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2025-04-25
India e Pakistan quasi in guerra per l’acqua
Protesta a Karachi contro la sospensione da parte del governo di Delhi del trattato sulla distribuzione dell'acqua (Getty Images)
L’attacco terroristico a Pahalgam, nel Kashmir indiano, questa settimana ha avuto un effetto domino sulle già complicate relazioni tra India e Pakistan. Entrambe potenze nucleari. E dopo un rapido declassamento dei rapporti diplomatici, ora si teme persino un’escalation militare. New Delhi, che ritiene Islamabad responsabile, da mercoledì sera ha sospeso unilateralmente un trattato fondamentale per la condivisione delle acque, ha chiuso il principale valico tra i due Paesi e ha anche annunciato l’espulsione dei cittadini pakistani entro il 29 aprile. Non si è fatta attendere la risposta di Islamabad che, respingendo le accuse, ha annunciato ieri alcune contromisure tra cui la chiusura dello spazio aereo alle compagnie aeree indiane.
Facendo un passo indietro, la miccia, come già accennato, è stato un attentato lo scorso martedì che ha lasciato una scia di 26 morti, tutti uomini, di cui 25 indiani e un cittadino del Nepal. Il teatro dell’attacco, Pahalgam, è una nota meta turistica nel territorio indiano del Kashmir. E quando gli autori dell’attacco hanno aperto il fuoco erano presenti circa 1.000 persone secondo quanto riportato dalle autorità. Il luogo, con la caccia agli attentatori, si è subito svuotato di turisti ed è stato inondato da centinaia di agenti di sicurezza che hanno fermato ben 1.500 persone per interrogarle. Secondo diversi media l’attentato sarebbe stato rivendicato dal Resistance Front (Trf). Si tratta di un’organizzazione nata nel 2019 da una costola del gruppo terroristico islamico Lashkar-e-Taiba e dal 2023 rientra nella lista dei terroristi per il governo indiano. Ma sono stati anche sollevati dubbi sulla paternità dell’attentato. Per esempio, la Bbc spiega che il comunicato attribuito a Trf non ha alcuni elementi caratteristici come il logo e il nome stesso dell’organizzazione. Si tratterebbe quindi di un comportamento abbastanza inusuale per Trf. Ciò nonostante, ieri la polizia indiana ha avvisato di essere a conoscenza dell’identità di tre dei quattro presunti autori dell’attacco. Due di questi sono cittadini pakistani.
Il primo ministro indiano, Narendra Modi, durante un discorso pubblico nello Stato nordorientale del Bihar, ha dichiarato ieri: «L’India identificherà, perseguirà e punirà i terroristi e coloro che li sostengono», promettendo di raggiungerli «fino in capo al mondo». Ritenendo quindi il Pakistan responsabile, l’India a distanza di 24 ore dall’attacco terroristico ha chiuso il valico più importante per il commercio con il vicino, ha deciso di espellere i pakistani ee ha dato una settimana di tempo ai consiglieri della Difesa del Pakistan presenti in India per lasciare il Paese. A ciò si aggiunge anche la decisione di ridurre la presenza diplomatica indiana in Pakistan. Ma ad aver fatto più scalpore è stata la sospensione da parte dell’India del trattato delle acque dell’Indo in vigore da quasi 65 anni. Un accordo che non è mai stato messo in discussione, neanche durante le guerre tra India e Pakistan e che prevede la condivisione tra i due Paesi delle acque del fiume Indo e dei suoi affluenti. In particolare, il trattato del 1960 sorto con la mediazione della Banca mondiale, garantisce a New Delhi l’uso delle acque di tre fiumi orientali: Sutlej, Beas e Ravi; mentre a Islamabad è stato consentito l’uso dell’oro blu di tre corsi d’acqua occidentali quindi Indo, Jhelum e Chenab. La decisione indiana è senza precedenti, visto anche che il ritiro o la sospensione unilaterale non sono nemmeno contemplati nel trattato. E gli effetti maggiori peseranno inevitabilmente sul sistema agricolo pakistano, visto che non arriveranno da New Delhi i dati sul rilascio di acqua o informazioni sulle inondazioni. La replica da parte del ministro dell’Energia del Pakistan, Awais Lekhari, è stata immediata, con la sospensione che è stata vista come «un atto di guerra per l’acqua, una mossa codarda e illegale». E ieri pomeriggio è stato convocato in Pakistan un Comitato per la sicurezza nazionale per discutere su come meglio rispondere alle misure indiane.
