2022-08-12
Le indagini su Trump e il doppiopesismo di un Fbi politicizzato per colpa di Obama
Il Bureau sta attraversando una crisi di identità: l’ex presidente democratico protagonista di troppe invadenze nella Giustizia.«No comment». È questo il succo delle dichiarazioni rilasciate dal direttore dell’Fbi, Chris Wray, in riferimento alla recente perquisizione, condotta dai federali nella villa di Donald Trump. Una reticenza, condivisa dal Dipartimento di Giustizia, a cui, ricordiamolo, il Bureau fa capo. L’unica cosa che Wray ha finora detto è stata una condanna delle minacce ricevute dall’Fbi negli ultimi giorni proprio in riferimento al caso Trump. «Qualsiasi minaccia contro le forze dell’ordine, compresi gli uomini e le donne dell’Fbi, come con qualsiasi agenzia delle forze dell’ordine, è deplorevole e pericolosa», ha dichiarato. Ora, senza dubbio le minacce sono sempre deprecabili e da condannare con fermezza. E questo caso non fa certo eccezione. Va comunque registrato che il Bureau sta da tempo attraversando una profonda crisi di credibilità: una crisi che questo prolungato silenzio non aiuta ad alleviare.Il problema parte da lontano, dai tempi della presidenza di Barack Obama per l’esattezza. Una presidenza che è stata più volte accusata di aver politicizzato il Dipartimento di Giustizia e di essersi indebitamente intromessa nelle questioni afferenti allo stesso Fbi. Citando un rapporto dell’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia del 2018, il Washington Times riferì che, proprio a causa della strumentalizzazione politica, si sarebbero registrate frequenti «fratture» tra lo stesso Dipartimento di Giustizia e il Bureau ai tempi di Obama. In particolare, sarebbero state effettuate delle pressioni per chiudere le indagini sulla Fondazione Clinton. Ulteriori pressioni si sarebbero verificate da parte dell’allora procuratore generale Eric Holder, che voleva spingere i federali a mettere nel mirino i dipartimenti di polizia con l’accusa di violazione dei diritti civili. Nel 2015, anche il think tank conservatore Cato Institute accusò l’allora presidente dem di aver politicizzato il Dipartimento di Giustizia. Non solo: quando fu rivelata una nuova indagine federale sulle email di Hillary Clinton nell’ottobre 2016, lo stesso Obama criticò apertamente l’Fbi, interferendo così di fatto nel suo lavoro. Era invece dicembre 2019, quando l’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz, pubblicò un report sull’indagine che il Bureau aveva aperto nell’estate del 2016 in riferimento alla presunta (e mai dimostrata) collusione tra il comitato elettorale di Trump e il Cremlino. Horowitz ravvisò «inesattezze e omissioni significative» nelle richieste, avanzate dai federali, per ottenere i mandati di sorveglianza sull’allora consigliere di Trump, Carter Page. La cosa assurda fu che gli agenti ebbero quei mandati, facendo leva sul cosiddetto Dossier di Steele: un fascicolo che accusava Trump di collusione con la Russia, salvo poi rivelarsi largamente infondato (oltre che finanziato dal comitato elettorale della Clinton). Nel dicembre 2017, l’allora vicedirettore del Bureau, Andrew McCabe, ammise in una deposizione alla Camera che i federali non erano riusciti a verificare l’accuratezza di tutte le informazioni contenute nel documento. Non dimentichiamo inoltre che del team investigativo che indagava su Trump e i russi aveva fatto parte Peter Strzok: agente diventato noto per uno scambio di messaggi nell’agosto 2016 con la sua amante, l’avvocatessa dell’Fbi Lisa Page. «Trump non diventerà mai presidente, vero?», chiese lei a lui. «No, lo fermeremo», rispose Strzok. Infine, documenti resi noti nel 2020 suggeriscono che, nel gennaio 2017, l’Fbi possa aver voluto colpire politicamente l’allora consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Mike Flynn. «Qual è l’obiettivo? Verità/ammissione o indurlo a mentire, così da incriminarlo o farlo cacciare?», in questo modo recitava una nota, redatta dagli agenti che si stavano accingendo a interrogarlo. Si scorge, poi, un problema di doppiopesismo. Secondo indiscrezioni, il raid di lunedì sarebbe legato all’accusa secondo cui l’ex presidente avrebbe violato il Presidential records act, portandosi indebitamente a casa alcuni documenti classificati dopo la fine del mandato alla Casa Bianca. Ora, come ha notato il professor Jonathan Turley su The Hill, solitamente le violazioni di questa legge vengono affrontate per via amministrativa, non penale. Ne consegue che, se il blitz fosse realmente avvenuto per la questione dei documenti, si tratterebbe di un atto sproporzionato: non solo in sé, ma anche in considerazione del fatto che nessun ex presidente americano ha mai subito qualcosa del genere. Tanta solerzia non si vede, invece, su Hunter Biden, che è sotto indagine della procura federale del Delaware dal 2018 per questioni più gravi: si va da presunti reati fiscali a opachi affari in Cina, Ucraina e Russia. Il sospetto di doppiopesismo è più fondato di quanto si possa credere. A luglio, il senatore repubblicano Chuck Grassley ha inviato una lettera formale al Dipartimento di Giustizia, sostenendo che, secondo informatori «altamente credibili», l’agente dell’Fbi Timothy Thibault avrebbe fatto di tutto per screditare le notizie compromettenti uscite su Hunter ai tempi della campagna elettorale del 2020. Non solo: secondo Grassley, Thibault avrebbe anche usato i social per criticare Trump. Il 4 agosto, Wray è stato ascoltato su questi argomenti dalla commissione Giustizia del Senato e ha definito «profondamente preoccupanti» le accuse della missiva di Grassley. Insomma, indipendentemente dalla perquisizione a casa di Trump, nel Bureau c’è qualcosa che non va. I sospetti di politicizzazione aleggiano sempre più numerosi. E non certo da oggi.