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2025-04-25
India e Pakistan quasi in guerra per l’acqua
Protesta a Karachi contro la sospensione da parte del governo di Delhi del trattato sulla distribuzione dell'acqua (Getty Images)
L’attacco terroristico a Pahalgam, nel Kashmir indiano, questa settimana ha avuto un effetto domino sulle già complicate relazioni tra India e Pakistan. Entrambe potenze nucleari. E dopo un rapido declassamento dei rapporti diplomatici, ora si teme persino un’escalation militare. New Delhi, che ritiene Islamabad responsabile, da mercoledì sera ha sospeso unilateralmente un trattato fondamentale per la condivisione delle acque, ha chiuso il principale valico tra i due Paesi e ha anche annunciato l’espulsione dei cittadini pakistani entro il 29 aprile. Non si è fatta attendere la risposta di Islamabad che, respingendo le accuse, ha annunciato ieri alcune contromisure tra cui la chiusura dello spazio aereo alle compagnie aeree indiane.
Facendo un passo indietro, la miccia, come già accennato, è stato un attentato lo scorso martedì che ha lasciato una scia di 26 morti, tutti uomini, di cui 25 indiani e un cittadino del Nepal. Il teatro dell’attacco, Pahalgam, è una nota meta turistica nel territorio indiano del Kashmir. E quando gli autori dell’attacco hanno aperto il fuoco erano presenti circa 1.000 persone secondo quanto riportato dalle autorità. Il luogo, con la caccia agli attentatori, si è subito svuotato di turisti ed è stato inondato da centinaia di agenti di sicurezza che hanno fermato ben 1.500 persone per interrogarle. Secondo diversi media l’attentato sarebbe stato rivendicato dal Resistance Front (Trf). Si tratta di un’organizzazione nata nel 2019 da una costola del gruppo terroristico islamico Lashkar-e-Taiba e dal 2023 rientra nella lista dei terroristi per il governo indiano. Ma sono stati anche sollevati dubbi sulla paternità dell’attentato. Per esempio, la Bbc spiega che il comunicato attribuito a Trf non ha alcuni elementi caratteristici come il logo e il nome stesso dell’organizzazione. Si tratterebbe quindi di un comportamento abbastanza inusuale per Trf. Ciò nonostante, ieri la polizia indiana ha avvisato di essere a conoscenza dell’identità di tre dei quattro presunti autori dell’attacco. Due di questi sono cittadini pakistani.
Il primo ministro indiano, Narendra Modi, durante un discorso pubblico nello Stato nordorientale del Bihar, ha dichiarato ieri: «L’India identificherà, perseguirà e punirà i terroristi e coloro che li sostengono», promettendo di raggiungerli «fino in capo al mondo». Ritenendo quindi il Pakistan responsabile, l’India a distanza di 24 ore dall’attacco terroristico ha chiuso il valico più importante per il commercio con il vicino, ha deciso di espellere i pakistani ee ha dato una settimana di tempo ai consiglieri della Difesa del Pakistan presenti in India per lasciare il Paese. A ciò si aggiunge anche la decisione di ridurre la presenza diplomatica indiana in Pakistan. Ma ad aver fatto più scalpore è stata la sospensione da parte dell’India del trattato delle acque dell’Indo in vigore da quasi 65 anni. Un accordo che non è mai stato messo in discussione, neanche durante le guerre tra India e Pakistan e che prevede la condivisione tra i due Paesi delle acque del fiume Indo e dei suoi affluenti. In particolare, il trattato del 1960 sorto con la mediazione della Banca mondiale, garantisce a New Delhi l’uso delle acque di tre fiumi orientali: Sutlej, Beas e Ravi; mentre a Islamabad è stato consentito l’uso dell’oro blu di tre corsi d’acqua occidentali quindi Indo, Jhelum e Chenab. La decisione indiana è senza precedenti, visto anche che il ritiro o la sospensione unilaterale non sono nemmeno contemplati nel trattato. E gli effetti maggiori peseranno inevitabilmente sul sistema agricolo pakistano, visto che non arriveranno da New Delhi i dati sul rilascio di acqua o informazioni sulle inondazioni. La replica da parte del ministro dell’Energia del Pakistan, Awais Lekhari, è stata immediata, con la sospensione che è stata vista come «un atto di guerra per l’acqua, una mossa codarda e illegale». E ieri pomeriggio è stato convocato in Pakistan un Comitato per la sicurezza nazionale per discutere su come meglio rispondere alle misure indiane.
