2025-07-27
«Donald vinse senza l’influenza russa». La mano di Putin invenzione di Obama
L’Intelligence aveva smentito condizionamenti: ora sappiamo che l’ex presidente ha pressato Fbi e Cia per dire l’opposto. Una certa vulgata sostiene che i recenti attacchi di Donald Trump a Barack Obama sul Russiagate altro non sarebbero, se non un modo per stornare l’attenzione dal caso Epstein. In realtà, la situazione appare un poco più complessa.Cominciamo con i documenti pubblicati, nelle ultime settimane, dalla direttrice dell’Intelligence nazionale, Tulsi Gabbard, e dal direttore della Cia, John Ratcliffe. Questi incartamenti si concentrano su un’analisi dell’intelligence, diffusa il 6 gennaio 2017, in cui si sosteneva che la Russia fosse intervenuta nelle elezioni del 2016 per aiutare Trump. L’8 dicembre 2016, la comunità d’intelligence discusse la bozza di un briefing presidenziale, in cui si affermava che «gli attori russi e criminali non avevano influenzato i recenti risultati delle elezioni statunitensi conducendo attività informatiche dannose contro le infrastrutture elettorali». Tuttavia, nello stesso giorno, l’Fbi, all’epoca diretto da James Comey, si oppose e quella bozza fu depennata. Si arrivò così al 9 dicembre, quando fu tenuta una riunione alla Casa Bianca, a cui parteciparono anche l’allora direttore dell’Intelligence nazionale, James Clapper, l’allora direttore della Cia, John Brennan, e l’allora vicedirettore dell’Fbi, Andrew McCabe.Dopo il meeting, Clapper ordinò, «su richiesta del presidente», una nuova analisi dell’intelligence sulle interferenze russe. Il 6 gennaio 2017 fu quindi pubblicato un documento che, ha riferito la Gabbard, «contraddiceva direttamente le valutazioni della comunità di intelligence effettuate nei sei mesi precedenti». La stessa Gabbard ha poi aggiunto che, per pervenire a questa svolta, fu utilizzato anche il Dossier dell’ex spia britannica, Christopher Steele: un documento già all’epoca considerato controverso, che si scoprì poi essere stato finanziato in parte dalla campagna di Hillary Clinton. Ratcliffe ha, in particolare, riferito che Brennan spinse per inserire quell’incartamento in allegato dell’analisi d’intelligence del 2017, nonostante un funzionario della sua agenzia lo avesse messo in guardia rispetto alla sua fondatezza. L’attuale direttore della Cia ha anche puntato il dito contro l’insolita fretta con cui quell’analisi fu redatta (appena poche settimane).Ma c’è dell’altro. Nel 2023, fu pubblicato il rapporto investigativo del procuratore speciale John Durham, dedicato, tra le altre cose, a Crossfire Hurricane: l’indagine avviata dall’Fbi nel luglio 2016 sulla presunta collusione tra Trump e Mosca. La conclusione del rapporto fu che, sulla base delle prove che erano disponibili, l’inchiesta non si sarebbe dovuta aprire. Il suo avvio fu dettato, secondo il procuratore, da una «predisposizione a indagare Trump». Venendo al Dossier di Steele, Durham sottolineò che la sua fonte principale era Igor Danchenko: un cittadino russo che, tra il 2009 e il 2011, era stato sotto inchiesta dello stesso Fbi, in quanto sospettato di lavorare per i servizi segreti di Mosca. Tra le fonti del Dossier figurava altresì Charles Dolan: ex consigliere della Clinton che vantava legami con Dmitry Peskov. Ricordiamo che il Dossier di Steele fu usato dai federali anche per ottenere mandati di sorveglianza ai danni di un consigliere di Trump, Carter Page.Ma non è tutto. Dobbiamo infatti tornare anche a vari documenti che furono desegretati nel 2020. Testimoniando davanti al Congresso nel 2017, Clapper rivelò di non aver mai avuto «evidenze empiriche dirette» di una collusione tra Trump e la Russia, ma solo «prove aneddotiche». Emerge poi il caso del generale Mike Flynn che, nominato dallo stesso Trump National security advisor, finì nel mirino del Bureau per alcune conversazioni che, a fine 2016, aveva avuto con l’allora ambasciatore russo negli Usa. Il 4 gennaio 2017, l’Fbi chiuse le indagini sul generale per assenza di «informazioni dispregiative». Tuttavia, l’agente Peter Strzok (lo stesso che nel 2016 aveva scritto alla sua amante che avrebbe «fermato» Trump) le riaprì lo stesso giorno. Il 5 gennaio, si tenne una riunione alla Casa Bianca a cui parteciparono: Obama, Joe Biden, i vertici dell’Fbi e la viceministra della Giustizia Sally Yates. Si discusse dell’eventualità di incriminare Flynn ai sensi del Logan Act per i suoi contatti con l’ambasciatore russo, nonostante Comey avesse considerato «legittime» quelle conversazioni. La Yates rimase inoltre sorpresa perché, quel giorno, fu Obama a riferirle il contenuto delle telefonate di Flynn intercettate dall’Fbi: circostanza curiosa, visto che il Bureau dovrebbe far capo al Dipartimento di Giustizia e non alla Casa Bianca. Stando agli appunti dello stesso Strzok, Obama avrebbe anche ordinato che le «persone giuste» fossero messe a indagare sul generale. Nei giorni successivi, furono inoltre fatte trapelare alla stampa informazioni sui colloqui di Flynn con l’ambasciatore russo.Il 24 gennaio 2017, il generale fu poi interrogato dall’Fbi. «L’Fbi ha avvertito che, sulla base di questo interrogatorio, non credeva che il generale Flynn agisse come un agente della Russia», si legge in un memo dei federali, redatto il 30 gennaio successivo. Eppure Flynn fu messo sotto inchiesta dal procuratore speciale Bob Mueller. È vero che, nel dicembre 2017, il generale si dichiarò colpevole davanti al suo team di aver mentito al Bureau. Ma è anche vero che Mueller era pronto a coinvolgere suo figlio nell’inchiesta e che, nel 2020, lo stesso Flynn ritrattò l’ammissione di colpevolezza. Senza poi trascurare che, l’indagine di Mueller, conclusasi nel 2019, non rinvenne prove di una collusione tra l’entourage di Trump e Mosca. Insomma, gli aspetti controversi fioccano. E il comportamento dell’amministrazione Obama è stato tutto fuorché cristallino: il sospetto che l’allora presidente dem abbia voluto allestire un campo minato ai danni del successore, onestamente viene.