha creato hype – come è da definirsi in pubblicità l’attesa entusiasta che accompagna un tal lancio – e l’hype è stato usato per annunciare senza troppa fatica l’uscita di un nuovo prodotto, figlio di quello che dietro di sé ha lasciato lacrime e feriti. Un modus, questo, che sembra galvanizzare diversi produttori, dalle parti di Hollywood. L’operazione Kardashian, per quanto brillante, non è la sola a essere stata condotta in questa maniera. Il Trono di Spade è finito con la promessa di cinque nuove serie, tra prequel e sequel. La Casa di Carta, ancor prima che gli affezionati potessero vederne gli ultimi episodi, è rinata nella certezza di poter avere presto uno spin-off su Berlino, poi un remake coreano. La Marvel si è «espansa», facendo della serialità una propaggine di tutto quel che il cinema, da solo, non potrebbe dire, e film si sono fatti carico di dare un finale migliore, diverso, un altro capitolo alle serie più amate, Downton Abbey in testa. Niente, dunque, è più finito davvero. Ed è un peccato, perché è la consapevolezza di una fine a rendere godibile un prodotto, sia pure televisivo. Negarla significa spalancare le porte all’eternità. Non all’eternità angelicata di un paradiso, ma all’eternità che è quotidianità, poi abitudine, poi monotonia, infine noia.
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Dal 14 aprile su Disney+ parte un nuovo show, The Kardashians, con protagoniste le sorelle più famose d’America che lo scorso anno avevano annunciato fra le lacrime la fine di Al passo con i Kardashian. Un'ottima trovata pubblicitaria che si è rivelata utile per il lancio di questo nuovo spettacolo.Una nota, diffusa sul finire della prima estate post-pandemia, ha messo fine al sogno di una vita condivisa. «È con i cuori pesanti che, da famiglia, abbiamo preso la difficile decisione di salutare Al passo con i Kardashian», ha scritto online la più famosa fra le sorelle d’America, annunciando – con il viso contratto in una smorfia di dolore – la chiusura del reality che ne ha fatto una star. Kim Kardashian ha detto basta. Lo ha detto online, senza la mediazione di un ufficio stampa. Senza prendersi del tempo per spiegare chi o cosa l’abbia portata a una tale decisione. «Senza Al passo con i Kardashian non sarei dove sono oggi. Sono incredibilmente grata a chiunque abbia guardato e supportato la mia famiglia in questi ultimi quanto straordinari quattordici anni. Questo show ci ha resi quello che siamo e sarò sempre in debito con chiunque abbia giocato un ruolo nel plasmare le nostre carriere e nel cambiare le nostre vite», ha compulsato su Twitter la figlia del fu Robert Kardashian, avvocato di O.J. Simpson nel processo più spettacolarizzato della storia americana. «Con amore e gratitudine», ha firmato la sua lettera virtuale, e migliaia di lacrime ne hanno accompagnato la lettura. Ha pianto Kim Kardashian, hanno pianto le sue sorelle. Hanno versato lacrime amare i fan, attoniti, dopo quattordici anni e venti stagioni, dallo sfratto che il clan ha presentato loro. La missiva della famiglia Kardashian ha creato dolori quasi palpabili. Dolori che il senno di poi avrebbe reso assolutamente vani.Come nelle più scontate telenovela, dove ogni twist, si sa, sia destinato ad allungare il brodo, le sorelle hanno fatto marcia indietro. È finito, sì, Al passo con i Kardashian, ma dalle ceneri di un programma vecchiotto è nato altro: un reality epurato dei personaggi non necessari, qualcosa di più nuovo, più adatto a rispondere alle crescenti esigenze social. Le Kardashian hanno annunciato, garrule, l’arrivo di The Kardashians, su Disney+ dal 14 aprile. Lo show, diversamente dall’originale, vedrà