2023-07-21
Intesa Speranza-Facebook sul virus. Il ministero non consegna le carte
Il ministro nel 2020 aveva annunciato un’intesa col social di Zuckerberg e con Twitter per veicolare notizie «ufficiali». Al dicastero ora confermano le trattative però dicono che non se ne fece nulla. Qualcuno mente.Ogni volta che si volge lo sguardo a ritroso e si provano a riesaminare le decisioni prese dai passati governi nel corso dell’emergenza ci si imbatte sempre in un luogo oscuro, in una falla o in una incongruenza. Forniamo un piccolo esempio, riguardante una questione non del tutto marginale, ovvero il controllo delle informazioni sul virus che circolavano online. Come noto, Roberto Speranza - ancora nel 2020 - annunciò di avere stretto accordi con le principali piattaforme digitali per impedire la diffusione di fake news e notizie fuorvianti (o, per essere precisi, quelle che lui reputava tali). l’annuncioIl 29 febbraio del 2020 apparve sul sito del ministero della Salute il seguente comunicato stampa, facilmente rintracciabile ancora oggi. «In queste ore non facili è importante la corretta informazione. Google, con le sue ricerche, e YouTube, con i suoi video, possono far emergere notizie affidabili», dichiarava Speranza. «Per questo è utile l’accordo fatto con il ministero della Salute: ora le due piattaforme indirizzeranno verso il nostro sito tutti gli utenti che cercheranno notizie sul nuovo coronavirus». Il ministero informava anche che «è già disponibile in cima ai risultati di YouTube per ricerche correlate al coronavirus e in corrispondenza di video rilevanti, un pannello informativo in italiano che indirizzerà i visitatori alla pagina dedicata sul sito del ministero della Salute. Il pannello informativo è visibile per gli utenti che hanno impostato l’italiano come lingua sulla piattaforma».I responsabili della Salute fornivano ulteriori dettagli interessanti: «Già nei giorni scorsi il ministero della Salute ha stretto accordi con i rappresentanti di Facebook Italia e di Twitter per suggerire agli utenti che cercano notizie sul nuovo coronavirus il sito del ministero». Speranza, dal canto suo, chiosava soddisfatto: «Continuiamo a lavorare perché anche sui social le informazioni siano corrette e non influenzate dalle troppe fake news». Insomma, il ministro fece sapere agli italiani di aver stretto accordi con Google, Facebook e Twitter al fine di bloccare le (presunte) bugie sul Covid. In effetti, in quei giorni del 2020 le piattaforme erano molto attive nella «lotta alle fake news». disinformazione?Mark Zuckerberg, a maggio del 2020, pronunciò ai microfoni della Bbc parole molto decise: «Anche se qualcosa non porterà a danni fisici imminenti, non vogliamo che la disinformazione diventi virale», disse. L’emittente inglese spiego che Facebook aveva «rimosso l’affermazione del presidente brasiliano Jair Bolsonaro secondo cui gli scienziati avevano “dimostrato” che esisteva una cura per il coronavirus». Zuckerberg disse che quel contenuto era stato rimosso perché «ovviamente non era vero». E aggiunse: «Lavoriamo con verificatori di fatti indipendenti. Dall’epidemia di Covid, hanno emesso 7.500 avvisi di disinformazione che ci hanno portato a emettere 50 milioni di etichette di avvertimento sui post». Visto tanto attivismo, è naturale chiedersi come abbiano effettivamente agito le piattaforme rispetto ai contenuti italiani, e sulla base di quali accordi con il governo. Grazie all’esperto di comunicazione Robert Lingard ora abbiamo una - almeno parziale - risposta. Il 13 giugno scorso è stata presentata alla direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute una richiesta di accesso agli atti con un obiettivo molto preciso. Nel documento, la direzione prevenzione veniva sollecitata a esibire «tutta la documentazione inerente gli accordi tra il ministero della Salute e le piattaforme social, nella fattispecie Facebook, Twitter e Youtube, durante la prima ondata pandemica da Covid 19».La risposta non ha tardato moltissimo ad arrivare. Il 7 luglio la direzione prevenzione ha chiesto a Google l’autorizzazione a esibire i documenti, previa cancellazione degli elementi ritenuti sensibili dalla multinazionale. Il 18 luglio, l’organismo ministeriale ha risposto all’accesso agli atti sbianchettando la parte relativa al valore economico dei servizi resi da Google. carte vagheÈ interessante esaminare la documentazione resa