Oltre a sostenere l’assenza di prove sulla responsabilità pakistana dell’attacco, il comunicato di Islamabad, definendo le scelte di New Delhi come «unilaterali, ingiuste, motivate politicamente, estremamente irresponsabili e prive di legalità», ha annunciato la chiusura dello spazio aereo per le compagnie aeree indiane. Ma ha anche sospeso gli accordi bilaterali e il commercio con l’India, ha chiuso il valico di frontiera di Wagah e ha annullato i visti ai cittadini indiani. Il personale diplomatico di New Delhi dovrà ridurre la propria presenza in Pakistan entro la fine del mese, mentre a dover abbandonare completamente il territorio pakistano saranno i consiglieri indiani per la difesa, la marina e l’aviazione. Sempre nella nota di Islamabad si legge anche che «ogni minaccia alla sovranità del Pakistan e alla sicurezza del suo popolo sarà affrontata con misure dure in tutti i settori». E nel rifiutare la sospensione del trattato sulle acque, l’ufficio del primo ministro pakistano, Shehbaz Sharif, ha reso noto che ogni tentativo di fermare o deviare l’acqua «verrà considerato come un atto di guerra».
I serbi di Bosnia sulle barricate. Fallisce l’arresto del leader Dodik
La tensione resta altissima a Sarajevo Est dopo il tentativo da parte della polizia di stato della Bosnia ( Sipa) di arrestare Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba autonoma della Bosnia (Republika Srpska). La magistratura bosniaca aveva emesso nelle settimane scorse un mandato di arresto per attentato all’ordine costituzionale, ma al tentativo di cattura le forze di polizia della Repubblica Srpska si sono opposte, circondando l’edificio e mettendo Dodik sotto custodia. Gli agenti bosniaci non hanno tentato di entrare con la forza nell’edificio governativo, rinunciando di fatto a eseguire il mandato di arresto. Nei giorni scorsi Milorad Dodik ha continuato a viaggiare indisturbato nelle regioni a maggioranza serba, incontrando sindaci e amministratori e dichiarando più volte che il mandato nei suoi confronti non era valido e che non avrebbe tollerato intromissioni da parte della polizia bosniaca.
Il leader serbo-bosniaco vanta un rapporto molto forte con Russia e Serbia ed è un fiero sostenitore dell’indipendenza della Republika Srpska.
Nel sobborgo di Sarajevo Est, a pochi chilometri dalla capitale bosniaca, si sono radunate centinaia di persone per sostenere Dodik dicendosi pronte a difenderlo. La televisione serbo-bosniaca ha riferito che gli agenti del Sipa se ne sono andati dopo aver parlato con la polizia di Sarajevo Est, ma non sono state rilasciate dichiarazioni ufficiali sul caso. In un post su X Milorad Dodik ha dichiarato: «Questa è la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e la Sipa ha infranto la legge. Mi sento bene e al sicuro. Non ho intenzione di lasciare questa struttura sotto pressione. La polizia della Republika Sprska non si tirerà indietro di fronte a nessuna sfida quando si tratterà di difendere le istituzioni e la Costituzione. Sarajevo sta cercando di aggravare la crisi con menzogne e di portare a un’ escalation della situazione, ma non ci riuscirà». Il leader della minoranza serba, nonostante la condanna a un anno e l’interdizione dalla politica per sei anni, non si è mai fermato e questo incidente ha rafforzato la sua figura nella popolazione serba di Bosnia. In un’accorata conferenza stampa Dodik ha attaccato nuovamente l’Alto rappresentante internazionale in Bosnia-Erzegovina, Christian Schmidt, ribadendo che non ne riconosce l’autorità e accusandolo di essere il vero responsabile della campagna denigratoria nei suoi confronti. Il tribunale bosniaco ha emesso mandati di arresto anche per il primo ministro della Republika Srpska, Radovan Viskovic, e per il capo del Parlamento, Nenad Stevandic, tutti per attentato all’ordine costituzionale. Dodik ha poi dichiarato che sono oltre 30 anni che i serbi di Bosnia subiscono attacchi politici che mirano a negare la loro identità e che se le cose non cambieranno l’indipendenza sarà l’unica strada percorribile.
