2019-11-13
Ipotesi prestito ambientale per aggirare il no europeo alla nazionalizzazione di Ilva
L'intervento dello Stato non è più tabù e i giallorossi studiano come evitare bocciature dall'Ue. Ma l'idea di una maggioranza variabile in stile Tav stavolta non è praticabile. Non si capisce quello che sta accadendo nel governo e nella maggioranza sul caso Ilva - in queste ore di tensione - se non si ha il quadro delle diverse anime e delle diverse forze che si confrontano in questa complicatissima partita. Ha destato molto stupore per esempio, ieri, la nettezza con cui un ex ministro molto influente sui parlamentari M5s del Sud, come Barbara Lezzi, ha detto in una intervista a questo giornale: «Non voterò mai nessuno scudo e nessuna immunità per l'Ilva. Non premerò il pulsante e non lo farò né se me lo dovesse chiedere Conte e e nemmeno se me lo chiedesse Di Maio. No, no, e no». Nessuno nel M5s aveva mai preso una posizione così drastica e irrevocabile, nessuno si era mai bruciato i ponti dietro le spalle mettendo in vertici di fronte al fatto compiuto (fra l'altro prima che si sia arrivati al voto), in un movimento che non si è mai diviso - dissidenti a parte -in una maggioranza e in una minoranza. Allo stesso modo, nel Pd, molti sono rimasti stupiti della nettezza e della durezza con cui, pochi giorni prima, un ministro dem come Francesco Boccia ha spiegato sulle pagine de Il Corriere della Sera: «Mittal non era la scelta giusta, noi lo avevamo detto per tempo. Se non si trovano altre soluzioni, per salvare la produzione, servirà un intervento pubblico». E così, nella maggioranza - anche se molti usano cautele, si rompe l'ultimo tabù e serpeggia liberamente l'idea della nazionalizzazione dello stabilimento di Taranto all'insegna del motto: «A mali estremi estremi rimedi». Sottosegretari e ministri parlano liberamente, off the record, della formula che sarebbe necessario adottare per non incorrere nelle sanzioni dell'Europa (che combatte gli aiuti di Stato in nome della libera concorrenza). Ma - spiegano gli uomini della maggioranza - se la formula adottata fosse quella del prestito, corrisposto al nuovo gestore come garanzia delle opere ambientali, questo ostacolo potrebbe essere aggirato. Se però si vuole capire da dove nasca tanta determinazione, occorre spiegare perché è difficile che si ripeta lo schema Tav, ovvero il modulo di geometria variabile per cui (ai tempi del governo gialloblù) la maggioranza di governo si scompose su iniziativa di Giuseppe Conte, e in Parlamento - dopo questo strappo - si trovò una soluzione alternativa in cui le opposizioni votavano insieme a una parte del governo, mentre l'altra anima della maggioranza (il M5s) votava contro l'alta velocità. La prima risposta a questa contraddizione è proprio nella posizione del premier. All'epoca fu proprio Conte l'architetto di quella mossa di «smarcamento» dal movimento che lo aveva indicato a Palazzo Chigi, oggi invece il presidente del Consiglio è in prima linea nel fronte anti Mittal. Non in nome dell'anima movimentista ed ecologista del M5s (a cui dà voce la Lezzi) ma in nome di un ragionamento di tipo legale e di una preoccupazione di tipo produttivistico. Sul piano legale Conte (che di professione fa l'avvocato di affari) si è letto il contratto e si è convinto che la posizione del colosso franco-indiano non sia forte come si vuole far credere. E pensa che i commissari (dietro cui ovviamente c'è il suo governo) potrebbero vincere anche in tribunale. Per questo il premier ha deciso di spendere sé stesso e di impegnare la sua immagine su un terreno così delicato. Per questo nel dialogo con i ministri dice: «Non ci pieghiamo». Poi c'è il Pd, che all'epoca della Tav era all'opposizione, ma pronto a sostenere la mozione, mentre la Lega era al governo, ma pronta a dissociarsi dai suoi alleati. Questa situazione oggi non si può ripetere in modo speculare e opposto. Al contrario: dentro il partito di Nicola Zingaretti ci sono ben due anime che vogliono la linea dura contro Mittal in nome di uno spirito industrialista e meridionalista. Boccia, sostenuto dal governatore Michele Emiliano alle primarie, ha sempre detto, anche pubblicamente, che la cordata Jindal sarebbe stata una scelta più opportuna: in primo luogo perché sosteneva un progetto che implicava la scelta della decarbonizzazione. E in secondo luogo perché -sia Emiliano sia Boccia - avevano riserve sulle possibilità che Mittal attuasse il suo piano. Il ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, invece, viene da Svimez, cresciuto alla scuola di Emanuele Macaluso e de Le ragioni del socialismo, sostiene: «Non è lo scudo, il problema, ma il piano produttivo che Mittal dice di non poter più sostenere». Nulla, più di questo variegato portafoglio di posizioni, assolutamente trasversali ai partiti, spiega dunque perché non si potrebbe verificare anche su Ilva il cambio di maggioranza che si è prodotto in Parlamento ai tempi della mozione sulla Tav. L'incontro dei vertici aziendali con il governo ha cementato anche nel Pd le posizioni di chi riterrebbe una resa inaccettabile l'accoglimento delle clausole occupazionali poste dal colosso indiano. Nella storia politica degli ultimi anni, Taranto era stato il luogo della scissione insanabile - a sinistra - tra ambientalisti e industrialisti. Ma questo dissidio è stato ricomposto proprio dalla doppia posizione che Mittal tiene sulla trattativa, chiedendo contemporaneamente sia lo scudo, sia di mandare a casa un dipendente su due di Ilva. Se si aggiunge che la mozione Lezzi è stata votata anche da Italia viva, cioè dal partito di Matteo Renzi, ci si rende conto di quanto sia compattante questa posizione della multinazionale. Anche perché, l'idea della scudo ad aziendam solo per Mittal, invece di un provvedimento che riguardi tutti gli imprenditori che operano nelle stesse condizioni, aggiunge ulteriori consensi alla posizione del no a un provvedimento mirato che riguardi soltanto il caso di Taranto. Ecco perché il cerchio si chiude con la mossa della Lezzi che -da ex ministro - conosce bene questi meccanismi: gettare il cuore oltre l'ostacolo, rischiare annunciando il no a qualsiasi scudo, per blindare la posizione del M5s e della maggioranza. In altri tempi si sarebbe detto: egemonia culturale.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)