Oltre a sostenere l’assenza di prove sulla responsabilità pakistana dell’attacco, il comunicato di Islamabad, definendo le scelte di New Delhi come «unilaterali, ingiuste, motivate politicamente, estremamente irresponsabili e prive di legalità», ha annunciato la chiusura dello spazio aereo per le compagnie aeree indiane. Ma ha anche sospeso gli accordi bilaterali e il commercio con l’India, ha chiuso il valico di frontiera di Wagah e ha annullato i visti ai cittadini indiani. Il personale diplomatico di New Delhi dovrà ridurre la propria presenza in Pakistan entro la fine del mese, mentre a dover abbandonare completamente il territorio pakistano saranno i consiglieri indiani per la difesa, la marina e l’aviazione. Sempre nella nota di Islamabad si legge anche che «ogni minaccia alla sovranità del Pakistan e alla sicurezza del suo popolo sarà affrontata con misure dure in tutti i settori». E nel rifiutare la sospensione del trattato sulle acque, l’ufficio del primo ministro pakistano, Shehbaz Sharif, ha reso noto che ogni tentativo di fermare o deviare l’acqua «verrà considerato come un atto di guerra».
I serbi di Bosnia sulle barricate. Fallisce l’arresto del leader Dodik
La tensione resta altissima a Sarajevo Est dopo il tentativo da parte della polizia di stato della Bosnia ( Sipa) di arrestare Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba autonoma della Bosnia (Republika Srpska). La magistratura bosniaca aveva emesso nelle settimane scorse un mandato di arresto per attentato all’ordine costituzionale, ma al tentativo di cattura le forze di polizia della Repubblica Srpska si sono opposte, circondando l’edificio e mettendo Dodik sotto custodia. Gli agenti bosniaci non hanno tentato di entrare con la forza nell’edificio governativo, rinunciando di fatto a eseguire il mandato di arresto. Nei giorni scorsi Milorad Dodik ha continuato a viaggiare indisturbato nelle regioni a maggioranza serba, incontrando sindaci e amministratori e dichiarando più volte che il mandato nei suoi confronti non era valido e che non avrebbe tollerato intromissioni da parte della polizia bosniaca.
Il leader serbo-bosniaco vanta un rapporto molto forte con Russia e Serbia ed è un fiero sostenitore dell’indipendenza della Republika Srpska.
Nel sobborgo di Sarajevo Est, a pochi chilometri dalla capitale bosniaca, si sono radunate centinaia di persone per sostenere Dodik dicendosi pronte a difenderlo. La televisione serbo-bosniaca ha riferito che gli agenti del Sipa se ne sono andati dopo aver parlato con la polizia di Sarajevo Est, ma non sono state rilasciate dichiarazioni ufficiali sul caso. In un post su X Milorad Dodik ha dichiarato: «Questa è la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e la Sipa ha infranto la legge. Mi sento bene e al sicuro. Non ho intenzione di lasciare questa struttura sotto pressione. La polizia della Republika Sprska non si tirerà indietro di fronte a nessuna sfida quando si tratterà di difendere le istituzioni e la Costituzione. Sarajevo sta cercando di aggravare la crisi con menzogne e di portare a un’ escalation della situazione, ma non ci riuscirà». Il leader della minoranza serba, nonostante la condanna a un anno e l’interdizione dalla politica per sei anni, non si è mai fermato e questo incidente ha rafforzato la sua figura nella popolazione serba di Bosnia. In un’accorata conferenza stampa Dodik ha attaccato nuovamente l’Alto rappresentante internazionale in Bosnia-Erzegovina, Christian Schmidt, ribadendo che non ne riconosce l’autorità e accusandolo di essere il vero responsabile della campagna denigratoria nei suoi confronti. Il tribunale bosniaco ha emesso mandati di arresto anche per il primo ministro della Republika Srpska, Radovan Viskovic, e per il capo del Parlamento, Nenad Stevandic, tutti per attentato all’ordine costituzionale. Dodik ha poi dichiarato che sono oltre 30 anni che i serbi di Bosnia subiscono attacchi politici che mirano a negare la loro identità e che se le cose non cambieranno l’indipendenza sarà l’unica strada percorribile.
Da Belgrado intanto sono arrivate parole di solidarietà per Milorad Dodik, che ha un rapporto molto stretto con il presidente serbo, Aleksandar Vucic, tanto da confermare la propria presenza congiunta il 9 maggio a Mosca per l’anniversario della vittoria della seconda guerra mondiale.
La Republika Srpska occupa il 49% del territorio della Bosnia ed Erzegovina, con il 33% della popolazione, di cui i serbi rappresentano circa il 90%. La sua storia inizia con lo smembramento della Yugoslavia e con una lunga e feroce guerra terminata nel 1995 con gli accordi di Dayton, ma che non hanno mai risolto i problemi di convivenza fra i due principali gruppi etnici.
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Dopo l’attacco a Pahalgam, attribuito a fondamentalisti del Paese confinante, Nuova Delhi ha sospeso l’accordo per la condivisione dei flussi irrigui dall’Indo. Stretta pure sui visti. Islamabad chiude lo spazio aereo: «Qualunque intervento sul fiume è un atto ostile».Il presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, condannato, minaccia Sarajevo di secessione.Lo speciale contiene due articoli.L’attacco terroristico a Pahalgam, nel Kashmir indiano, questa settimana ha avuto un effetto domino sulle già complicate relazioni tra India e Pakistan. Entrambe potenze nucleari. E dopo un rapido declassamento dei rapporti diplomatici, ora si teme persino un’escalation militare. New Delhi, che ritiene Islamabad responsabile, da mercoledì sera ha sospeso unilateralmente un trattato fondamentale per la condivisione delle acque, ha chiuso il principale valico tra i due Paesi e ha anche annunciato l’espulsione dei cittadini pakistani entro il 29 aprile. Non si è fatta attendere la risposta di Islamabad che, respingendo le accuse, ha annunciato ieri alcune contromisure tra cui la chiusura dello spazio aereo alle compagnie aeree indiane.Facendo un passo indietro, la miccia, come già accennato, è stato un attentato lo scorso martedì che ha lasciato una scia di 26 morti, tutti uomini, di cui 25 indiani e un cittadino del Nepal. Il teatro dell’attacco, Pahalgam, è una nota meta turistica nel territorio indiano del Kashmir. E quando gli autori dell’attacco hanno aperto il fuoco erano presenti circa 1.000 persone secondo quanto riportato dalle autorità. Il luogo, con la caccia agli attentatori, si è subito svuotato di turisti ed è stato inondato da centinaia di agenti di sicurezza che hanno fermato ben 1.500 persone per interrogarle. Secondo diversi media l’attentato sarebbe stato rivendicato dal Resistance Front (Trf). Si tratta di un’organizzazione nata nel 2019 da una costola del gruppo terroristico islamico Lashkar-e-Taiba e dal 2023 rientra nella lista dei terroristi per il governo indiano. Ma sono stati anche sollevati dubbi sulla paternità dell’attentato. Per esempio, la Bbc spiega che il comunicato attribuito a Trf non ha alcuni elementi caratteristici come il logo e il nome stesso dell’organizzazione. Si tratterebbe quindi di un comportamento abbastanza inusuale per Trf. Ciò nonostante, ieri la polizia indiana ha avvisato di essere a conoscenza dell’identità di tre dei quattro presunti autori dell’attacco. Due di questi sono cittadini pakistani. Il primo ministro indiano, Narendra Modi, durante un discorso pubblico nello Stato nordorientale del Bihar, ha dichiarato ieri: «L’India identificherà, perseguirà e punirà i terroristi e coloro che li sostengono», promettendo di raggiungerli «fino in capo al mondo». Ritenendo quindi il Pakistan responsabile, l’India a distanza di 24 ore dall’attacco terroristico ha chiuso il valico più importante per il commercio con il vicino, ha deciso di espellere i pakistani ee ha dato una settimana di tempo ai consiglieri della Difesa del Pakistan presenti in India per lasciare il Paese. A ciò si aggiunge anche la decisione di ridurre la presenza diplomatica indiana in Pakistan. Ma ad aver fatto più scalpore è stata la sospensione da parte dell’India del trattato delle acque dell’Indo in vigore da quasi 65 anni. Un accordo che non è mai stato messo in discussione, neanche durante le guerre tra India e Pakistan e che prevede la condivisione tra i due Paesi delle acque del fiume Indo e dei suoi affluenti. In particolare, il trattato del 1960 sorto con la mediazione della Banca mondiale, garantisce a New Delhi l’uso delle acque di tre fiumi orientali: Sutlej, Beas e Ravi; mentre a Islamabad è stato consentito l’uso dell’oro blu di tre corsi d’acqua occidentali quindi Indo, Jhelum e Chenab. La decisione indiana è senza precedenti, visto anche che il ritiro o la sospensione unilaterale non sono nemmeno contemplati nel trattato. E gli effetti maggiori peseranno inevitabilmente sul sistema agricolo pakistano, visto che non arriveranno da New Delhi i dati sul rilascio di acqua o informazioni sulle inondazioni. La replica da parte del ministro dell’Energia del Pakistan, Awais Lekhari, è stata immediata, con la sospensione che è stata vista come «un atto di guerra per l’acqua, una mossa codarda e illegale». E ieri pomeriggio è stato convocato in Pakistan un Comitato per la sicurezza nazionale per discutere su come meglio rispondere alle misure indiane. Oltre a sostenere l’assenza di prove sulla responsabilità pakistana dell’attacco, il comunicato di Islamabad, definendo le scelte di New Delhi come «unilaterali, ingiuste, motivate politicamente, estremamente irresponsabili e prive di legalità», ha annunciato la chiusura dello spazio aereo per le compagnie aeree indiane. Ma ha anche sospeso gli accordi bilaterali e il commercio con l’India, ha chiuso il valico di frontiera di Wagah e ha annullato i visti ai cittadini indiani. Il personale diplomatico di New Delhi dovrà ridurre la propria presenza in Pakistan entro la fine del mese, mentre a dover abbandonare completamente il territorio pakistano saranno i consiglieri indiani per la difesa, la marina e l’aviazione. Sempre nella nota di Islamabad si legge anche che «ogni minaccia alla sovranità del Pakistan e alla sicurezza del suo popolo sarà affrontata con misure dure in tutti i settori». E nel rifiutare la sospensione del trattato sulle acque, l’ufficio del primo ministro pakistano, Shehbaz Sharif, ha reso noto che ogni tentativo di fermare o deviare l’acqua «verrà considerato come un atto di guerra».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/india-pakistan-acqua-2671840733.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-serbi-di-bosnia-sulle-barricate-fallisce-larresto-del-leader-dodik" data-post-id="2671840733" data-published-at="1745526356" data-use-pagination="False"> I serbi di Bosnia sulle barricate. Fallisce l’arresto del leader Dodik La tensione resta altissima a Sarajevo Est dopo il tentativo da parte della polizia di stato della Bosnia ( Sipa) di arrestare Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba autonoma della Bosnia (Republika Srpska). La magistratura bosniaca aveva emesso nelle settimane scorse un mandato di arresto per attentato all’ordine costituzionale, ma al tentativo di cattura le forze di polizia della Repubblica Srpska si sono opposte, circondando l’edificio e mettendo Dodik sotto custodia. Gli agenti bosniaci non hanno tentato di entrare con la forza nell’edificio governativo, rinunciando di fatto a eseguire il mandato di arresto. Nei giorni scorsi Milorad Dodik ha continuato a viaggiare indisturbato nelle regioni a maggioranza serba, incontrando sindaci e amministratori e dichiarando più volte che il mandato nei suoi confronti non era valido e che non avrebbe tollerato intromissioni da parte della polizia bosniaca. Il leader serbo-bosniaco vanta un rapporto molto forte con Russia e Serbia ed è un fiero sostenitore dell’indipendenza della Republika Srpska. Nel sobborgo di Sarajevo Est, a pochi chilometri dalla capitale bosniaca, si sono radunate centinaia di persone per sostenere Dodik dicendosi pronte a difenderlo. La televisione serbo-bosniaca ha riferito che gli agenti del Sipa se ne sono andati dopo aver parlato con la polizia di Sarajevo Est, ma non sono state rilasciate dichiarazioni ufficiali sul caso. In un post su X Milorad Dodik ha dichiarato: «Questa è la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e la Sipa ha infranto la legge. Mi sento bene e al sicuro. Non ho intenzione di lasciare questa struttura sotto pressione. La polizia della Republika Sprska non si tirerà indietro di fronte a nessuna sfida quando si tratterà di difendere le istituzioni e la Costituzione. Sarajevo sta cercando di aggravare la crisi con menzogne e di portare a un’ escalation della situazione, ma non ci riuscirà». Il leader della minoranza serba, nonostante la condanna a un anno e l’interdizione dalla politica per sei anni, non si è mai fermato e questo incidente ha rafforzato la sua figura nella popolazione serba di Bosnia. In un’accorata conferenza stampa Dodik ha attaccato nuovamente l’Alto rappresentante internazionale in Bosnia-Erzegovina, Christian Schmidt, ribadendo che non ne riconosce l’autorità e accusandolo di essere il vero responsabile della campagna denigratoria nei suoi confronti. Il tribunale bosniaco ha emesso mandati di arresto anche per il primo ministro della Republika Srpska, Radovan Viskovic, e per il capo del Parlamento, Nenad Stevandic, tutti per attentato all’ordine costituzionale. Dodik ha poi dichiarato che sono oltre 30 anni che i serbi di Bosnia subiscono attacchi politici che mirano a negare la loro identità e che se le cose non cambieranno l’indipendenza sarà l’unica strada percorribile. Da Belgrado intanto sono arrivate parole di solidarietà per Milorad Dodik, che ha un rapporto molto stretto con il presidente serbo, Aleksandar Vucic, tanto da confermare la propria presenza congiunta il 9 maggio a Mosca per l’anniversario della vittoria della seconda guerra mondiale. La Republika Srpska occupa il 49% del territorio della Bosnia ed Erzegovina, con il 33% della popolazione, di cui i serbi rappresentano circa il 90%. La sua storia inizia con lo smembramento della Yugoslavia e con una lunga e feroce guerra terminata nel 1995 con gli accordi di Dayton, ma che non hanno mai risolto i problemi di convivenza fra i due principali gruppi etnici.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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