2025-04-27
«Nel Pci c’era chi sapeva della lotta armata»
Alberto Franceschini (Ansa)
Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate rosse, è scomparso l’11 aprile (ma la notizia è stata resa pubblica ieri): «A sinistra in quegli anni molti parlavano di violenza. Le armi ce le diedero alcuni partigiani. E anche nel partito ci conoscevano, ma all’inizio lasciarono fare».Franceschini, la vogliamo raccontare la nascita delle Br? È vero che prendeste il nome dalle Brigate partigiane Garibaldi di matrice comunista?«Sì, cioè è vero che la prima discussione che avemmo tra di noi era come chiamarci, che sigla darci, perché era chiaro che il nome sarebbe stato decisivo dal punto di vista di che cosa poi eravamo in grado di comunicare. E siccome noi, appunto, volevamo fare la rivoluzione in questo Paese e ci volevamo collegare a chi la rivoluzione, in qualche modo, l’aveva già tentata».Ecco. I partigiani vi fornirono anche le armi. Alcuni vi diedero le loro, i loro mitra. Addirittura, lei racconta nel libro che vi indicarono i posti dove erano sepolti i mitra che avevano scaricato gli americani nelle casse durante la guerra.«Sì, diciamo che c’erano alcuni partigiani, perché i partigiani genericamente è troppo, ed erano anche partigiani che rappresentavano una minoranza all’interno del movimento partigiano. Partigiani che in qualche modo pensavano che la lotta che avevano iniziato non si dovesse concludere nel ’45 con la democrazia, ma dovesse svilupparsi più avanti, verso il socialismo [...]».Un ex segretario di sezione del Pci vi consegnò le sue pistole, se è vero.«Sì».Che forse erano state usate anche in un attentato contro un dirigente di una importante industria reggiana.«Sì, questo che siano state usate, non lo so, non lo posso assolutamente dire. Certamente questa persona, che era dovuta fuggire dall’Italia nei primi anni Cinquanta, poi era stato imputato di questo omicidio, al ritorno dall’esilio (in Cecoslovacchia, a Praga) [...]».Qual era l’estrazione politica dei primi componenti delle Brigate rosse?«Be’, un’estrazione politica abbastanza complessa. C’è certamente una componente che viene dalla militanza nel Partito comunista, nella Fgc poi, perché eravamo molto giovani, più che dal Partito comunista. Poi c’è una componente di matrice diciamo cattolica, cristiano-cattolica, soprattutto che viene da Milano e da Trento».Lei racconta nel libro che gran parte di quei giovani di Reggio Emilia, che poi fondarono le Brigate rosse, venivano tutte da un quartiere, il quartiere tra via Gramsci e il Borgo Emilio. È quella la zona?«Sì, diciamo che era un quartiere storico».Quartiere operaio.«Quartiere operaio. Era un quartiere operaio e, allora si usava questo termine, sottoproletario, perché era a ridosso di questa grande fabbrica che si chiamava Le Reggiane, che era una fabbrica storica a Reggio Emilia, dove c’erano state grandi lotte anche durante la guerra, contro la guerra, per cui era un quartiere estremamente popolare. Molti di noi vengono da questa zona, da questo quartiere che si chiamava Santa Croce».E com’era il vostro rapporto con il Pci, in quegli anni?«Be’, diciamo molto conflittuale, perché in realtà i dirigenti del Partito comunista era assolutamente contrari a fare… cioè, avevano fatto la scelta della democrazia, ovviamente. Quindi erano contrari a qualunque ipotesi di lotta rivoluzionaria e soprattutto, in particolare, di lotta armata. Quindi era un rapporto conflittuale tra generazioni, perché noi che eravamo giovani pensavamo che di fatto questi dirigenti, che erano più anziani di noi, si erano imborghesiti, come si diceva allora».Infatti lei dice nel suo libro che la rottura avvenne quando fu nominato vicesegretario Enrico Berlinguer ma, di fatto, essendo Longo gravemente ammalato, segretario del partito divenne Berlinguer e quindi in quel momento voi capiste che la svolta del Pci era una svolta moderata.«Sì, cioè diciamo che questo Congresso, che è il Congresso mi sembra del ’69 a Bologna, l’ultimo a cui io partecipai, io e altri partecipammo. Fu chiarissimo che se in qualche modo precedentemente c’era ancora aperta la dialettica all’interno del Partito comunista tra una componente che ancora credeva nella possibilità rivoluzionaria e una componente che invece pensava…».Quanto era grande questa componente?