2025-03-13
Cultura e violenza non sono in antitesi. La lezione di Jonathan Gottschall
True
Jonathan Gottschall (Getty Images)
Ne «Il professore sul ring», l’autore racconta il suo avvicinarsi alle arti marziali, alternando ricerche storiche e allenamenti.Cultura e violenza: due ambiti che – ci è stato insegnato – viaggiano su rette parallele destinate a non incontrarsi mai. Chi ha cervello non combatte, chi combatte non ha cervello. Qualche tempo fa, Jonathan Gottschall, docente di inglese presso il Washington and Jefferson College, in Pennsylvania, si è messo in testa di smentire lo stereotipo. E lo ha fatto non solo attraverso una serie di studi sulle origini sociali, culturali, rituali della violenza, ma anche mettendosi in gioco in prima persona. Gottschall si è iscritto a un club di «arti marziali miste» ed è finito a fare un vero combattimento «nella gabbia», di quelli con poche regole, se non quella, universale, di abbattere l’avversario. Il racconto di questa avventura è contenuto nell’avvincente Il professore sul ring.Racconta l’autore: «Ho trentanove anni. Insegno inglese in un piccolo college di materie umanistiche. Il mio primo libro, The Rape of Troy, si incentrava su un approccio scientifico al tema della violenza, dall’omicidio alle guerre genocidarie, ma tutto quel che so l’ho imparato stando seduto in poltrona. Non ho mai sperimentato la violenza reale, non mi sono mai trovato in uno scontro di alcun tipo. Ma fra poco non sarà più così». Il libro viaggia tutto su questo doppio binario: la preparazione di un rispettabile professore a un incontro in una delle più violente discipline al mondo, e contemporaneamente lo studio scientifico della violenza. Senza nasconderne peraltro gli elementi perturbanti. A cominciare dalla paura. Scrive Gottschall: «Il combattimento può essere seducente. Seduce gli uomini e li aiuta a sedurre le donne, che da sempre sono state attratte dalle mani sporche di sangue di un duellante. Tuttavia, più mi immergevo nella storia e nella sociologia dei combattimenti maschili, meno mi sentivo sedotto».Sulla virilità circolano molti stereotipi antiquati, ovviamente. Ma uno stereotipo non è necessariamente mendace, assurdo o meschino. Scrive Gottschall: «Gli stereotipi sulla mascolinità sono ormai così consolidati per una ragione: sono sostanzialmente veri. Essere timidi, deboli sotto l’aspetto muscolare ed emotivamente fragili è ed è sempre stato non mascolino». La maschilità non è un’invenzione culturale, non è il risultato di una cospirazione contro le donne. È una cosa, un dato. Può sembrare tutto troppo semplice. Ma il maschio è semplice: «Non c’è niente di complesso nella maschilità. È semplicemente forza e durezza, di corpo e mente. Ci possono essere molti modi validi di essere uomo, modi che le culture rispettano o non rispettano, ma non c’è mascolinità senza forza».Alternando ring e ricerche storiche, l’autore si addentra in un mondo a lui sconosciuto, accorgendosi presto che l’aria di distacco e di implicita superiorità con cui aveva guardato il mondo delle arti marziali stava ben presto svanendo. Non poteva stare dentro e fuori allo stesso tempo. Se voleva giocare, doveva giocare fino in fondo: «Non ero più un semplice osservatore della società di guerrieri che mi ero messo a studiare. Ne ero diventato prigioniero. Non potevo ritirarmi dal combattimento senza perdere la faccia, e non solo con quelli della palestra, ma anche con i miei familiari, amici e conoscenti. Quando dicevo che stavo scrivendo questo libro invece delle mie solite cose per impallinati di letteratura inglese, venivo guardato in modo diverso. E quando mi presentai a una conferenza accademica con un bozzo di sangue rappreso sotto un occhio, sentii che in qualche maniera, a un livello molto primordiale, ero superiore a tutti gli altri uomini presenti. E ogni tanto una donna mi guardava in quel modo – o almeno è quello che io ho immaginato – in cui le donne guardano gli uomini che si battono. Così alla fine ho deciso di combattere. L’avrei fatto perché mi trovavo intrappolato in una vera, tangibile, questione d’onore».
Jose Mourinho (Getty Images)