disponibile dal ministero. Si tratta di due documenti firmati dal dirigente dell’Ufficio I della direzione generale comunicazione, dottor Alfredo d’Ari. Il primo risale all’11 marzo 2020 e vi si legge quanto segue: «In questi giorni, la società Google ha rappresentato, per il tramite dell’Ufficio Stampa, l’intenzione di mettere a disposizione dell’Amministrazione, gratuitamente, alcune funzioni che consentirebbero di dare una grande visibilità ai prodotti del ministero finalizzati a promuovere una corretta informazione per la gestione dell’emergenza Coronavirus. In particolare, i servizi offerti riguardano la veicolazione dei contenuti realizzati dal Ministero sul motore di ricerca Google, nonché la creazione e la diffusione di video sulla piattaforma YouTube. In considerazione del fatto che tali strumenti darebbero la possibilità di raggiungere un numero molto elevato di cittadini in un momento in cui promuovere una comunicazione qualificata è una priorità assoluta, si ritiene opportuno accogliere tale proposta. Si evidenzia inoltre che Google, al fine di fornire un supporto concreto per la gestione dell'emergenza in corso, sta proponendo tale opportunità anche ai governi di altri paesi. Ove nulla osti, si procederà alla sottoscrizione del modulo di accettazione richiesto dalla società». Il secondo documento è del 30 marzo 2020. «Nel mio ruolo di Direttore dell’Ufficio I della Direzione della Comunicazione e dei Rapporti Europei e Internazionali del Ministero della Salute, nel rispetto di quanto previsto dal Codice di comportamento del Ministero della Salute e dalle vigenti norme etiche e comportamentali», scrive il dottor d’Ari, «prendo atto che Google si è offerta di fornire crediti di pubblicità a questa Amministrazione per un valore fino a XXXX al mese fino alla fine del 2020 e di consentire anche di utilizzare lo YouTube promotional inventory fino a tre mesi. I crediti di pubblicità e lo YouTube promotional inventory sono forniti al ministero della Salute per comunicazioni relative esclusivamente al COVID-19 e non possono essere considerati come una donazione a favore di singoli funzionari».Insomma, apprendiamo che il ministero ha accettato da Google e YouTube l’offerta di spazi gratuiti per promuovere l’informazione ufficiale sul Covid. Un po’ scarsa come documentazione, ma è già qualcosa. Il problema sorge con Facebook e Twitter. Come abbiamo poco sopra ricordato, l’azione dei controllori di Zuckerberg è stata particolarmente invasiva riguardo al Covid. Ergo sarebbe interessante sapere come abbia agito nei confronti dei contenuti digitali italiani. Purtroppo, però, non possiamo saperlo. A tale proposito, il ministero fornisce una risposta sibillina. Il direttore generale della comunicazione, dottor Sergio Iavicoli, spiega che «per quanto di competenza, si rappresenta che, durante la prima ondata della pandemia da Covid-19, le piattaforme Facebook e Twitter hanno manifestato per le vie brevi all’Amministrazione la volontà di collaborare a titolo gratuito al fine di ottimizzare l’informazione istituzionale sull’emergenza allora in atto, fornita dal Ministero della salute verso gli utenti del web; non risulta agli atti documentazione in merito a eventuali accordi formalizzati in tal senso».mistero Curioso. Speranza sbandierò gli accordi con Facebook e Twitter (annunciati il 7 febbraio del 2020, mentre quelli con Google e YouTube furono pubblicizzati il 28 febbraio) ma di tali accordi al ministero non sanno nulla. Non ci sono, non li hanno mai visti. Sanno solo che le aziende si sono proposte «per le vie brevi» di collaborare al controllo dei contenuti. A questo punto, le possibilità sono due: o non c’è stato alcun accordo, e dunque Speranza ha mentito per l’ennesima volta (e, trattandosi di cancellazione di presunte fake news potrebbe persino essere una buona notizia, per quanto improbabile). Oppure gli accordi sono stati effettivamente stretti, ma all’insaputa della dirigenza ministeriale e, di conseguenza, di tutti gli italiani. Come si sono comportati davvero Facebook e Twitter durante quella prima ondata? Hanno censurato qualcosa oppure no? E secondo quali criteri? Sarebbe opportuno saperlo, ma a quanto pare l’unico a conoscere la verità è Speranza. Ci auguriamo che, quanto prima, si presenti davanti alla commissione d’inchiesta per farla conoscere anche a noi.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson