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2021-05-19
L'Italia non beve. E le bibite vanno in crisi
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Anche per i gazzosa il 2020 è stato un anno difficile. Il crollo dei consumi ha pesato per oltre il 15% del mercato in un settore dove i margini sono risicati e sono i volumi a costruire il business. Per avere un'idea basta dire che pure la Coca Cola ha dovuto mettere in cassa integrazione 300 addetti dei reparti commerciali.
La perdita di fatturato è stata attorno la 30% complessivo visto che per tenere quote di mercato nella grande distribuzione si è abbondato di offerte promozionali. E resta tra gli operatori una forte preoccupazione legata a due balzelli che pendono sul settore come una spada di Damocle: la sugar e la plastic tax. La prima che trova giustificazione in quella pedagogia dei consumi che ormai caratterizza lo Stato dietetico - impulso dell' Europa a cui l'Italia del politically correct si è immediatamente conformata - ha già mostrato tutta la sua inutilità. Dove è stata applicata in Francia, in Gran Bretagna, in Olanda la sugar tax non ha affatto ridotto i consumi e per una ragione molto semplice.
Le bibite zuccherate e gassate sono uno dei pochi alimenti a basso costo e più si riducono i redditi disponibili più lo junk food avanza, a parte il fatto che le bibite gassate avvicinandosi l'estate sono un piacere a basso costo e ad alta soddisfazione. Detto questo Assobibe - l'associazione aderente a Confindustria che riunisce i maggiori operatori del settore - continua a chiedere non il rinvio (le due nuove tasse dovrebbero scattare il prossimo anno) ma l'abolizione di questi due balzelli. Per come è concepita in Italia la sugar tax colpirebbe le bibite con un aumento del 28% di tassazione ogni litro e la plastica tax avrebbe un'incidenza ancora superiore: oltre un euro ogni chilo di Pet. Senza tenere conto - come dice il presidente di Assobibe, Giangiacomo Pierini - che le aziende si sono incamminate da tempo su nuove ricette e nuovo packaging. Secondo Pierini con oltre mezzo miliardo d investimenti negli ultimi tre anni si sono ridotte del 27% le calorie in ogni litro di prodotto (è ovviamente una media tra tutti i prodotti di questo comparto) e si è ridotta di oltre il 20% la plastica utilizzata che peraltro è in larghissima misura plastica riciclata a e riciclabile. E tutto questo a fronte di una crisi che per ora non si arresta. In una recente conferenza stampa il presidente dei gazzosai ha ribadito che il crollo dei consumi è continuato. Avendo a disposizione i dati dei primi tre mesi del 2021 come termine di raffronto con il 2019 se ne ricava un calo di vendite del 57%: una mazzata. Per un settore che comunque vale molto, oltre 4,9 miliardi di fatturato, con 100 stabilimenti di produzione e una platea di addetti diretti di 800 mila occupati Senza contare le filiere: cioè i grossisti e la distribuzione. Ma tra chiusure di locali, lockdown, smart working, mancato turismo il cavallo non beve. E la ripresa sembra difficile anche perché gli italiani si sono fatti molto più risparmiosi.
Il crollo dei consumi e un riaccendersi dell'inflazione non lasciano intravedere nessuna immediato rimbalzo che sarebbe legato proprio alla stagione estiva quando la sete aumenta. Ma senza turismo è difficile ipotizzare un'impennata delle bibite. Anche perché noi italiani se siamo in testa alle classifiche di consumo di acqua minerale - consumiamo circa 222 litri a testa all'anno per un totale di 8 miliardi e spiccioli di bottiglie da un litro e mezzo di plastica - siamo molto al di sotto della media europea per quel che riguarda i soft drink. Ne beviamo circa 3,8 miliardi di litri per meno di 52 litri a testa contro una media europea di 94,5 litri dove spiccano i consumi dei tedeschi 140 litri pro capite, dei danesi 125 litri e dei belgi 122 litri. Siamo anche poco affezionati alle novità: se le cola sono di gran lunga le bevande più consumate 8.700 milioni di litri) al secondo posto di gradimento vengono i tè variamente aromatizzati, ma non gassati (360 milioni di litri) e al terzo posto le aranciate che però hanno avuto una flessione di gradimento ( 90 milioni di litri). Tutte le altre fanno il resto, ma un' indicazione in controtendenza è quella che viene delle bibite tradizionali italiane: chinotto, spuma, cedrata, limonata, toniche, gassosa. Queste sono in incremento di valore perché si stanno premiando i piccoli produttori per lo più regionali tant'è che le bibite tradizionali hanno segnato un incremento a valore (dati 2019) del 6,7% con 325 milioni di litri e 250 milioni di fatturato. Diverso il discorso degli energy drink che dalla chiusura dei locali hanno avuto una botta fortissima ma hanno comunque incrementato i consumi trai giovanissimi.
Tassoni resta italiana. Se la bevono i Luneli

Getty Images
La ripartenza può essere anche un bicchiere dove sgorga un liquido giallo, dorato di mille bollicine che fa invidia al sole e profuma d'estate. Succede in Italia esattamente da cento anni, da quando nel 1921 Carlo Amadei crea a Salò la cedrata Tassoni. La storia è molto più antica e bisogna risalire al 1793 quando sulle rive del Garda Lelio Barbaleni aprì la sua spezieria che poi evolve in farmacia, infine in fabbrica di medicinali e distilleria. Ma in piena belle epoque gli sciroppi, parenti stretti dei rosoli, ma non alcolici, affascinavano le signore e il seltz pareva un'invenzione molto alla moda. I travet consumavano la spuma infuso di fiori di sambuco, in acqua con aggiunta di un po' di limone, tanto zucchero e talvolta melassa e la chiamavano la sciampagnina! La Tassoni è la colonna sensoriale delle estati italiane, da quando a Livorno cominciarono agli stabilimenti Pancaldi i primi bani di mare, da quando si andava alle terme, o in riva al lago. Erano le prime villeggiature borghesi. La ripartenza passa anche dall'aver trattenuto qui un simbolo dell'Italia pur appetito da molti colossi del beverage. È accaduto che la famiglia Amadei - gli eredi - dopo quattro generazioni d'impegno a estrarre sciroppo dai cedri del Garda per farne la Tassoni (e davvero basta la parola) volevano cedere tutto. E hanno fatto un' asta. Pensate all'asta al rialzo dei quattrini? No anche se la cifra è notevole, ma un'asta per stabilire chi si sarebbe attenuto al disciplinare della Tassoni e chi avrebbe garantito continuità all'azienda – una trentina di dipendenti, ma solida rete distributiva - e alle sue qualità. E chi ha vinto? Ha vinto un altro simbolo dell'Italia che sa fare l'Italia: la famiglia Lunelli, che significa cantine Ferrari (lo spumante della Formula uno, manco a dirlo) che significa vini di qualità in Toscana( Podernovo), in Veneto (è loro una delle cantine più prestigiose del Cartizze, Bisol con appendice a Venezia) in Umbria (il Carapace ottimo Sagrantino di Montefalco), che significa la più esclusiva acqua minerale d'Italia (Surgiva).
I Lunelli hanno creato il mito del Trentodoc uno degli spumanti più celebrati, ma hanno deciso d'investire in Tassoni per la forza del marchio e per aprire un altro mercato. Il gruppo ha fatturato nel 2019 (anno record) 106 milioni di euro di cui 79 arrivano dagli spumanti Ferrari con quasi 6 milioni di bottiglie vendute in una quarantina di paesi. Quest'anno hanno intenzione di andare oltre nonostante le difficoltà del virus cinese. Come dice Camilla Lunelli che è la responsabile marketing e comunicazione del gruppo: «Siamo orgogliosi di annunciare che Cedral Tassoni, con la sua iconica cedrata, entra a far parte del gruppo Luneli. Siamo entusiasti di dare il via a quest'avventura e felici che un marchio che fa parte dell'immaginario collettivo italiano come Tassoni resti nel nostro Paese. Vogliamo valorizzarne la straordinaria storia iniziata nel 1793 e il legame con il suo bellissimo territorio, il Lago di Garda». Del resto da Trento a Salò c'è solo questo mare interno! E ora per la Cedral si apre un mare di opportunità. Il gruppo di Salò ha fatturato poco meno di dieci milioni con 22 milioni di bottigliette vendute. Ma nelle intenzioni di Matteo Lunelli - è il giovanissimo presidente del gruppo, lunga esperienza in Goldman Sachs, dopo che Gino Lunelli, uno de tre capostipite, ha lasciato l'azienda dove lavorano anche gli altri due "Lunellini", Marcello enologo responsabile di produzione e vicepresidente, e Alessandro che si occupa dell'area tecnica - c'è una forte internazionalizzazione di Tassoni che deve diventare un'icona mondiale del bere all'italiana e una forte sinergia con la rete distributiva di Ferrari. Anche perché negli anni Michela Redini, presidente di Tassoni ed erede diretta del fondatore Carlo Amadei, ed Elio Accardo, amministratore delegato, hanno allargato la gamma delle bibite Tassoni sempre però nel rispetto assoluto della tradizione italiana. Così sono nati il Chinotto, il Sambuco, il Mirto, la Pescamara, le acque Toniche ai limoni del Garda, davvero un campionario della nostra tradizione dissetante. Che rimanda alla pratica conventuale.
I cedri sul Garda li hanno portati nel Trecento i frati francescani. Loro hanno affinato la tecnica di estrazione dell'essenza e loro hanno prodotto le prime bevande al cedro di cui la Tassoni è la fedele interprete. Ma la cosa straordinaria è che dai conventi, dalla suore benedettine e dalle clarisse in special modo sono nati tutti i dissetanti italiani e i rosoli quelli per esempio che Tomasi di Lampedusa rende protagonisti del Gattopardo. Bibite rese possibili dallo zucchero, prerogativa araba dunque siciliana, poi diffusosi in tutta Italia e diventato a buon prezzo da quando si estrae dalla barbabietola e non solo dalla canna, che sono diventate prima diletto dei signori e dopo gioia di popolo. E non c'è estate italiana da cento anni che non abbia profumato di Tassoni. Perciò questa inconfondibile bottiglietta gialla è un raggio di speranza, per una volta un'icona del made in Italy che resta a casa, nonostante il deserto economico che la pandemia ci ha fatto attraversare. Ma già che siamo a raccontar di bibite val la pena ricordarsi di Antoine de Saint-Exupéry che ebbe a notare: il bello del deserto è che da qualche parte nasconde un pozzo!
Dall'acqua zuffregna allo sciroppo di dose

Napoli, 1950: un venditore ambulante di acqua zuffregna aromatizzata al limone di Sorrento
C'era un tempo in cui a Napoli erano famose le venditrici di acqua zuffregna. Attingevano acqua da una fonte sulfurea, la mettevano in brocche di coccio che tenevano sulla testa e per un miracolo chimico quell'acqua aromatizzata talvolta col limone restava sempre fresca. E così a Catania c'erano i chioschi e a Roma i grattacheccai, e a Firenze gli acquaioli. Era l'Italia assetata e povera che però con un bicchiere d'acqua e limone, magari un poco di zucchero scopriva l'immenso piacere delle piccole cose.