Da Belgrado intanto sono arrivate parole di solidarietà per Milorad Dodik, che ha un rapporto molto stretto con il presidente serbo, Aleksandar Vucic, tanto da confermare la propria presenza congiunta il 9 maggio a Mosca per l’anniversario della vittoria della seconda guerra mondiale.
La Republika Srpska occupa il 49% del territorio della Bosnia ed Erzegovina, con il 33% della popolazione, di cui i serbi rappresentano circa il 90%. La sua storia inizia con lo smembramento della Yugoslavia e con una lunga e feroce guerra terminata nel 1995 con gli accordi di Dayton, ma che non hanno mai risolto i problemi di convivenza fra i due principali gruppi etnici.
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Dopo l’attacco a Pahalgam, attribuito a fondamentalisti del Paese confinante, Nuova Delhi ha sospeso l’accordo per la condivisione dei flussi irrigui dall’Indo. Stretta pure sui visti. Islamabad chiude lo spazio aereo: «Qualunque intervento sul fiume è un atto ostile».Il presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, condannato, minaccia Sarajevo di secessione.Lo speciale contiene due articoli.L’attacco terroristico a Pahalgam, nel Kashmir indiano, questa settimana ha avuto un effetto domino sulle già complicate relazioni tra India e Pakistan. Entrambe potenze nucleari. E dopo un rapido declassamento dei rapporti diplomatici, ora si teme persino un’escalation militare. New Delhi, che ritiene Islamabad responsabile, da mercoledì sera ha sospeso unilateralmente un trattato fondamentale per la condivisione delle acque, ha chiuso il principale valico tra i due Paesi e ha anche annunciato l’espulsione dei cittadini pakistani entro il 29 aprile. Non si è fatta attendere la risposta di Islamabad che, respingendo le accuse, ha annunciato ieri alcune contromisure tra cui la chiusura dello spazio aereo alle compagnie aeree indiane.Facendo un passo indietro, la miccia, come già accennato, è stato un attentato lo scorso martedì che ha lasciato una scia di 26 morti, tutti uomini, di cui 25 indiani e un cittadino del Nepal. Il teatro dell’attacco, Pahalgam, è una nota meta turistica nel territorio indiano del Kashmir. E quando gli autori dell’attacco hanno aperto il fuoco erano presenti circa 1.000 persone secondo quanto riportato dalle autorità. Il luogo, con la caccia agli attentatori, si è subito svuotato di turisti ed è stato inondato da centinaia di agenti di sicurezza che hanno fermato ben 1.500 persone per interrogarle. Secondo diversi media l’attentato sarebbe stato rivendicato dal Resistance Front (Trf). Si tratta di un’organizzazione nata nel 2019 da una costola del gruppo terroristico islamico Lashkar-e-Taiba e dal 2023 rientra nella lista dei terroristi per il governo indiano. Ma sono stati anche sollevati dubbi sulla paternità dell’attentato. Per esempio, la Bbc spiega che il comunicato attribuito a Trf non ha alcuni elementi caratteristici come il logo e il nome stesso dell’organizzazione. Si tratterebbe quindi di un comportamento abbastanza inusuale per Trf. Ciò nonostante, ieri la polizia indiana ha avvisato di essere a conoscenza dell’identità di tre dei quattro presunti autori dell’attacco. Due di questi sono cittadini pakistani. Il primo ministro indiano, Narendra Modi, durante un discorso pubblico nello Stato nordorientale del Bihar, ha dichiarato ieri: «L’India identificherà, perseguirà e punirà i terroristi e coloro che li sostengono», promettendo di raggiungerli «fino in capo al mondo». Ritenendo quindi il Pakistan responsabile, l’India a distanza di 24 ore dall’attacco terroristico ha chiuso il valico più importante per il commercio con il vicino, ha deciso di espellere i pakistani ee ha dato una settimana di tempo ai consiglieri della Difesa del Pakistan presenti in India per lasciare il Paese. A ciò si aggiunge anche la decisione di ridurre la presenza diplomatica indiana in Pakistan. Ma ad aver fatto più scalpore è stata la sospensione da parte dell’India del trattato delle acque dell’Indo in vigore da quasi 65 anni. Un accordo che non è mai stato messo in discussione, neanche durante le guerre tra India e Pakistan e che prevede la condivisione tra i due Paesi delle acque del fiume Indo e dei suoi affluenti. In particolare, il trattato del 1960 sorto con la mediazione della Banca mondiale, garantisce a New Delhi l’uso delle acque di tre fiumi orientali: Sutlej, Beas e Ravi; mentre a Islamabad è stato consentito l’uso dell’oro blu di tre corsi d’acqua occidentali quindi Indo, Jhelum e Chenab. La decisione indiana è senza precedenti, visto anche che il ritiro o la sospensione unilaterale non sono nemmeno contemplati nel trattato. E gli effetti maggiori peseranno inevitabilmente sul sistema agricolo pakistano, visto che non arriveranno da New Delhi i dati sul rilascio di acqua o informazioni sulle inondazioni. La replica da parte del ministro dell’Energia del Pakistan, Awais Lekhari, è stata immediata, con la sospensione che è stata vista come «un atto di guerra per l’acqua, una mossa codarda e illegale». E ieri pomeriggio è stato convocato in Pakistan un Comitato per la sicurezza nazionale per discutere su come meglio rispondere alle misure indiane. Oltre a sostenere l’assenza di prove sulla responsabilità pakistana dell’attacco, il comunicato di Islamabad, definendo le scelte di New Delhi come «unilaterali, ingiuste, motivate politicamente, estremamente irresponsabili e prive di legalità», ha annunciato la chiusura dello spazio aereo per le compagnie aeree indiane. Ma ha anche sospeso gli accordi bilaterali e il commercio con l’India, ha chiuso il valico di frontiera di Wagah e ha annullato i visti ai cittadini indiani. Il personale diplomatico di New Delhi dovrà ridurre la propria presenza in Pakistan entro la fine del mese, mentre a dover abbandonare completamente il territorio pakistano saranno i consiglieri indiani per la difesa, la marina e l’aviazione. Sempre nella nota di Islamabad si legge anche che «ogni minaccia alla sovranità del Pakistan e alla sicurezza del suo popolo sarà affrontata con misure dure in tutti i settori». E nel rifiutare la sospensione del trattato sulle acque, l’ufficio del primo ministro pakistano, Shehbaz Sharif, ha reso noto che ogni tentativo di fermare o deviare l’acqua «verrà considerato come un atto di guerra».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/india-pakistan-acqua-2671840733.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-serbi-di-bosnia-sulle-barricate-fallisce-larresto-del-leader-dodik" data-post-id="2671840733" data-published-at="1745526356" data-use-pagination="False"> I serbi di Bosnia sulle barricate. Fallisce l’arresto del leader Dodik La tensione resta altissima a Sarajevo Est dopo il tentativo da parte della polizia di stato della Bosnia ( Sipa) di arrestare Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba autonoma della Bosnia (Republika Srpska). La magistratura bosniaca aveva emesso nelle settimane scorse un mandato di arresto per attentato all’ordine costituzionale, ma al tentativo di cattura le forze di polizia della Repubblica Srpska si sono opposte, circondando l’edificio e mettendo Dodik sotto custodia. Gli agenti bosniaci non hanno tentato di entrare con la forza nell’edificio governativo, rinunciando di fatto a eseguire il mandato di arresto. Nei giorni scorsi Milorad Dodik ha continuato a viaggiare indisturbato nelle regioni a maggioranza serba, incontrando sindaci e amministratori e dichiarando più volte che il mandato nei suoi confronti non era valido e che non avrebbe tollerato intromissioni da parte della polizia bosniaca. Il leader serbo-bosniaco vanta un rapporto molto forte con Russia e Serbia ed è un fiero sostenitore dell’indipendenza della Republika Srpska. Nel sobborgo di Sarajevo Est, a pochi chilometri dalla capitale bosniaca, si sono radunate centinaia di persone per sostenere Dodik dicendosi pronte a difenderlo. La televisione serbo-bosniaca ha riferito che gli agenti del Sipa se ne sono andati dopo aver parlato con la polizia di Sarajevo Est, ma non sono state rilasciate dichiarazioni ufficiali sul caso. In un post su X Milorad Dodik ha dichiarato: «Questa è la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e la Sipa ha infranto la legge. Mi sento bene e al sicuro. Non ho intenzione di lasciare questa struttura sotto pressione. La polizia della Republika Sprska non si tirerà indietro di fronte a nessuna sfida quando si tratterà di difendere le istituzioni e la Costituzione. Sarajevo sta cercando di aggravare la crisi con menzogne e di portare a un’ escalation della situazione, ma non ci riuscirà». Il leader della minoranza serba, nonostante la condanna a un anno e l’interdizione dalla politica per sei anni, non si è mai fermato e questo incidente ha rafforzato la sua figura nella popolazione serba di Bosnia. In un’accorata conferenza stampa Dodik ha attaccato nuovamente l’Alto rappresentante internazionale in Bosnia-Erzegovina, Christian Schmidt, ribadendo che non ne riconosce l’autorità e accusandolo di essere il vero responsabile della campagna denigratoria nei suoi confronti. Il tribunale bosniaco ha emesso mandati di arresto anche per il primo ministro della Republika Srpska, Radovan Viskovic, e per il capo del Parlamento, Nenad Stevandic, tutti per attentato all’ordine costituzionale. Dodik ha poi dichiarato che sono oltre 30 anni che i serbi di Bosnia subiscono attacchi politici che mirano a negare la loro identità e che se le cose non cambieranno l’indipendenza sarà l’unica strada percorribile. Da Belgrado intanto sono arrivate parole di solidarietà per Milorad Dodik, che ha un rapporto molto stretto con il presidente serbo, Aleksandar Vucic, tanto da confermare la propria presenza congiunta il 9 maggio a Mosca per l’anniversario della vittoria della seconda guerra mondiale. La Republika Srpska occupa il 49% del territorio della Bosnia ed Erzegovina, con il 33% della popolazione, di cui i serbi rappresentano circa il 90%. La sua storia inizia con lo smembramento della Yugoslavia e con una lunga e feroce guerra terminata nel 1995 con gli accordi di Dayton, ma che non hanno mai risolto i problemi di convivenza fra i due principali gruppi etnici.
iStock
La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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Francesco Borgonovo, Gianluca Zanella e Luigi Grimaldi fanno il punto sul caso Garlasco: tra nuove indagini, DNA, impronte e filoni paralleli, l’inchiesta si muove ormai su più livelli. Un’analisi rigorosa per capire a che punto siamo, cosa è cambiato davvero e quali nodi restano ancora da sciogliere.
