2021-08-14
Kabul vittima delle colpe dell’Occidente. Ma a Biden si perdona sempre tutto
Tornano la dittatura della sharia, il burqa e la legge del taglione: l'islamismo ora ha il suo Stato canaglia. L'indifferenza degli Usa adesso non fa notizia. L'ombra della Cina nel controllo della regione.Il gran ritorno dei talebani in Afghanistan e la loro avanzata (più resistibile che irresistibile, eppure - di fatto - non arrestata da nessuno) è un evento che addolora, rattrista, umilia le coscienze occidentali più consapevoli. E non solo per ragioni morali: la vittoria simbolica di un pezzo di Islam fondamentalista, la reimposizione della sharia nella sua interpretazione più estrema, il ritorno del burqa e della segregazione delle donne, le atroci vendette ai danni degli afghani che volevano liberarsi di quel giogo, il tragico e inescusabile abbandono di quanti (interpreti e non solo) si erano fidati di noi e insieme si erano affidati a noi, per non dire della memoria dei soldati occidentali morti lì - a questo punto c'è da temere: invano - in quasi vent'anni.Accanto a questo catalogo di motivi di imbarazzo e vergogna, ce n'è un altro - altrettanto lancinante - fatto di ragioni concretissime di preoccupazione, nel nostro stesso interesse e dal nostro stesso punto di vista. La missione occidentale in Afghanistan, dopo l'11 settembre, era stata avviata proprio per evitare che il terrorismo fondamentalista avesse ancora una base operativa: base operativa (ora lo sappiamo) sfruttata non solo da Osama Bin Laden per pianificare l'attacco alle Torri Gemelle, ma da tutto il network radicale islamista per progettare gli assalti contro le maggiori capitali europee, da Londra a Parigi, da Nizza a Berlino, passando per Madrid e Bruxelles. Molte delle iniziative più sanguinose che hanno colpito le città del nostro continente sono state o pensate o preparate o comunque compiute anche con uomini addestrati da quelle parti, tra l'Afghanistan e l'area circostante, specie ai confini con il Pakistan.Perché, allora, ridare adesso una base operativa al terrore islamista? Come pensare che la guerra al terrorismo sia finita per nostra unilaterale decisione? Come non vedere che il rischio di un «franchising» del terrore, di una collaborazione tra entità geograficamente lontane ma variamente affiliate, di un uso di guerriglieri o ex guerriglieri come bombe umane e attentatori nelle nostre capitali, è tutt'altro che scongiurato? Colpisce anche - inutile far finta che non sia così - il tono dolente in apparenza, ma rassegnato e ipocrita nella sostanza, con cui i mainstream media, non solo italiani, anzi in primo luogo quelli internazionali, stanno raccontando gli eventi: come se fossero circostanze fatali e inevitabili, o addirittura sorprendenti, quando invece - di tutta evidenza - siamo davanti a un naufragio annunciato, al prodotto quasi matematico di un umiliante ripiegamento occidentale.Si dirà, non senza ragioni: attenzione, non è solo colpa di Joe Biden, la cui debolezza è evidente a chiunque guardi le cose con onestà intellettuale. Anche Donald Trump porta un pezzo di responsabilità per una decisione, quella del ritiro Usa, che viene da lontano. Tutto vero, certo: la polemica contro le «endless wars», le guerre senza fine, è stato un caposaldo della retorica trumpiana. Eppure, diciamolo senza con ciò voler assolvere l'ex presidente, c'è modo e modo anche di realizzare un ritiro: e se gli eventi di questi giorni, cioè una millimetrica corrispondenza tra il ritiro Usa e la rimonta in armi talebana, si fossero verificati sotto la presidenza di The Donald, avremmo assistito a una reazione mediatica molto più robusta e sdegnata. Invece, in questi giorni, con poche e rare eccezioni, siamo al minimo sindacale del lamento, al piagnisteo smorzato e controllato. Si sa, attaccare una Casa Bianca a gestione democratica non è quasi mai uno sport molto praticato.Da ultimo, ma è tutt'altro che una preoccupazione ultima per importanza, c'è il tema delle possibili ombre cinesi. Tanti hanno scritto della delegazione talebana ricevuta a Pechino. E tutti sanno che la Cina, già così influente rispetto al Pakistan, è doppiamente lieta della piega che gli eventi stanno prendendo: sia per la prospettiva di estendere la propria longa manus fino all'Afghanistan, sia per l'effetto collaterale di procurare altra paura e altra umiliazione in Occidente. Non sappiamo, com'è stato scritto, se si sia in presenza dell'embrione di un inedito gioco sino-islamista contro il comune nemico occidentale. Sarebbe certamente un'ipotesi inquietante e paradossale: quando l'Occidente non c'entra, la Cina si riserva il «diritto» di perseguitare e reprimere gli uiguri nello Xinjiang; se invece c'è l'occasione di umiliare e inviare un messaggio agli occidentali, Pechino cambia linea ed è disposta a intese perfino con i talebani. Giova ripeterlo: non sappiamo se le cose stiano così. Fare previsioni in un contesto così magmatico è avventuroso e improvviso: il massimo che si possa fare è delineare scenari, preparare ipotesi e - auspicabilmente - una strategia di risposta.Quello che invece è sotto gli occhi di tutti è una spettacolare prova di debolezza dell'Occidente. E non facciamoci illusioni: se la vediamo noi, la vedono benissimo anche i nostri nemici, pronti ad approfittarne.