È da quest'arte di arrangiarsi per cercare di vivere appena un po' più confortevolmente e dall'abilità di questi venditori di frescura che si sono originate alcune delle bibite caratteristiche del nostro paese, colonna gustativa delle nostre estati. Quest'abilità dei venditori di strada si è declinata con le sapienze delle monache e dei monaci dei conventi che sfruttando erbe e conoscenze quasi alchemiche e ripescando dalla tradizione romana hanno costruito tutta l'arte liquoristica italiana: dagli amari ai rosoli. Dunque l'Italia nel bicchiere è un universo culturale che andrebbe più profondamente esplorato e con maggiore attenzione preservato. Si potrebbe riandare ai tempi della Grecia o della Roma antica per scoprire che anche allora c'erano bibite particolari: l'idromele ricavato da una parziale fermentazione del miele, il sidro, la birra (diversa dalla nostra) molto amata dalle donne a cui non era consentito l'uso del vino, la posca, la bevanda di acqua e aceto che dissetava i legionari romani (è quella che il centurione porge al Cristo sulla croce!) e perfino si sorbetti che i romani erano soliti gustare insaporendo la neve depositata nelle neviere con vini dolcissimi. Saranno poi gli arabi in Sicilia a mettere insieme ghiaccio e agrumi, ghiaccio e sambuco. E proprio a Catania troviamo le tracce dell'antenato della spuma. I chioschi più antichi di cui si ha traccia sono della fine dell'800, ma già si sa che nei pressi di Palagonia vi erano (e vi sono) delle sorgenti di acqua naturalmente frizzanti. Mettendo fiori di sambuco e more di gelso con aggiunta di limone e un po' di zucchero si creo di fatto l'antenata della spuma. Che è stata la bibita più popolare di sempre in Italia. Per farla oltre al sambuco si usa caramello, estratto di radice di rabarbaro. Che poi la spuma sia stata declinata in molti modi con l'aggiunta di essenze talvolta naturali talaltra di sintesi è un altro paio di maniche.
Una bevanda molto simile alla spuma è la miscelazione di succo di mela con acqua gassata o seltz. Sarà il caso di ricordare che i romani e i greci già conoscevano lo zucchero, ma che lo usavano con parsimonia perché era carissimo ed aveva scopo lassativo. Furono gli arabi intorno al Mille a introdurne massiccio uso e l'arrivo dello zucchero consentì miracoli gastronomici come la pasta martorana (quella di mandorle) o l'invenzione degli sciroppi. Gli sciroppi stanno alla base delle nostre bibite. E diventano popolarissimi a partire dai primi dell'800. La prima coltivazione di barbabietole da zucchero è del 1809 il primo zuccherificio industriale si aprì a Rieti nel 1873, nel mezzo vi erano produzioni artigianali. Ed erano i farmacisti a produrre gli sciroppi partendo dalla frutta di stagione e locale. Così cominciarono ad aversi gli sciroppi di amarena (non è un caso che si siano sviluppati agli inizi del '900 tra Modena e Bologna), di limone e di arancio (tra Palermo e Napoli) e poi di orzo (in Toscana) e ancora si aggiunsero gli sciroppi di sambuco, di gelso mentre il latte di mandorle era noto da secoli e lo sciroppo di menta risale ai conventi del 1200, così come c'è tutt'oggi uno sciroppo rarissimo che si fa in Liguria: quello di rose famosissimo in Valescrivia. E ce n'è un altro che un tempo era appannaggio solo degli speziali e dei farmacisti e che ingentiliva le estati delle nobildonne: quello di tamarindo. Il primo modo di bere scuro degli italiani. Da questi sciroppi nascono poi le bibite italiane. Se dobbiamo elencare le più note ci sono il Chinotto ce si fa partendo dall'agrume coltivato ora nel savonese una volta più esteso, poi l'ranciata che contrariamente a quanto si potrebbe pensare nacque non in Sicilia ma nella bergamasca. L'aranciata frizzante è stata inventata da Ezio Granelli allora proprietario della fonte San Pellegrino che la presentò alla Campionaria di Milano nel 1932. Il limoncello manco a dirlo nasce ad Amalfi nel periodo del primissimo turismo utilizzando i limoni sfusati.
Se questi sono i capisaldi della nostra tradizione (anche lo Spritz e i vari aperitivi leggermente alcolici prendono origine da qua: dal Campari all'Aperol sono tutti figli dell'idea di utilizzare il contrasto dulcamaro che viene dal rabarbaro e poi dalle acque toniche) oggi ci sono molti nuovi imprenditori che hanno ripreso i fili di queste produzioni. Tanto per dirne alcuni la Brasilena calabrese che è caffè gassato, i ginger e le toniche di Abbondio in quel di Corsico, le stupende bibite di Bona (Augusta) dal Melograno al mandarino verde al bergamotto, i freschissimi agrumi delle ragazze di BioSmurra di Rossano, le spremute da gassare di Bibite Madre di Modica, l'eccelsa spuma Paoletti - compresa la nera molto rara - di Ascoli Piceno e tra i prodotti noti al largo pubblico come non ricordare il derby dei bitter: Mentasti nel 1961 fa debuttare il Bitter San Pellegrino, nel 1964 risponde Piero Ginocchi con il Picador che di lì a qualche settimana diventerà il Crodino. Sono la declinazione analcolica dei famosissimi bitter (nati da esperimenti di farmacia) a loro volta declinati dal vermouth, la splendida idea che nel 1786 ebbe Antonio Benedetto Carpano di aromatizzare il vino con le erbe officinali ripigliando l'antichissima pratica greco-latina e sposandola con la grande sapienza erboristica consolidatasi in Italia grazie ai monasteri.