Ansa
Ieri abbiamo raccontato che ha intestati circa 90 immobili acquistati alle aste giudiziarie senza dover accendere mutui. Ora La Verità è in grado di svelare che Abu Rawwa per operare ha aperto un’agenzia immobiliare e investe insieme a un giovane palestinese che appartiene a una famiglia molto religiosa e molto attiva nella difesa della causa palestinese. Ben 12 dei 90 immobili di cui è diventato proprietario per via giudiziaria Abu Rawwa, infatti, sono cointestati (al 50%) con Osama Qasim. Otto sono appartamenti. Alloggi residenziali inseriti nello stesso stabile, con metrature diverse e distribuiti su più piani. Blocchi compatti di unità abitative spalmati su tre strade dello stesso comune della provincia di Reggio Emilia: Castellarano.
Il resto delle proprietà non è abitativo. Ci sono due locali di servizio: accessori funzionali alle case. Gli ultimi due immobili sono strutture non ancora definite, volumi ampi, uno dei quali particolarmente esteso: 603 metri quadri. Entrambi i locali non sono pronti per essere abitati, né sono destinati a un uso immediato. Sono spazi da completare o da trasformare. Un’operazione da immobiliaristi.
Abu Rawwa e Qasim compaiono in visure camerali diverse. Il primo è amministratore unico e socio al 100% dell’Immobiliare My home srls, impresa costituita il 6 dicembre 2023 e iscritta al Registro imprese di Modena il 13 dicembre di quello stesso anno. Capitale sociale da 2.000 euro. Attività dichiarata: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri», con una specificazione ampia che comprende edifici residenziali, non residenziali, strutture commerciali e terreni. La sede legale è a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est. Un solo addetto risultante dai dati Inps.
Osama Qasim, nato a Sassuolo il 3 febbraio 1993, è invece amministratore unico della Qasim srls, società costituita il 24 maggio 2022 con capitale sociale da 3.000 euro. Anche qui l’attività prevalente è immobiliare: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri». La sede è sempre a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est, ma il civico è differente. I soci sono tre: Osama (che è il legale rappresentante e nel frattempo gestisce anche una società di ristorazione a Modena) detiene il 20%, Khawla Ghannam (60 anni), la mamma, il 60%, e Zahi Qasim (62 anni), il papà, il 20%. Un nucleo familiare di cui si sono interessati, negli anni, numerosi giornalisti ma anche la polizia. Su Internet si trova ancora un articolo dell’Herald tribune sulla famiglia Qasim, ripreso in Italia dal Secolo XIX, proprio il giornale di Genova. Risale a 20 anni fa, ma è molto interessante. Anche perché ci racconta che la famiglia di Osama è molto religiosa e ha ricevuto nel tempo anche la visita della polizia italiana dopo alcuni attentati dei tagliagole islamici.
Il padre, Zahi, classe 1963, all’epoca era caposquadra in fabbrica a Sassuolo ed era già «uno degli esponenti più impegnati della comunità». Sua moglie, Khawla, era un’insegnante che «parla fluentemente tre lingue». Osama, all’epoca era un bambino di 12 anni. Il cronista scriveva che il fratello, «l’esuberante Ali, un anno, adora gattonare sulle piastrelle della sala, decorata con illustrazioni di proverbi tratti dal Corano». I Qasim non offrirono né cibo, né bevande al giornalista «perché per loro era in corso il Ramadan». «Ci piacerebbe molto essere italiani», aveva dichiarato Ghannam, con indosso «un hijab color porpora». Ed ecco il passaggio più interessante dell’articolo: «La loro vita, sebbene economicamente agiata, è costellata da continui episodi che ricordano loro che non sono pienamente integrati in un Paese che definiscono casa da 20 anni. A seguito degli attentati a Londra di questa estate (del 2005, ndr), Qasim è stato più volte interrogato dalla polizia che gli ha anche perquisito la casa. L’uomo afferma anche che il suo cellulare è sotto controllo. Quando ha invitato a cena alcuni amici di Torino in occasione del Ramadan, la polizia lo ha chiamato per chiedergli chi fossero quelle persone e l’hanno rimproverato di non aver comunicato che avrebbe avuto ospiti. I tentativi di Qasim di comprare un edificio per aprirvi una scuola islamica domenicale sono stati ostacolati per quattro anni dalle istituzioni locali che ritenevano che il luogo non fosse idoneo per via della mancanza di spazi da adibire al parcheggio». Zahi disse: «È chiaro che tutto questo mi dà fastidio: succede perché sono musulmano e non accadrebbe lo stesso se fossi europeo».
Ricordiamo che all’epoca un islamico sospettato di aver preso parte agli attentati di Londra è stato catturato in Italia, dove si era rifugiato. Ghannam ha spiegato che l’inserimento non è stato sempre facile e che «suo figlio è stato spesso preso in giro per il suo nome, Osama, soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre». Quando i Qasim si trasferirono nel loro attuale appartamento, «i vicini italiani si mostrarono freddi e ostili. Tuttavia, il loro atteggiamento è migliorato nel tempo». Zahi ha anche dichiarato di «esser sempre stato trattato con rispetto a lavoro, e gli è stato persino consentito di pregare cinque volte al giorno».
L’articolo contiene anche un’altra notizia interessante: «La famiglia ha una casa a Ramallah e torna laggiù durante le vacanze estive». Anche se la famiglia non si sentiva sicura in Israele: «Ci sono aspetti dell’Islam che vanno bene in Palestina, ma non qui», ha concesso l’uomo con il cronista. Ha anche detto di credere che «gli arresti e il coprifuoco siano soltanto serviti ad aggravare la situazione in Francia». E ha spiegato che «è sbagliato ricorrere alla polizia». Il motivo? «Quando parli con gli altri li fai sentire parte della società. Se li fai sentire emarginati, prima o poi si ribelleranno». Alla fine l’intervistato aveva consegnato al cronista il motto che ripeteva al figlio Osama: «Ignora le offese, lavora più sodo dei tuoi compagni. In fondo i palestinesi sono abituati a essere controllati: pensa solo di essere a Ramallah». Papà Qasim è stato un grande animatore del centro «al Medina» (dell’Associazione della comunità islamica di Sassuolo), fondato nel 1993 da un gruppo di migranti nordafricani, chiuso e poi riaperto varie volte. Qui si riunivano per pregare a turni sino a 600 fedeli per volta. Nel 2018 Zahi, a Casalgrande, è stato tra i promotori del Villaggio islamico, che l’associazione islamica di Sassuolo voleva tirare su nell’area di un ex salumificio. E fu proprio Zahi, col piglio dell’immobiliarista, a spiegare: «Abbiamo comprato l’area per un guadagno, come qualsiasi altro cittadino. A Casalgrande, Veggia e Villalunga abbiamo comprato all’asta circa 6-7 appartamenti».
L’idea di acquistare dai tribunali qualche anno dopo è stata fatta propria dal figlio Osama e da Abu Rawwa. Le indagini della Procura di Genova dovranno stabilire se in questo shopping compulsivo c’entri Hamas.
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Ansa
Tema che dovrebbe stare a cuore di chi si batte per la Palestina, e quindi di tanti ProPal. E invece a quanto pare no. Poco importa se il flusso di denaro che dall’Italia è volato a Gaza avrebbe permesso di acquistare armi e immobili anziché portare cibo e servizi ai civili. La propria solidarietà, più che a quanti avrebbero avuto diritto agli aiuti e a quanto pare non li hanno mai ricevuti, meglio portarla al presidente dei palestinesi in Italia. Colui che nell’ipotesi della procura è l’ideatore di una grande operazione di triangolazione di fondi. E così ieri è scattato il tam tam via social e in 200 si sono radunati davanti al carcere Marassi di Genova per gridare contro quella che viene considerata una vera e propria «offensiva contro tutte le realtà e tutti gli attivisti cosiddetti “ProPal” scatenata dalla propaganda di regime». Tra gli organizzatori del meeting solidale, l’Unione democratica arabo palestinese e Si Cobas Genova che in un post spiega l’architettura che muoverebbe l’indagine della procura.