protagoniste solo le donne della famiglia, accomunate, tutte, dalla lettera K. Saranno Kris, madre manager cui lo scorrere del tempo sembra non fare un baffo, Kim e Kourtney, la bombastica Khloé e le più piccole, Kendall e Kylie, a sedere davanti alla telecamera. Saranno loro, le sorelle più famose d’America, a rispondere, ciascuna, a pettegolezzi e illazioni, loro a raccontare la «propria verità». Le Kardashian si metteranno a nudo, ancora una volta, portando quegli spettatori che amano, gente certa di essere ormai parte del loro mondo dorato, dentro business miliardari, nelle pieghe di amori finiti e di altri appena iniziati. Divorzi, gravidanze, matrimoni lampo e ritorni a scuola, figli, lacrime, gioie e maternità, acredini familiari si legheranno fra loro, per fare nuova la trama di un reality che ha cambiato forma senza cambiare sostanza. Perché la fine di Al passo con i Kardashian, l’annuncio accorato che ne ha accompagnato l’ultima stagione a niente è servito se non a tratteggiare l’esistenza di un nuovo schema pubblicitario. La fine è stata urlata, ha creato hype – come è da definirsi in pubblicità l’attesa entusiasta che accompagna un tal lancio – e l’hype è stato usato per annunciare senza troppa fatica l’uscita di un nuovo prodotto, figlio di quello che dietro di sé ha lasciato lacrime e feriti. Un modus, questo, che sembra galvanizzare diversi produttori, dalle parti di Hollywood. L’operazione Kardashian, per quanto brillante, non è la sola a essere stata condotta in questa maniera. Il Trono di Spade è finito con la promessa di cinque nuove serie, tra prequel e sequel. La Casa di Carta, ancor prima che gli affezionati potessero vederne gli ultimi episodi, è rinata nella certezza di poter avere presto uno spin-off su Berlino, poi un remake coreano. La Marvel si è «espansa», facendo della serialità una propaggine di tutto quel che il cinema, da solo, non potrebbe dire, e film si sono fatti carico di dare un finale migliore, diverso, un altro capitolo alle serie più amate, Downton Abbey in testa. Niente, dunque, è più finito davvero. Ed è un peccato, perché è la consapevolezza di una fine a rendere godibile un prodotto, sia pure televisivo. Negarla significa spalancare le porte all’eternità. Non all’eternità angelicata di un paradiso, ma all’eternità che è quotidianità, poi abitudine, poi monotonia, infine noia.
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Alberto Stasi (Ansa)
Ieri, nell’aula del tribunale di Pavia, quell’ombra è stata cancellata dall’incidente probatorio. «È stato chiarito definitivamente che Stasi è escluso». Lo dice senza giri di parole all’uscita dal palazzo di giustizia Giada Bocellari, difensore con Antonio De Rensis di Stasi. «Tenete conto», ha spiegato Bocellari, «che noi partivamo da una perizia del professor Francesco De Stefano (il genetista che nel 2014 firmò la perizia nel processo d’appello bis, ndr) che diceva che il Dna era tutto degradato e che Stasi non poteva essere escluso da quelle tracce». È il primo elemento giudiziario della giornata di ieri. La stessa Bocellari, però, mette anche un freno a ogni lettura forzata: «Non è che Andrea Sempio verrà condannato per il Dna. Non verrà mai forse neanche rinviato a giudizio solo per il Dna». Gli elementi ricavati dall’incidente probatorio, spiega, sono «un dato processuale, una prova che dovrà poi essere valutata e questo lo potrà fare innanzitutto la Procura quando dovrà decidere, alla fine delle indagini, cosa fare». Dentro l’aula, però, la tensione non è stata solo scientifica. È stata anche simbolica. Perché Stasi era presente. Seduto, in silenzio. E la sua presenza ha innescato uno scontro.