«Be’…»Quanto era importante nel partito?«Forse aveva una sua importanza, perché aveva dei riferimenti storici tipo Secchia, che erano stati dei mitici fondatori e dirigenti del Partito comunista. Numericamente era assolutamente minoritaria, assolutamente minoritaria. Diciamo che già dal ’56, già con…».Dopo i fatti in Ungheria.«…dopo i fatti in Ungheria, nel Partito comunista, io mi ricordo (ero ragazzino, ma mi ricordo, già a Reggio questo si vedeva benissimo) ci fu un ricambio anche abbastanza veloce dei quadri dirigenti. Ad esempio, tutti i dirigenti di prima, che erano in genere operai ed erano in genere stalinisti, come si diceva allora, dunque molto legati al mito dell’Unione Sovietica, a Stalin, alla lotta antifascista dell’Armata Rossa, tutti questi vecchi dirigenti furono messi da parte e subentrarono loro dei giovani che erano spesso figli di queste persone, però gente che aveva studiato ad esempio, degli… intellettuali».Ma anche voi eravate giovani eppure la rottura vera, se non sbaglio, avviene quando c’è la visita in Italia di Nixon, guarda caso, con una contestazione da parte di questi gruppi della guerra nel Vietnam. Addirittura ricordo che il vostro gruppo organizzò una marcia contro la sede Nato di Rimini, se non sbaglio.«Sì, la base… Non noi. Noi partecipammo… Quello fu l’elemento di rottura, perché…».Fu elemento di rottura…«Fu elemento di rottura col partito ufficiale. Noi fummo deferiti alla Commissione di controllo, perché fu organizzata da quello che allora si chiamava il Movimento Studentesco, appunto, una marcia contro la base militare di Miramare di Rimini, che era una base Nato, e noi partecipammo, organizzammo dei pullman…».Voi della Fgc.«Noi della Fgc di Reggio, organizzammo dei pullman e partecipammo con le bandiere della Fgc e questo, chiaramente, fu un elemento di rottura anche estremamente palese col partito».Voi, in quel momento, decideste di uscire quindi dal partito, senza stracciare la tessera e di fare una specie di gruppo autonomo che aveva sede in un appartamento nel centro di Reggio Emilia, un grande appartamento.«Sì, un appartamento grande ma molto diroccato, tant’è che ancora ora è abbandonato a se stesso. Era una vecchia casa del centro storico, un vecchio palazzo però molto degradato. Noi affittammo l’ultimo piano, cioè il solaio, sostanzialmente».Chi vi pagò l’affitto?«Noi. Ci pagavamo l’affitto il primo periodo lavorando, facevamo i camerieri i fine settimana. Poi successivamente iniziammo a fare quelli che allora chiamavamo gli espropri, cioè le rapine».In quel momento, però, una città piccola come Reggio Emilia, immagino che non fosse tanto facile nascondere che cosa voi facevate. Eravate un gruppo di alcune centinaia di persone.«Certo. Be’, alcune centinaia… diciamo che eravamo un gruppo di un centinaio di persone. Tant’è che proprio per questo motivo io e altri cominciavamo ad andarcene da Reggio. Io fui il primo ad andarmene all’inizio… alla fine degli anni…».È possibile che il Pci e il Psi non si accorgessero di ciò che stava avvenendo in quel grande appartamento, come voi lo chiamavate?«Sì, però tenga presente che allora non era ancora iniziata la lotta armata vera e propria. Si discuteva, si diceva… erano discussioni…».Però avevate cominciato già a fare degli espropri e delle rapine.«Sì, però non è che lo andavamo a raccontare in giro, ovviamente».Ma lei dice nel libro, il Pci probabilmente aveva anche delle spie all’interno di questo gruppo…«Certo».…e quindi sapeva tutto.«Io credo che il Pci sapesse o, comunque, fosse informato di tutto, tant’è che poi queste informazioni, alcuni anni dopo, il Pci le passò alla polizia e ai carabinieri e fu uno degli elementi chiave per la nostra identificazione».Perché non le passò subito, secondo lei?