Come sempre capita in Italia la diversità è massima e un'indagine di grande valore sarebbe quella di ripercorrere i legami tra queste bibite e l'arte, moltissimi pittori si sono prestati a fare le affiches pubblicitarie. Perfino i futuristi si cimentarono con le bibite (c'è un ampio catalogo di cocktail e soft drink prodotti dai seguaci di Marinetti) e ne crearono le immagini. E oggi c'è chi ha ripreso quell'idea: sono i ragazzi trevigiani di Bevande Futuriste che hanno due linee: la bio e la Cortese. Un universo tutto da bere!
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Le chiusure hanno ridotto i consumi del 57% e all'orizzonte c' è per un settore che vale 4,9 miliardi lo spauracchio sugar e plastic tax.Tassoni rimane italiana. L'iconica cedrata del lago di Garda acquisita dal gruppo degli eccelsi spumanti Ferrari.Acqua zuffregna e sciroppo di dose. Storia delle bevande italiane: dai primi venditori alla riscoperta di antichi marchi in un universo di dolcezza.Lo speciale contiene tre articoli.Anche per i gazzosa il 2020 è stato un anno difficile. Il crollo dei consumi ha pesato per oltre il 15% del mercato in un settore dove i margini sono risicati e sono i volumi a costruire il business. Per avere un'idea basta dire che pure la Coca Cola ha dovuto mettere in cassa integrazione 300 addetti dei reparti commerciali.La perdita di fatturato è stata attorno la 30% complessivo visto che per tenere quote di mercato nella grande distribuzione si è abbondato di offerte promozionali. E resta tra gli operatori una forte preoccupazione legata a due balzelli che pendono sul settore come una spada di Damocle: la sugar e la plastic tax. La prima che trova giustificazione in quella pedagogia dei consumi che ormai caratterizza lo Stato dietetico - impulso dell' Europa a cui l'Italia del politically correct si è immediatamente conformata - ha già mostrato tutta la sua inutilità. Dove è stata applicata in Francia, in Gran Bretagna, in Olanda la sugar tax non ha affatto ridotto i consumi e per una ragione molto semplice.Le bibite zuccherate e gassate sono uno dei pochi alimenti a basso costo e più si riducono i redditi disponibili più lo junk food avanza, a parte il fatto che le bibite gassate avvicinandosi l'estate sono un piacere a basso costo e ad alta soddisfazione. Detto questo Assobibe - l'associazione aderente a Confindustria che riunisce i maggiori operatori del settore - continua a chiedere non il rinvio (le due nuove tasse dovrebbero scattare il prossimo anno) ma l'abolizione di questi due balzelli. Per come è concepita in Italia la sugar tax colpirebbe le bibite con un aumento del 28% di tassazione ogni litro e la plastica tax avrebbe un'incidenza ancora superiore: oltre un euro ogni chilo di Pet. Senza tenere conto - come dice il presidente di Assobibe, Giangiacomo Pierini - che le aziende si sono incamminate da tempo su nuove ricette e nuovo packaging. Secondo Pierini con oltre mezzo miliardo d investimenti negli ultimi tre anni si sono ridotte del 27% le calorie in ogni litro di prodotto (è ovviamente una media tra tutti i prodotti di questo comparto) e si è ridotta di oltre il 20% la plastica utilizzata che peraltro è in larghissima misura plastica riciclata a e riciclabile. E tutto questo a fronte di una crisi che per ora non si arresta. In una recente conferenza stampa il presidente dei gazzosai ha ribadito che il crollo dei consumi è continuato. Avendo a disposizione i dati dei primi tre mesi del 2021 come termine di raffronto con il 2019 se ne ricava un calo di vendite del 57%: una mazzata. Per un settore che comunque vale molto, oltre 4,9 miliardi di fatturato, con 100 stabilimenti di produzione e una platea di addetti diretti di 800 mila occupati Senza contare le filiere: cioè i grossisti e la distribuzione. Ma tra chiusure di locali, lockdown, smart working, mancato turismo il cavallo non beve. E la ripresa sembra difficile anche perché gli italiani si sono fatti molto più risparmiosi.Il crollo dei consumi e un riaccendersi dell'inflazione non lasciano intravedere nessuna immediato rimbalzo che sarebbe legato proprio alla stagione estiva quando la sete aumenta. Ma senza turismo è difficile ipotizzare un'impennata delle bibite. Anche perché noi italiani se siamo in testa alle classifiche di consumo di acqua minerale - consumiamo circa 222 litri a testa all'anno per un totale di 8 miliardi e spiccioli di bottiglie da un litro e mezzo di plastica - siamo molto al di sotto della media europea per quel che riguarda i soft drink. Ne beviamo circa 3,8 miliardi di litri per meno di 52 litri a testa contro una media europea di 94,5 litri dove spiccano i consumi dei tedeschi 140 litri pro capite, dei danesi 125 litri e dei belgi 122 litri. Siamo anche poco affezionati alle novità: se le cola sono di gran lunga le bevande più consumate 8.700 milioni di litri) al secondo posto di gradimento vengono i tè variamente aromatizzati, ma non gassati (360 milioni di litri) e al terzo posto le aranciate che però hanno avuto una flessione di gradimento ( 90 milioni di litri). Tutte le altre fanno il resto, ma un' indicazione in controtendenza è quella che viene delle bibite tradizionali italiane: chinotto, spuma, cedrata, limonata, toniche, gassosa. Queste sono in incremento di valore perché si stanno premiando i piccoli produttori per lo più regionali tant'è che le bibite tradizionali hanno segnato un incremento a valore (dati 2019) del 6,7% con 325 milioni di litri e 250 milioni di fatturato. Diverso il discorso degli energy drink che dalla chiusura dei locali hanno avuto una botta fortissima ma hanno comunque incrementato i consumi trai giovanissimi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/italia-non-beve-bibite-crisi-2653037333.