«Già con la repressione degli ultimi mesi […] è emersa chiaramente la volontà di individuare un nuovo nemico pubblico numero uno nella cosiddetta saldatura tra sinistra radicale e islam. Associare tutta la popolazione che ha manifestato e scioperato contro il genocidio palestinese, e in particolare gli organizzatori di queste mobilitazioni, al terrorismo islamico». Il riferimento è alla revoca del permesso di soggiorno ad Abbas, coordinatore sindacale e destinatario di un foglio di via per due anni da Brescia. Già il 12 dicembre, in occasione del provvedimento, Si Cobas aveva lanciato il medesimo slogan. «La vostra repressione non fermerà le nostre lotte». Ben prima della notizia dell’operazione Domino ma tant’è. L’accusa è buona per tutte le stagioni. E tutte le mobilitazioni. Anche a Piacenza, dove una serie di sigle e associazioni puntano il dito contro la regia di Israele. Tra gli altri Usb, Sgb, Laboratorio popolare della cultura e dell’arte, Collettivo Schiaffo, Resisto, Collettivo 26x1, ControTendenza e Una voce per Gaza. «L’impianto accusatorio - commentano - si basa essenzialmente, come scritto dagli stessi inquirenti, su documenti forniti da Israele», posizione ribadita anche dalle sedi locali di Potere al popolo e Rifondazione comunista in linea con quelle nazionali. «Un’indagine basata su documenti forniti da uno Stato accusato di genocidio dagli organismi internazionali e guidato da un premier condannato e ricercato come criminale di guerra, è in partenza completamente squalificata». Iniziata sabato a Milano poche ore dopo la notizia degli arresti al grido di «Liberi subito» e «La solidarietà non è terrorismo», l’onda delle mobilitazioni in soccorso di Hannoun viaggia in parallelo alle adesioni social, come quella di Alaeddine Kaabouri, consigliere comunale di Thiene, Vicenza, sul suo profilo Instagram. «Criminalizzare tutto questo significa colpire l’idea stessa di solidarietà internazionale e trasformare l’aiuto umanitario in un reato. Sostenere il popolo palestinese non è terrorismo: è un dovere umano e politico».
Intanto, oggi Hannoun incontra il Gip per delle dichiarazioni spontanee. Non si sottoporrà a interrogatorio perché non sono ancora stati recapitati tutti gli atti depositati, spiegano gli avvocati Emanuele Tambuscio e Fabio Sommovigo che tengono a precisare che l’attivista ha sempre operato in maniera tracciabile e con associazioni registrate, molte delle quali anche in Israele. Spiegano inoltre che non sarebbe stato in procinto di fuggire per la Turchia, come sostenuto dalla procura, perché il viaggio sarebbe stato parte di regolari attività di beneficenza. Dal 7 ottobre 2023 non aveva più possibilità di operare dall’Italia e, a causa del blocco dei conti, doveva portare i contanti in Turchia o in Egitto. In difesa del leader dei palestinesi in Italia, ieri è sceso anche il figlio e alcuni suoi familiari, che hanno preso parte ad un corteo sempre attorno al carcere di Genova dove non sono mancati cori anche contro la premier Giorgia Meloni: «Meloni fascista, sei tu la terrorista».
Se i «fondi per Gaza» finiti ad Hamas abbiano aiutato i palestinesi, lo chiarirà la procura ma certo è che nelle piazze a oggi non si scorge cenno alcuno che entri nel merito delle iniziative «finto benefiche» di Hannoun. Che pur essendo attualmente solo «presunte», con tutti i condizionali del caso, qualora dovessero essere confermate, costituirebbero un vero e proprio tradimento del popolo palestinese in nome del quale si continua a scendere in piazza.
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