«Perché, probabilmente, all’inizio c’erano (io nel libro cerco anche spiegarlo questo, almeno rispetto a noi di Reggio) certamente anche dei rapporti amicizia, poi una piccola città, ci si conosceva tutti. Per cui, probabilmente, l’ipotesi, credo, dei dirigenti del Pci era che eravamo dei ragazzotti che, prima o poi, avremmo messo la testa a posto».Ecco, ma voi in quel periodo incontravate Curcio e Mara Gagol, due altri storici fondatori delle Brigate rosse; Adriano Sofri, che pensava a un’organizzazione politica come Lotta continua. Ma anche gli uomini del Manifesto, come Lucio Magri e Luciana Castellina. Nel suo libro lei racconta di questo incontro dove voi spiegate chiaramente che volete fare la lotta armata e la risposta comica di Lucio Magri fu: be’, se è questo che volete, allora io torno a sciare. Quindi si sapeva che voi volevate fare la lotta armata, si sapeva che andavate a sparare in montagna.«Sì… quello che io vorrei far capire è che in quell’epoca i discorsi di lotta armata, nella sinistra estrema, erano molto diffusi».Tanto è vero che voi con Lotta continua faceste anche degli attentati.«Certo, cioè… erano molto diffusi. Tant’è che il punto chiave che ci divideva all’estrema sinistra… adesso, il Manifesto è un’esperienza un po’ a parte, ma con Potere operaio e Lotta continua, ciò che ci divideva non era tanto la necessità di usare la violenza ma di come usarla. Questo era il grande dibattito interno a questa realtà di questa estrema sinistra: in che modo usare la violenza».Ecco. Ma lei scrive: «Tra noi e il Pci esistevano legami interpersonali fortissimi, legami di sangue. In fondo eravamo carne della stessa carne, nervi degli stessi nervi». Quindi, come è possibile che non si accorsero.«No, ma io infatti non sto dicendo… si accorsero, eccome. Tant’è che poi collaborarono in maniera anche… io riporto anche un episodio di quando noi andiamo a recuperare delle armi in montagna, ci fermano i carabinieri, non trovano niente sulla macchina, avevamo due mitra. Chi guidava la macchina poi, spaventato, il giorno dopo va a raccontare questa cosa a uno del partito e, nel giro di una settimana arrivano i carabinieri nel luogo dove noi avevamo preso le armi e portano via tutto. Dunque c’era un rapporto di strettissima collaborazione tra il partito e le istituzioni dello Stato poliziesco. Su questa cosa il Partito comunista era il nostro nemico, non era complice».Ecco. Però è pur vero che quando già voi eravate clandestini, lei, con Curcio e Mara Gagol vi addestravate sulle montagne del Biellese e incontraste un parlamentare del Pci, Moranino, che è uno storico parlamentare del Pci vicino a Pietro Secchia, e sapeva quello che voi stavate facendo, sapeva che vi addestravate in montagna.«Ripeto, c’era una componente minoritaria, estremamente minoritaria, nel Partito comunista, che ha il suo spazio fino al ’72-’73. Poi, con la morte di Secchia e l’affermazione di Berlinguer e quelli che noi allora chiamavamo i berlingueriani, con disprezzo, chiaramente questa componente perde ogni valore e scompare. Però, voglio dire, c’era… il punto di riferimento nostro non era tanto il Partito comunista nel suo complesso. Anzi, il Partito comunista nel suo complesso ci era ostile».Però questa parte invece minoritaria, forse sognava la rivoluzione e pensava che voi un giorno sareste stati utili.«… in qualche modo avremmo sviluppato questo tipo di discorso. Ma anche qui, non per… ma sempre per correttezza. Anche qui, in quegli anni, che ci fosse il bisogno di una lotta molto, diciamo, dura non era una discorso che stava solo nell’ambito comunista, ma anche, ad esempio, nell’ambito socialista. Teniamo presente che c’era il discorso dei pericoli dei colpi di Stato. C’era stato un colpo di Stato in Grecia, vicinissimo…»Ecco, ma quando voi uscite alla scoperto, la sinistra in generale, in particolare il Partito comunista, vi definisce «le sedicenti Brigate rosse».«Addirittura “fascisti rossi” o “fascisti camufatti”». [...]Lei nel suo libro dice: le Br non sono nate dal nulla, non sono un prodotto di laboratorio, magari inventato da qualche servizio segreto, ma il frutto di una cultura politica della sinistra italiana. Con tre righe lei ha spazzato via trent’anni di dietrologia.«Sì, anche se però poi nel libro dico anche, partendo da questa ipotesi, che proprio perché noi eravamo il prodotto di questa cultura, una realtà sociale vera, siamo stati utilizzati e strumentalizzati».