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tassoni-resta-italiana-se-la-bevono-i-luneli" data-post-id="2653037333" data-published-at="1621438273" data-use-pagination="False"> Tassoni resta italiana. Se la bevono i Luneli Getty Images La ripartenza può essere anche un bicchiere dove sgorga un liquido giallo, dorato di mille bollicine che fa invidia al sole e profuma d'estate. Succede in Italia esattamente da cento anni, da quando nel 1921 Carlo Amadei crea a Salò la cedrata Tassoni. La storia è molto più antica e bisogna risalire al 1793 quando sulle rive del Garda Lelio Barbaleni aprì la sua spezieria che poi evolve in farmacia, infine in fabbrica di medicinali e distilleria. Ma in piena belle epoque gli sciroppi, parenti stretti dei rosoli, ma non alcolici, affascinavano le signore e il seltz pareva un'invenzione molto alla moda. I travet consumavano la spuma infuso di fiori di sambuco, in acqua con aggiunta di un po' di limone, tanto zucchero e talvolta melassa e la chiamavano la sciampagnina! La Tassoni è la colonna sensoriale delle estati italiane, da quando a Livorno cominciarono agli stabilimenti Pancaldi i primi bani di mare, da quando si andava alle terme, o in riva al lago. Erano le prime villeggiature borghesi. La ripartenza passa anche dall'aver trattenuto qui un simbolo dell'Italia pur appetito da molti colossi del beverage. È accaduto che la famiglia Amadei - gli eredi - dopo quattro generazioni d'impegno a estrarre sciroppo dai cedri del Garda per farne la Tassoni (e davvero basta la parola) volevano cedere tutto. E hanno fatto un' asta. Pensate all'asta al rialzo dei quattrini? No anche se la cifra è notevole, ma un'asta per stabilire chi si sarebbe attenuto al disciplinare della Tassoni e chi avrebbe garantito continuità all'azienda – una trentina di dipendenti, ma solida rete distributiva - e alle sue qualità. E chi ha vinto? Ha vinto un altro simbolo dell'Italia che sa fare l'Italia: la famiglia Lunelli, che significa cantine Ferrari (lo spumante della Formula uno, manco a dirlo) che significa vini di qualità in Toscana( Podernovo), in Veneto (è loro una delle cantine più prestigiose del Cartizze, Bisol con appendice a Venezia) in Umbria (il Carapace ottimo Sagrantino di Montefalco), che significa la più esclusiva acqua minerale d'Italia (Surgiva).I Lunelli hanno creato il mito del Trentodoc uno degli spumanti più celebrati, ma hanno deciso d'investire in Tassoni per la forza del marchio e per aprire un altro mercato. Il gruppo ha fatturato nel 2019 (anno record) 106 milioni di euro di cui 79 arrivano dagli spumanti Ferrari con quasi 6 milioni di bottiglie vendute in una quarantina di paesi. Quest'anno hanno intenzione di andare oltre nonostante le difficoltà del virus cinese. Come dice Camilla Lunelli che è la responsabile marketing e comunicazione del gruppo: «Siamo orgogliosi di annunciare che Cedral Tassoni, con la sua iconica cedrata, entra a far parte del gruppo Luneli. Siamo entusiasti di dare il via a quest'avventura e felici che un marchio che fa parte dell'immaginario collettivo italiano come Tassoni resti nel nostro Paese. Vogliamo valorizzarne la straordinaria storia iniziata nel 1793 e il legame con il suo bellissimo territorio, il Lago di Garda». Del resto da Trento a Salò c'è solo questo mare interno! E ora per la Cedral si apre un mare di opportunità. Il gruppo di Salò ha fatturato poco meno di dieci milioni con 22 milioni di bottigliette vendute. Ma nelle intenzioni di Matteo Lunelli - è il giovanissimo presidente del gruppo, lunga esperienza in Goldman Sachs, dopo che Gino Lunelli, uno de tre capostipite, ha lasciato l'azienda dove lavorano anche gli altri due "Lunellini", Marcello enologo responsabile di produzione e vicepresidente, e Alessandro che si occupa dell'area tecnica - c'è una forte internazionalizzazione di Tassoni che deve diventare un'icona mondiale del bere all'italiana e una forte sinergia con la rete distributiva di Ferrari. Anche perché negli anni Michela Redini, presidente di Tassoni ed erede diretta del fondatore Carlo Amadei, ed Elio Accardo, amministratore delegato, hanno allargato la gamma delle bibite Tassoni sempre però nel rispetto assoluto della tradizione italiana. Così sono nati il Chinotto, il Sambuco, il Mirto, la Pescamara, le acque Toniche ai limoni del Garda, davvero un campionario della nostra tradizione dissetante. Che rimanda alla pratica conventuale.I cedri sul Garda li hanno portati nel Trecento i frati francescani. Loro hanno affinato la tecnica di estrazione dell'essenza e loro hanno prodotto le prime bevande al cedro di cui la Tassoni è la fedele interprete. Ma la cosa straordinaria è che dai conventi, dalla suore benedettine e dalle clarisse in special modo sono nati tutti i dissetanti italiani e i rosoli quelli per esempio che Tomasi di Lampedusa rende protagonisti del Gattopardo. Bibite rese possibili dallo zucchero, prerogativa araba dunque siciliana, poi diffusosi in tutta Italia e diventato a buon prezzo da quando si estrae dalla barbabietola e non solo dalla canna, che sono diventate prima diletto dei signori e dopo gioia di popolo. E non c'è estate italiana da cento anni che non abbia profumato di Tassoni. Perciò questa inconfondibile bottiglietta gialla è un raggio di speranza, per una volta un'icona del made in Italy che resta a casa, nonostante il deserto economico che la pandemia ci ha fatto attraversare. Ma già che siamo a raccontar di bibite val la pena ricordarsi di Antoine de Saint-Exupéry che ebbe a notare: il bello del deserto è che da qualche parte nasconde un pozzo! <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/italia-non-beve-bibite-crisi-2653037333.