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2022-03-08
Piombati nell’economia di guerra
Prezzi record dell’energia in tutta Europa. La settimana si è aperta con una raffica di aumenti mai visti nella storia: i precedenti massimi dello scorso dicembre sono stati spazzati via ieri in una giornata di follia sul mercato. Continua a pesare la guerra tra Russia e Ucraina e la minaccia incombente di una sospensione degli acquisti di petrolio e gas come sanzione da parte occidentale nei confronti della Russia. Sul mercato del gas Ttf, benchmark per tutta Europa, il future di aprile ha raggiunto un picco di 345 euro/megawattora (per poi chiudere a 215), quello di maggio 326 euro/megawattora, quello per l’estate 202 euro/megawattora. Il Pun elettrico di oggi per l’Italia è stato fissato a 587,67 euro/megawattora, altro record assoluto. Il petrolio Brent è arrivato a 140 dollari/barile, il massimo da 14 anni, anche per lo slittamento delle trattative con l’Iran sull’accordo per il nucleare. Considerato il forte apprezzamento del dollaro, la quotazione in euro del petrolio è la più alta registrata da quando esiste la moneta unica, circa 128 euro/barile. Sul mercato Eex, dove viene scambiata l’energia elettrica, il future di aprile in Germania ha toccato i 675 euro/megawattora. Per dare un termine di paragone, è come se un litro di benzina, tasse e accise escluse, costasse 6,50 euro al litro (ora costa 1,3 euro/litro, tasse e accise escluse).
Anche il prezzo della benzina non accenna a fermarsi. Il tonfo dell’euro sul dollaro e la prospettiva di blocchi alle forniture russe fa balzare i prezzi a 2 euro/litro in media nazionale (self service), con il gasolio servito ben oltre i 2 euro/litro. Gli aumenti dell’ultima settimana variano da 4 a 8 centesimi al litro, altri ne seguiranno questa settimana.
Alcune categorie produttive reagiscono ai rialzi con iniziative clamorose. Da lunedì notte è iniziato uno sciopero dei pescherecci, che non usciranno in mare per protesta contro il governo, cui i pescatori chiedono un sostegno: «Il caro gasolio non permette più di sostenere l’attività di pesca e il comparto ha deciso di fermarsi», hanno dichiarato i rappresentanti dell’Associazione produttori pesca.
Con questi prezzi di energia e benzina, l’Europa intera si trova in una situazione di stagflazione. I rischi per l’economia europea sono enormi: da una parte prezzi fuori controllo per i beni essenziali (anche i prezzi degli alimentari stanno salendo), dall’altra aziende chiuse, disoccupazione, recessione. La giornata di ieri sui mercati energetici è ruotata intorno al pacchetto di sanzioni che gli Stati Uniti e l’Unione europea intendono applicare alla Russia. Si discute di un blocco graduale degli acquisti di petrolio e gas russi. Il timore è però che la Russia in reazione blocchi immediatamente l’export, non solo di petrolio ma anche di gas, nel qual caso il problema sarebbe tutto dell’Europa, che infatti ieri ha frenato bruscamente. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato nel pomeriggio che l’Europa esclude deliberatamente dalle sanzioni la fornitura di energia dalla Russia, poiché al momento l’energia in Europa non può essere garantita in altro modo. Intanto, per oggi è annunciata a Bruxelles la presentazione della nuova strategia dell’Unione sui prezzi dell’energia, curata dalla Commissione europea. Dalle prime anticipazioni non si scorgono grandi novità: diversificazione delle fonti, migliore uso di stoccaggi e rigassificatori, risparmio energetico e nuovo impulso al programma Fit for 55. Solo le rinnovabili, affermerà il documento della Commissione, possono garantire l’indipendenza energetica all’Europa. Nessuna di queste azioni, tuttavia, può portare effetti nel breve termine. Nuova invece appare la possibilità di inserire un meccanismo di price cap, ovvero dando agli Stati la possibilità di «intervenire con l’attuazione eccezionale e limitata nel tempo di prezzi regolamentati».
Il ministero degli Affari economici tedesco ha annunciato ieri la sigla dell’accordo tra Kfw (la banca di investimento federale tedesca), l’operatore di trasporto Gasunie (100% proprietà dello Stato olandese) e l’utility Rwe per l’avvio del primo dei due rigassificatori annunciati da Scholz domenica scorsa. Ci vorranno come minimo due anni per vedere il primo metro cubo rigassificato dalla nuova struttura.
Per l’Italia, il nuovo decreto del governo ha reintrodotto la possibilità di usare centrali a carbone per risparmiare gas. Considerando che oltre il 65% del carbone termico importato dall’Italia nel 2021 proveniva dalla Russia, sarà necessario cercare altri fornitori. Almeno questo, però, non dovrebbe essere difficile. A fine mese arriverà l’aggiornamento delle tariffe trimestrali di gas ed energia elettrica, curato dall’Autorità per l’energia. Dopo i 10 miliardi spesi sinora per ridurre in parte l’impatto degli aumenti, secondo le prime stime il governo probabilmente dovrà intervenire di nuovo. Se per il gas ci si può attendere un aumento contenuto del 2% rispetto al trimestre in corso, infatti, per l’elettricità i nuovi aumenti potrebbero essere superiori al 20%. In attesa di soluzioni strutturali che non arrivano, si continua a rincorrere la situazione contingente, tra incertezze e scarsità.
La carenza di materie prime blocca anche i cantieri del Recovery
Tra inflazione, costi delle materie prime alle stelle e scarsa disponibilità dei materiali da costruzione, il futuro del Pnrr si preannuncia complicato e piuttosto salato. A questo si aggiungano le difficoltà nate con la crisi russo ucraina e il gioco è fatto: con ogni probabilità le tempistiche imposte dall’Ue non potranno essere rispettate.
L’obiettivo del Pnrr era chiaro. Pianificare la spesa di 235 miliardi di euro per far ripartire l’Italia dopo la pandemia da Covid-19 e realizzare tutto entro il 31 dicembre 2026. Il problema è che dei 235 miliardi in ballo, 108 riguardano opere di edilizia che rischiano di finire in pausa molto presto. Il motivo è semplice: non ci sono materie prime e, se sono disponibili, costano un occhio della testa. Fare stime non è certo facile, ma le previsioni parlano di un rincaro di almeno 10 miliardi di euro per terminare le opere legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Del resto, quali possono essere le speranze di non avere forti rincari quando i tondini di ferro sono saliti del 44%, i laminati in acciaio del 48% e i binari ferroviari del 31%? Il punto è che i prezzi, secondo gli esperti, sono destinati a salire ancora con aumenti anche dell’80% per i tondini del 130% per l’acciaio da costruzione. Per non parlare del caro energia, tanto che si inizia a parlare di razionamenti e black out programmati.
Con queste premesse, non manca dunque chi chiede di rimettere mano al Pnrr modificandone tempi e previsioni sui costi. «Il Pnrr dovrebbe essere riscritto» e «allungato nella sua estensione temporanea» perché «tutta l’Europa ha questa necessità», alla luce di quanto successo in Ucraina e «per il balzo dei prezzi dell’energia». A parlare è Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ospite di Mezz’ora in più su Rai3. «Bisogna essere realisti», ha detto, «allungare i tempi e spostare gli obiettivi della transizione ecologica». Una transizione che dovrebbe essere accompagnata da investimenti molto forti «che oggi non ci sono, e dire chiaramente che ci saranno costi sociali». Dello stesso avviso anche la deputata di Coraggio Italia Daniela Ruffino. «Credo che ormai sia piuttosto chiaro come tutta la politica del Pnrr sia completamente da rivedere alla luce della pesantissima crisi energetica e il conseguente aumento del costo delle materie prime che la guerra in Ucraina ha esacerbato», ha detto. «Bene quindi che Mario Draghi e Ursula von der Leyen da Bruxelles abbiano appena ribadito come la protezione dei consumatori europei debba diventare un imperativo. Auspico che non si perda altro tempo e che l’Unione sappia rapidamente rimodellare la sua risposta a favore di cittadini e imprese per evitare che Next generation Eu e Pnrr diventino obsoleti ancora prima di partire».
D’altronde, la situazione è già difficile. Come spiega il presidente di Argenta soa, Giovanni Pelazzi, «le imprese segnalano già oggi gravi difficoltà. Fermi restando i tempi di approvazione dei bandi Pnrr e di realizzazione delle opere» il rischio è «di compromettere la realizzazione delle infrastrutture previste dal Piano nazionale. Il governo dovrebbe agire sin da ora per chiedere una maggiore elasticità da parte dell’Europa sui tempi di consegna delle opere, anche in considerazione della guerra che ha moltiplicato le difficoltà attuali. Infine, è necessario un ulteriore intervento per compensare le imprese delle costruzioni per i costi inattesi dovuti all’impennata dei prezzi delle materie. Di questo passo, in assenza di interventi mirati, il rischio è che per alcune imprese non sia più conveniente stare sul mercato».
Niente grano, è l’economia di guerra
Siamo all’economia di guerra, si lotta per il grano come da millenni quando ci sono le carestie. Vista dall’Italia la situazione è difficilissima, agli occhi di somali, siriani, libici e libanesi è una tragedia che può sfociare da un momento all’altro in rivolte di popolo. Per loro il frumento a 440 dollari a tonnellata (ultimo prezzo ieri a Parigi con un aumento del 13% rispetto a venerdì), che è più del doppio di un anno fa, significa fame. In Turchia e in Egitto la farina è ormai merce rara e anche la semola di grano duro non si trova. Il prezzo ieri sul mercato di Foggia era 473 euro a tonnellata. Per noi significa pane, se si riesce a farlo visto che le scorte bastano ancora per un quarantina di giorni, ad almeno 6 euro al chilo, la pasta otre i 4 euro.
La crisi alimentare investe tutto: dal latte - ormai non conviene più produrlo - ai formaggi, dai salumi al pesce. La globalizzazione scopre la sua debolezza alimentando focolai di quasi conflitto per il cibo, l’Europa la sua miopia. Stando a noi siamo senza grano tenero. Da Ucraina e Russia non arriva più nulla, ma ieri anche Ungheria e Bulgaria hanno bloccato le esportazioni. Così fa la Moldova con lo zucchero e via via gli altri Paesi produttori.
Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia parla di «notizia gravissima per la sicurezza alimentare dell’Europa, l’Italia importa dall’Ungheria oltre 600 milioni di euro di cereali prevalentemente grano e poi mais. È un crescendo di misure protezionistiche con buona pace di chi a Bruxelles pensava che l’autosufficienza e la sovranità alimentare non fossero più da tutelare e che della Pac e dei nostri agricoltori se ne potesse fare a meno. Ora l’Europa intervenga bloccando immediatamente la norma ungherese». Da mesi si sa che la Cina stava facendo incetta di cereali per rifornire la sua immensa dispensa e la super produzione di carne e latte. Mentre l’Europa demonizza la zootecnia russi e cinesi insieme hanno costruito stalle da 100.000 capi.
Tra due giorni il sottosegretario leghista all’Agricoltura Gian Marco Centinaio apre il tavolo del grano per cercare qualche soluzione, ieri il ministro Stefano Patuanelli ha incontrato la Coldiretti. Per il presidente degli agricoltori Ettore Prandini la situazione è insostenibile: «Con lo scoppio della guerra e la crisi energetica i costi aumentano di almeno 8 miliardi su base annua (l’incasso agricolo è 60 miliardi, i costi sono aumentati del 13% in due mesi rispetto al fatturato, ndr), è a rischio il futuro immediato delle coltivazioni, degli allevamenti, dell’industria di trasformazione nazionale, ma anche il cibo per 5 milioni d’ italiani che sono in povertà». L’energia è aumentata dell’80%, i mangimi del 50%, ma molto mais arriva dall’Ucraina e perciò scarseggia. Gravissima è la crisi dei fertilizzanti: costano il 170% in più eppure non si trovano. L’urea è fatta con il metano, ma se non si concima non ci sono raccolti proprio quando dovremmo produrre di più. Ricorda ancora la Coldiretti: l’Italia produce appena il 36% del frumento che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 63% della carne di maiale.
C’è un altro prodotto che è diventato introvabile per quanto sia indispensabile: l’olio di girasole. Ucraina e Russia coprono l’80% della produzione, ma non ne esce più una goccia. Le aziende di prodotti da forno devono chiudere. L’olio non ci sarà neppure l’anno prossimo (idem per il mais): questi sono i giorni della semina e dove ci sono le bombe non crescono i fiori, tanto meno quelli di girasole. Tutti gli altri oli vegetali perciò hanno quotazioni in crescita di oltre il 30%. Anche i pescatori hanno fermato le barche per il caro gasolio. Gli aumenti si scaricheranno sui prezzi finali alimentando l’inflazione e frenando i consumi. Si va dritti verso la stagflazione, è la sanzione visto che siamo in un’economia di guerra.
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Grano, energia e carburanti alle stelle, pescherecci in porto, fertilizzanti e olio di girasole introvabili, fabbriche senza materie prime, cantieri che si fermano: l’effetto boomerang delle sanzioni morde. E si comincia a parlare di razionamenti e blackout programmati. La Russia inserisce anche l’Italia tra le nazioni ostili: così salderà i suoi debiti in rubli...Prezzi record dell’energia in tutta Europa. La settimana si è aperta con una raffica di aumenti mai visti nella storia: i precedenti massimi dello scorso dicembre sono stati spazzati via ieri in una giornata di follia sul mercato. Continua a pesare la guerra tra Russia e Ucraina e la minaccia incombente di una sospensione degli acquisti di petrolio e gas come sanzione da parte occidentale nei confronti della Russia. Sul mercato del gas Ttf, benchmark per tutta Europa, il future di aprile ha raggiunto un picco di 345 euro/megawattora (per poi chiudere a 215), quello di maggio 326 euro/megawattora, quello per l’estate 202 euro/megawattora. Il Pun elettrico di oggi per l’Italia è stato fissato a 587,67 euro/megawattora, altro record assoluto. Il petrolio Brent è arrivato a 140 dollari/barile, il massimo da 14 anni, anche per lo slittamento delle trattative con l’Iran sull’accordo per il nucleare. Considerato il forte apprezzamento del dollaro, la quotazione in euro del petrolio è la più alta registrata da quando esiste la moneta unica, circa 128 euro/barile. Sul mercato Eex, dove viene scambiata l’energia elettrica, il future di aprile in Germania ha toccato i 675 euro/megawattora. Per dare un termine di paragone, è come se un litro di benzina, tasse e accise escluse, costasse 6,50 euro al litro (ora costa 1,3 euro/litro, tasse e accise escluse). Anche il prezzo della benzina non accenna a fermarsi. Il tonfo dell’euro sul dollaro e la prospettiva di blocchi alle forniture russe fa balzare i prezzi a 2 euro/litro in media nazionale (self service), con il gasolio servito ben oltre i 2 euro/litro. Gli aumenti dell’ultima settimana variano da 4 a 8 centesimi al litro, altri ne seguiranno questa settimana. Alcune categorie produttive reagiscono ai rialzi con iniziative clamorose. Da lunedì notte è iniziato uno sciopero dei pescherecci, che non usciranno in mare per protesta contro il governo, cui i pescatori chiedono un sostegno: «Il caro gasolio non permette più di sostenere l’attività di pesca e il comparto ha deciso di fermarsi», hanno dichiarato i rappresentanti dell’Associazione produttori pesca. Con questi prezzi di energia e benzina, l’Europa intera si trova in una situazione di stagflazione. I rischi per l’economia europea sono enormi: da una parte prezzi fuori controllo per i beni essenziali (anche i prezzi degli alimentari stanno salendo), dall’altra aziende chiuse, disoccupazione, recessione. La giornata di ieri sui mercati energetici è ruotata intorno al pacchetto di sanzioni che gli Stati Uniti e l’Unione europea intendono applicare alla Russia. Si discute di un blocco graduale degli acquisti di petrolio e gas russi. Il timore è però che la Russia in reazione blocchi immediatamente l’export, non solo di petrolio ma anche di gas, nel qual caso il problema sarebbe tutto dell’Europa, che infatti ieri ha frenato bruscamente. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato nel pomeriggio che l’Europa esclude deliberatamente dalle sanzioni la fornitura di energia dalla Russia, poiché al momento l’energia in Europa non può essere garantita in altro modo. Intanto, per oggi è annunciata a Bruxelles la presentazione della nuova strategia dell’Unione sui prezzi dell’energia, curata dalla Commissione europea. Dalle prime anticipazioni non si scorgono grandi novità: diversificazione delle fonti, migliore uso di stoccaggi e rigassificatori, risparmio energetico e nuovo impulso al programma Fit for 55. Solo le rinnovabili, affermerà il documento della Commissione, possono garantire l’indipendenza energetica all’Europa. Nessuna di queste azioni, tuttavia, può portare effetti nel breve termine. Nuova invece appare la possibilità di inserire un meccanismo di price cap, ovvero dando agli Stati la possibilità di «intervenire con l’attuazione eccezionale e limitata nel tempo di prezzi regolamentati». Il ministero degli Affari economici tedesco ha annunciato ieri la sigla dell’accordo tra Kfw (la banca di investimento federale tedesca), l’operatore di trasporto Gasunie (100% proprietà dello Stato olandese) e l’utility Rwe per l’avvio del primo dei due rigassificatori annunciati da Scholz domenica scorsa. Ci vorranno come minimo due anni per vedere il primo metro cubo rigassificato dalla nuova struttura.Per l’Italia, il nuovo decreto del governo ha reintrodotto la possibilità di usare centrali a carbone per risparmiare gas. Considerando che oltre il 65% del carbone termico importato dall’Italia nel 2021 proveniva dalla Russia, sarà necessario cercare altri fornitori. Almeno questo, però, non dovrebbe essere difficile. A fine mese arriverà l’aggiornamento delle tariffe trimestrali di gas ed energia elettrica, curato dall’Autorità per l’energia. Dopo i 10 miliardi spesi sinora per ridurre in parte l’impatto degli aumenti, secondo le prime stime il governo probabilmente dovrà intervenire di nuovo. Se per il gas ci si può attendere un aumento contenuto del 2% rispetto al trimestre in corso, infatti, per l’elettricità i nuovi aumenti potrebbero essere superiori al 20%. 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L’obiettivo del Pnrr era chiaro. Pianificare la spesa di 235 miliardi di euro per far ripartire l’Italia dopo la pandemia da Covid-19 e realizzare tutto entro il 31 dicembre 2026. Il problema è che dei 235 miliardi in ballo, 108 riguardano opere di edilizia che rischiano di finire in pausa molto presto. Il motivo è semplice: non ci sono materie prime e, se sono disponibili, costano un occhio della testa. Fare stime non è certo facile, ma le previsioni parlano di un rincaro di almeno 10 miliardi di euro per terminare le opere legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Del resto, quali possono essere le speranze di non avere forti rincari quando i tondini di ferro sono saliti del 44%, i laminati in acciaio del 48% e i binari ferroviari del 31%? Il punto è che i prezzi, secondo gli esperti, sono destinati a salire ancora con aumenti anche dell’80% per i tondini del 130% per l’acciaio da costruzione. Per non parlare del caro energia, tanto che si inizia a parlare di razionamenti e black out programmati. Con queste premesse, non manca dunque chi chiede di rimettere mano al Pnrr modificandone tempi e previsioni sui costi. «Il Pnrr dovrebbe essere riscritto» e «allungato nella sua estensione temporanea» perché «tutta l’Europa ha questa necessità», alla luce di quanto successo in Ucraina e «per il balzo dei prezzi dell’energia». A parlare è Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ospite di Mezz’ora in più su Rai3. «Bisogna essere realisti», ha detto, «allungare i tempi e spostare gli obiettivi della transizione ecologica». Una transizione che dovrebbe essere accompagnata da investimenti molto forti «che oggi non ci sono, e dire chiaramente che ci saranno costi sociali». Dello stesso avviso anche la deputata di Coraggio Italia Daniela Ruffino. «Credo che ormai sia piuttosto chiaro come tutta la politica del Pnrr sia completamente da rivedere alla luce della pesantissima crisi energetica e il conseguente aumento del costo delle materie prime che la guerra in Ucraina ha esacerbato», ha detto. «Bene quindi che Mario Draghi e Ursula von der Leyen da Bruxelles abbiano appena ribadito come la protezione dei consumatori europei debba diventare un imperativo. Auspico che non si perda altro tempo e che l’Unione sappia rapidamente rimodellare la sua risposta a favore di cittadini e imprese per evitare che Next generation Eu e Pnrr diventino obsoleti ancora prima di partire». D’altronde, la situazione è già difficile. Come spiega il presidente di Argenta soa, Giovanni Pelazzi, «le imprese segnalano già oggi gravi difficoltà. Fermi restando i tempi di approvazione dei bandi Pnrr e di realizzazione delle opere» il rischio è «di compromettere la realizzazione delle infrastrutture previste dal Piano nazionale. Il governo dovrebbe agire sin da ora per chiedere una maggiore elasticità da parte dell’Europa sui tempi di consegna delle opere, anche in considerazione della guerra che ha moltiplicato le difficoltà attuali. Infine, è necessario un ulteriore intervento per compensare le imprese delle costruzioni per i costi inattesi dovuti all’impennata dei prezzi delle materie. Di questo passo, in assenza di interventi mirati, il rischio è che per alcune imprese non sia più conveniente stare sul mercato». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/in-due-mesi-gas-schizzato-del-162-lue-pensa-che-basti-un-tetto-ai-prezzi-2656864079.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="niente-grano-e-leconomia-di-guerra" data-post-id="2656864079" data-published-at="1646688124" data-use-pagination="False"> Niente grano, è l’economia di guerra Siamo all’economia di guerra, si lotta per il grano come da millenni quando ci sono le carestie. Vista dall’Italia la situazione è difficilissima, agli occhi di somali, siriani, libici e libanesi è una tragedia che può sfociare da un momento all’altro in rivolte di popolo. Per loro il frumento a 440 dollari a tonnellata (ultimo prezzo ieri a Parigi con un aumento del 13% rispetto a venerdì), che è più del doppio di un anno fa, significa fame. In Turchia e in Egitto la farina è ormai merce rara e anche la semola di grano duro non si trova. Il prezzo ieri sul mercato di Foggia era 473 euro a tonnellata. Per noi significa pane, se si riesce a farlo visto che le scorte bastano ancora per un quarantina di giorni, ad almeno 6 euro al chilo, la pasta otre i 4 euro. La crisi alimentare investe tutto: dal latte - ormai non conviene più produrlo - ai formaggi, dai salumi al pesce. La globalizzazione scopre la sua debolezza alimentando focolai di quasi conflitto per il cibo, l’Europa la sua miopia. Stando a noi siamo senza grano tenero. Da Ucraina e Russia non arriva più nulla, ma ieri anche Ungheria e Bulgaria hanno bloccato le esportazioni. Così fa la Moldova con lo zucchero e via via gli altri Paesi produttori. Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia parla di «notizia gravissima per la sicurezza alimentare dell’Europa, l’Italia importa dall’Ungheria oltre 600 milioni di euro di cereali prevalentemente grano e poi mais. È un crescendo di misure protezionistiche con buona pace di chi a Bruxelles pensava che l’autosufficienza e la sovranità alimentare non fossero più da tutelare e che della Pac e dei nostri agricoltori se ne potesse fare a meno. Ora l’Europa intervenga bloccando immediatamente la norma ungherese». Da mesi si sa che la Cina stava facendo incetta di cereali per rifornire la sua immensa dispensa e la super produzione di carne e latte. Mentre l’Europa demonizza la zootecnia russi e cinesi insieme hanno costruito stalle da 100.000 capi. Tra due giorni il sottosegretario leghista all’Agricoltura Gian Marco Centinaio apre il tavolo del grano per cercare qualche soluzione, ieri il ministro Stefano Patuanelli ha incontrato la Coldiretti. Per il presidente degli agricoltori Ettore Prandini la situazione è insostenibile: «Con lo scoppio della guerra e la crisi energetica i costi aumentano di almeno 8 miliardi su base annua (l’incasso agricolo è 60 miliardi, i costi sono aumentati del 13% in due mesi rispetto al fatturato, ndr), è a rischio il futuro immediato delle coltivazioni, degli allevamenti, dell’industria di trasformazione nazionale, ma anche il cibo per 5 milioni d’ italiani che sono in povertà». L’energia è aumentata dell’80%, i mangimi del 50%, ma molto mais arriva dall’Ucraina e perciò scarseggia. Gravissima è la crisi dei fertilizzanti: costano il 170% in più eppure non si trovano. L’urea è fatta con il metano, ma se non si concima non ci sono raccolti proprio quando dovremmo produrre di più. Ricorda ancora la Coldiretti: l’Italia produce appena il 36% del frumento che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 63% della carne di maiale. C’è un altro prodotto che è diventato introvabile per quanto sia indispensabile: l’olio di girasole. Ucraina e Russia coprono l’80% della produzione, ma non ne esce più una goccia. Le aziende di prodotti da forno devono chiudere. L’olio non ci sarà neppure l’anno prossimo (idem per il mais): questi sono i giorni della semina e dove ci sono le bombe non crescono i fiori, tanto meno quelli di girasole. Tutti gli altri oli vegetali perciò hanno quotazioni in crescita di oltre il 30%. Anche i pescatori hanno fermato le barche per il caro gasolio. Gli aumenti si scaricheranno sui prezzi finali alimentando l’inflazione e frenando i consumi. Si va dritti verso la stagflazione, è la sanzione visto che siamo in un’economia di guerra.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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