«È venuto perché questa era una giornata importante», spiega ancora Bocellari, aggiungendo: «Tenete conto che sono undici anni che noi parliamo di questo Dna e finalmente abbiamo assunto un risultato nel contraddittorio». Una scelta rivendicata senza tentennamenti: «Tenete conto anche del fatto che lui ha sempre partecipato al suo processo, è sempre stato presente alle udienze e quindi questo era un momento in cui esserci, nel massimo rispetto anche dell’autorità giudiziaria che oggi sta procedendo nei confronti di un altro soggetto». E quel soggetto è Sempio. Indagato. Ma assente. Una scelta opposta, spiegata dai suoi legali. «In ogni caso non avrebbe potuto parlare», chiarisce Angela Taccia, che spiega: «Il Dna non è consolidato, non c’è alcuna certezza contro Sempio. Il software usato non è completo, anzi è molto scarno, non si può arrivare a nessun punto fermo». Lo stesso tono lo usa Liborio Cataliotti, l’altro difensore di Sempio. «Confesso che non mi aspettavo oggi la presenza di Stasi. Però non mi sono opposto, perché si è trattato di una presenza, sia pur passiva, di chi è interessato all’espletamento della prova. Non mi sembrava potessero esserci controindicazioni alla sua presenza». Se per la difesa di Sempio la presenza di Stasi è neutra, sul fronte della famiglia Poggi il clima è diverso. L’avvocato Gian Luigi Tizzoni premette: «Vedere Stasi non mi ha fatto nessun effetto, non ho motivi per provare qualsiasi tipo di emozione». Ma la linea processuale è chiara. Durante l’udienza i legali dei Poggi (rappresentati anche dall’avvocato Francesco Compagna) hanno chiesto che Stasi uscisse dall’aula perché «non è né la persona offesa né l’indagato». Richiesta respinta dal gip Daniela Garlaschelli come «irrilevante e tardiva», perché giunta «a sei mesi di distanza dall’inizio dell’incidente probatorio». Stasi è stato quindi ammesso come «terzo interessato». Ma l’avvocato Compagna tiene il punto: «Credo che di processuale ci sia poco in questa vicenda, è un enorme spettacolo mediatico». E attacca sul merito: «La verità è che le unghie sono prive di significato, visto che la vittima non si è difesa e giocare su un dato che non è scientifico è una follia».
La perita Denise Albani, ricorda Compagna, «ha ribadito che non si può dire come, dove e quando quella traccia è stata trasferita e quindi non ha valore». Deve essersi sentito un terzo interessato anche il difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (indagato a Brescia per un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari riferita all’archiviazione della posizione di Sempio nel 2017). L’avvocato Domenico Aiello, infatti, ha alzato il livello dello scontro: «Non mi risulta che esista la figura della parte processuale del “terzo interessato”. Si è palesato in aula a Pavia il titolare effettivo del subappalto di manodopera nel cantiere della revisione». E insiste: «Sarei curioso di capire se sia soddisfatto e in quale veste sarà registrato al verbale di udienza, se spettatore abusivo o talent scout od osservatore interessato. Ancora una grave violazione del Codice di procedura penale. Spero non si sostituisca un candidato innocente con un altro sfortunato innocente e a spese di un sicuro innocente».
Ma mentre le polemiche rimbalzano fuori dall’aula, dentro il dato resta tecnico. E su quel dato, paradossalmente, tutti escono soddisfatti. «Dal nostro punto di vista abbiamo ottenuto risposte che riteniamo molto ma molto soddisfacenti sulla posizione di Sempio», dice Cataliotti. Taccia conferma: «Siamo molto soddisfatti di com’è andata oggi». La difesa di Sempio ribadisce che il dato è neutro, parziale, non decisivo. La difesa di Stasi incassa l’esclusione definitiva del Dna. E alla fine l’incidente probatorio ha fatto la sua parte. Ha prodotto una prova. Ha chiarito un equivoco storico. E ha lasciato ognuno con il proprio argomento in mano. Fuori dall’aula, però, il processo mediatico si è concentrato tutto sulla presenza di Stasi e sull’assenza di Sempio, come se l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno fosse misurabile a colpi di apparizioni sceniche.
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