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="dall-acqua-zuffregna-allo-sciroppo-di-dose" data-post-id="2653037333" data-published-at="1621438273" data-use-pagination="False"> Dall'acqua zuffregna allo sciroppo di dose Napoli, 1950: un venditore ambulante di acqua zuffregna aromatizzata al limone di Sorrento C'era un tempo in cui a Napoli erano famose le venditrici di acqua zuffregna. Attingevano acqua da una fonte sulfurea, la mettevano in brocche di coccio che tenevano sulla testa e per un miracolo chimico quell'acqua aromatizzata talvolta col limone restava sempre fresca. E così a Catania c'erano i chioschi e a Roma i grattacheccai, e a Firenze gli acquaioli. Era l'Italia assetata e povera che però con un bicchiere d'acqua e limone, magari un poco di zucchero scopriva l'immenso piacere delle piccole cose.È da quest'arte di arrangiarsi per cercare di vivere appena un po' più confortevolmente e dall'abilità di questi venditori di frescura che si sono originate alcune delle bibite caratteristiche del nostro paese, colonna gustativa delle nostre estati. Quest'abilità dei venditori di strada si è declinata con le sapienze delle monache e dei monaci dei conventi che sfruttando erbe e conoscenze quasi alchemiche e ripescando dalla tradizione romana hanno costruito tutta l'arte liquoristica italiana: dagli amari ai rosoli. Dunque l'Italia nel bicchiere è un universo culturale che andrebbe più profondamente esplorato e con maggiore attenzione preservato. Si potrebbe riandare ai tempi della Grecia o della Roma antica per scoprire che anche allora c'erano bibite particolari: l'idromele ricavato da una parziale fermentazione del miele, il sidro, la birra (diversa dalla nostra) molto amata dalle donne a cui non era consentito l'uso del vino, la posca, la bevanda di acqua e aceto che dissetava i legionari romani (è quella che il centurione porge al Cristo sulla croce!) e perfino si sorbetti che i romani erano soliti gustare insaporendo la neve depositata nelle neviere con vini dolcissimi. Saranno poi gli arabi in Sicilia a mettere insieme ghiaccio e agrumi, ghiaccio e sambuco. E proprio a Catania troviamo le tracce dell'antenato della spuma. I chioschi più antichi di cui si ha traccia sono della fine dell'800, ma già si sa che nei pressi di Palagonia vi erano (e vi sono) delle sorgenti di acqua naturalmente frizzanti. Mettendo fiori di sambuco e more di gelso con aggiunta di limone e un po' di zucchero si creo di fatto l'antenata della spuma. Che è stata la bibita più popolare di sempre in Italia. Per farla oltre al sambuco si usa caramello, estratto di radice di rabarbaro. Che poi la spuma sia stata declinata in molti modi con l'aggiunta di essenze talvolta naturali talaltra di sintesi è un altro paio di maniche.Una bevanda molto simile alla spuma è la miscelazione di succo di mela con acqua gassata o seltz. Sarà il caso di ricordare che i romani e i greci già conoscevano lo zucchero, ma che lo usavano con parsimonia perché era carissimo ed aveva scopo lassativo. Furono gli arabi intorno al Mille a introdurne massiccio uso e l'arrivo dello zucchero consentì miracoli gastronomici come la pasta martorana (quella di mandorle) o l'invenzione degli sciroppi. Gli sciroppi stanno alla base delle nostre bibite. E diventano popolarissimi a partire dai primi dell'800. La prima coltivazione di barbabietole da zucchero è del 1809 il primo zuccherificio industriale si aprì a Rieti nel 1873, nel mezzo vi erano produzioni artigianali. Ed erano i farmacisti a produrre gli sciroppi partendo dalla frutta di stagione e locale. Così cominciarono ad aversi gli sciroppi di amarena (non è un caso che si siano sviluppati agli inizi del '900 tra Modena e Bologna), di limone e di arancio (tra Palermo e Napoli) e poi di orzo (in Toscana) e ancora si aggiunsero gli sciroppi di sambuco, di gelso mentre il latte di mandorle era noto da secoli e lo sciroppo di menta risale ai conventi del 1200, così come c'è tutt'oggi uno sciroppo rarissimo che si fa in Liguria: quello di rose famosissimo in Valescrivia. E ce n'è un altro che un tempo era appannaggio solo degli speziali e dei farmacisti e che ingentiliva le estati delle nobildonne: quello di tamarindo. Il primo modo di bere scuro degli italiani. Da questi sciroppi nascono poi le bibite italiane. Se dobbiamo elencare le più note ci sono il Chinotto ce si fa partendo dall'agrume coltivato ora nel savonese una volta più esteso, poi l'ranciata che contrariamente a quanto si potrebbe pensare nacque non in Sicilia ma nella bergamasca. L'aranciata frizzante è stata inventata da Ezio Granelli allora proprietario della fonte San Pellegrino che la presentò alla Campionaria di Milano nel 1932. Il limoncello manco a dirlo nasce ad Amalfi nel periodo del primissimo turismo utilizzando i limoni sfusati.Se questi sono i capisaldi della nostra tradizione (anche lo Spritz e i vari aperitivi leggermente alcolici prendono origine da qua: dal Campari all'Aperol sono tutti figli dell'idea di utilizzare il contrasto dulcamaro che viene dal rabarbaro e poi dalle acque toniche) oggi ci sono molti nuovi imprenditori che hanno ripreso i fili di queste produzioni. Tanto per dirne alcuni la Brasilena calabrese che è caffè gassato, i ginger e le toniche di Abbondio in quel di Corsico, le stupende bibite di Bona (Augusta) dal Melograno al mandarino verde al bergamotto, i freschissimi agrumi delle ragazze di BioSmurra di Rossano, le spremute da gassare di Bibite Madre di Modica, l'eccelsa spuma Paoletti - compresa la nera molto rara - di Ascoli Piceno e tra i prodotti noti al largo pubblico come non ricordare il derby dei bitter: Mentasti nel 1961 fa debuttare il Bitter San Pellegrino, nel 1964 risponde Piero Ginocchi con il Picador che di lì a qualche settimana diventerà il Crodino. Sono la declinazione analcolica dei famosissimi bitter (nati da esperimenti di farmacia) a loro volta declinati dal vermouth, la splendida idea che nel 1786 ebbe Antonio Benedetto Carpano di aromatizzare il vino con le erbe officinali ripigliando l'antichissima pratica greco-latina e sposandola con la grande sapienza erboristica consolidatasi in Italia grazie ai monasteri.Come sempre capita in Italia la diversità è massima e un'indagine di grande valore sarebbe quella di ripercorrere i legami tra queste bibite e l'arte, moltissimi pittori si sono prestati a fare le affiches pubblicitarie. Perfino i futuristi si cimentarono con le bibite (c'è un ampio catalogo di cocktail e soft drink prodotti dai seguaci di Marinetti) e ne crearono le immagini. E oggi c'è chi ha ripreso quell'idea: sono i ragazzi trevigiani di Bevande Futuriste che hanno due linee: la bio e la Cortese. Un universo tutto da bere!
In alto a sinistra una «Rettungsboje» tedesca. Sotto, la boa Asr-10 inglese e i rispettivi esplosi
Nei mesi della Battaglia di Inghilterra, iniziata nel luglio 1940 dopo la rapida caduta della Francia, la guerra aerea fu l’essenza della strategia da entrambe le parti. La Luftwaffe, con i suoi 2.500 velivoli in condizioni operative, superò inizialmente la Royal Air Force, che in quel periodo iniziò un enorme sforzo industriale per cercare di ridurre il «gap» numerico e tecnologico (nacquero in quel periodo i fortissimi caccia Hawker «Hurricane» e Supermarine «Spitfire» che saranno decisivi per l’esito finale della battaglia). Se le fabbriche sfornavano centinaia di velivoli al mese (i tedeschi con i Messerschmitt Bf 109, gli Heinkel 111 e i Dornier Do17), i comandi delle due aviazioni non potevano formare altrettanti piloti in così poco tempo, rendendo la figura dell’aviatore un bene preziosissimo da preservare il più possibile viste le ingenti perdite in battaglia. Un aspetto così delicato in un momento così drammatico per l’esito della guerra fu affrontato per primo dagli alti comandi della Luftwaffe. La necessità era quella di salvare il più alto numero di equipaggi in un teatro di operazioni principalmente localizzato nello specchio di mare della Manica, sopra il quale nel picco dei combattimenti dell’agosto 1940 volavano quotidianamente oltre 1.500 aerei.
La soluzione per il salvataggio degli aviatori in caso di ammaraggio con sopravvissuti venne da un ex asso della Grande Guerra, il generale di squadra aerea Ernst Udet. L’ufficiale, secondo solamente al «Barone Rosso» Manfred von Richtofen per numero di abbattimenti, era stato da poco nominato responsabile per la logistica e gli appalti della forza aerea del Terzo Reich. Fu nel picco delle operazioni dell’estate 1940 che Udet sviluppò la sua idea: una boa «abitabile», posizionata nei tratti di mare statisticamente più soggetti agli ammaraggi e ancorata al fondale. I piloti potevano leggerne la posizione sulle carte aeronautiche in dotazione. Di forma esagonale, la «Rettungsboje» (letteralmente boa di soccorso) aveva una superficie abitabile di 4 metri quadrati. Lo scafo aveva un’altezza di 2.5 metri ed era sovrastato da una torretta finestrata di ulteriori 1,8 metri. Verniciata in giallo, presentava una visibile croce rossa (standard della Convenzione di Ginevra) sui lati della torretta. All’interno dello scafo potevano trovare alloggio sicuro quattro aviatori, con due cuccette a castello ancorate alla struttura per rimanere stabili nel mare agitato. Riscaldata da una stufa ad alcool, la boa offriva razioni d’emergenza e acqua ma anche cognac, sigarette e carte da gioco. Negli armadi erano presenti il kit di primo soccorso ed abiti asciutti, mentre le comunicazioni erano fornite da una radio ricetrasmittente. All’interno c’erano anche una pompa per eventuali falle e un canotto per raggiungere i soccorsi una volta giunti nei pressi della boa. Completavano l’equipaggiamento razzi di segnalazione e una macchina per i fumogeni di emergenza. Il personale ospitato dalle boe poteva resistere protetto dall’ipotermia e dai marosi anche per una settimana nell’attesa che un idrovolante di soccorso o una nave li raggiungesse.
Circa 50 furono le «Rettungsbuoje» dislocate nella Manica, contribuendo al salvataggio di un numero imprecisato di aviatori. Gli inglesi realizzarono un mezzo simile nello stesso periodo, seppure molto differente nella forma. La boa ASR-10 (Air Sea Rescue Float) assomigliava molto ad un motoscafo, seppur priva di propulsore. Era studiata per facilitare l’accesso da parte dei naufraghi in balia delle onde, con la poppa digradante verso l’acqua. L’equipaggiamento era molto simile a quello della boa tedesca. Dipinta in rosso e arancio vivaci, fu realizzata in 16 esemplari ancorati nel braccio di mare tra Inghilterra e Francia tra il 1940 ed il 1941. Oggi un esemplare è conservato presso lo Scottish Maritime Museum.
Le boe tedesche, dopo la fine della Battaglia di Inghilterra, furono spostate presso le Channel Islands, il piccolo arcipelago occupato temporaneamente dai tedeschi e utilizzate come punti di vedetta o di difesa dopo essere state munite di una mitragliatrice. A causa della loro vulnerabilità furono quasi tutte affondate dagli aerei della Raf. Un esemplare recuperato nel 2020 dopo essere rimasto per decenni arenato e insabbiato a Terschelling nelle isole Frisone occidentali è conservato al «Bunkermuseum» dell’isola olandese.
Ernst Udet, dopo l’esito infausto della Battaglia d’Inghilterra per la Luftwaffe, già in preda all’alcolismo cadde in depressione. Si tolse la vita a Berlino il 17 novembre 1941, forse anche per le conseguenze della pressione psicologica che Hermann Göring esercitò sull’ufficiale dell’aeronautica addossandogli la responsabilità della sconfitta.
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Stanno comparendo in diverse città italiane, graditi soprattutto alle giunte di centro sinistra e in particolare ai fanatici delle zone con limitazione di traffico a 30kmh. Basta una nottata e grazie a una serie di tasselli inseriti nell’asfalto l’installazione è fatta. Tutto bello? Non proprio: a ben guardare la normativa riguardante tale soluzione è Incompleta, poiché In Italia non sono previsti nel dettaglio dal Codice della Strada e questo rende la loro adozione più complicata sul pano della burocrazia. In pratica, per ora la loro installazione avviene solo tramite sperimentazione autorizzata dal Ministero dei Trasporti. Ci sono poi alcune questioni tecniche: andrebbero installati soltanto sulle strade con bassa densità di traffico e, appunto, laddove il limite è già 30 km/h, e questo giocoforza li rende una soluzione praticabile soltanto in alcune zone. Inoltre, i cuscini berlinesi devono essere posizionati a una distanza tale da curve e incroci per permettere ai veicoli più grandi di potersi raddrizzare completamente dopo aver effettuato la svolta prima di valicarli. Il peggio però è altro: se chi è distratto da aver superato di poco il limite, finendoci sopra rischia di danneggiare la vettura e ciò accadrà ancora di più se essa è poco rialzata da terra. Ma se la distrazione o le condizioni psicofisiche del conducente sono alterate al punto che egli non si sta rendendo conto della sua velocità, e questa è elevata, egli può facilmente perdere il controllo, ad andare bene finendo per sbattere contro altri mezzi, peggio finendo per travolgere delle persone. E non mancano neppure i problemi di manutenzione, poiché nel tempo si usurano a causa delle pressioni ma anche dell’irraggiamento solare e degli sbalzi di temperatura. Laddove sono stati applicati in modo diffuso è in Francia e nel Regno Unito, nazioni che ne hanno definito le specifiche riprendendo a loro volta quelle tedesche. Il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito già nel 1984 aveva fissato la pendenza massima degli elementi al 12,5% per le rampe longitudinali di ingresso e di uscita dai cuscini, ed il rapporto del 25% per le rampe trasversali laterali. Stando a quanto si trova online, la Francia prevede rampe longitudinali con pendenze molto più elevate: le rampe devono essere lunghe 20 cm per cuscini alti 5 cm (con una pendenza del 25%), 25 cm per cuscini alti 7 cm (con una pendenza del 28%). Rampe così ripide devono essere adottate con cautela: indagini condotte dal Dipartimento dei trasporti britannico hanno mostrato che, con rampe longitudinali dalla pendenza maggiore del 17%, i veicoli rischiavano di toccare il con il fondo riportando seri danni: dalla distruzione dell’impianto di scarico fino alla rottura della coppa dell’olio con annesso sversamento del fluido e inquinamento. Di conseguenza essi devono essere particolarmente ben segnalati – tipicamente con verniciature gialle – ma anche tale caratteristica tende ovviamente a degradarsi con il tempo. E stante il livello di manutenzione delle nostre strade è facile prevedere che dovremo confidare nell’attenzione di chi guida e nell’illuminazione pubblica. Una delle questioni è anche come gli automobilisti reagiscono quando si accorgono in ritardo della loro presenza: frenate improvvise e repentine deviazioni di traiettoria sono all’ordine del giorno. Stando ai dati raccolti dalle municipalità che in Europa li stanno utilizzando da tempo la velocità media di superamento dei cuscini berlinesi di è di poco superiore ai 22 km/h per larghezze di 1,9 metri, mentre sale a 30 km/h per quelli più stretti, che quindi provocano nei conducenti meno apprensione per l’impatto sotto gli pneumatici. E di conseguenza illudono che l’effetto di un attraversamento accelerato sia inferiore. Invece il botto è garantito. Pur sapendo che taluni lettori non saranno d’accordo, chi scrive pensa che la sicurezza (stradale in primis), nasca dalla cultura della consapevolezza e non dalle costrizioni. E che più una strada è sgombra, più ridotto è il rischio di fare incidenti.
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Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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