2018-09-03
Immigrati spacciatori, nuovo record: ogni ora ne vengono «pizzicati» tre
Nei primi 7 mesi del 2018, fermati per smercio o detenzione di droga 17.541 stranieri. Cioè 83 al giorno. E tra gli arrestati molti sono richiedenti asilo. Gli inquirenti: «Sono quelli che hanno più tempo libero».È un argomento di cui, da qualche anno a questa parte, non si parla molto. Di droga si discuteva molto nei decenni passati, ora lo si fa soltanto - almeno sui media - quando si deve dibattere sulla legalizzazione della marijuana. In realtà, quello della tossicodipendenza è un problema drammatico, che anno dopo anno continua ad aggravarsi. Secondo i dati raccolti dal progetto GeOverdose.it (curato dal Gruppo di interesse «Riduzione del danno» della Società italiana tossicodipendenze), dal primo gennaio al 30 di agosto di quest'anno ci sono stati in Italia 166 decessi per overdose, 130 ricoveri e 48 morti sospette. «Tra i decessi accertati», spiega la ricerca, «la sostanza stupefacente principale è l'eroina (segnalata nel 63 per cento dei casi). Un decesso su dieci, invece, è stato determinato da cocaina». Stando alla relazione del Dipartimento delle politiche antidroga pubblicata nel 2017, nel 2016 nel nostro Paese ci sono stati «266 decessi droga indotti. Di questi l'89,8% sono riferiti a persone di genere maschile, il 5,6% a persone di nazionalità straniera e il 51,8% a persone con età maggiore di 39 anni». I ricoveri in ospedale causati dall'abuso di sostanze, poi, sono diverse migliaia (circa 6.000) ogni anno. Riguardo alle dipendenze ci sono varie azioni che la politica può mettere in campo. Alcune sono di lungo periodo, riguardano l'assistenza sociale e psicologica ai giovani e meno giovani che abusano di sostanze. Ma ci sono anche interventi potenzialmente più rapidi, cioè quelli di contrasto al traffico e allo spaccio. E qui veniamo al punto. Tra le tante conseguenze negative dell'immigrazione di massa che il nostro Paese ha vissuto in questi anni c'è anche lo spaccio di stupefacenti. Un business miliardario. Il Dipartimento antidroga spiega che «la spesa per il consumo di sostanze stupefacenti sul territorio nazionale è stimata in 14,2 miliardi di euro, di cui il 43% attribuibile al consumo di cocaina e più di un quarto all'utilizzo di derivati della cannabis». Gli stranieri, come ovvio, si sono gettati a capofitto su questa miniera d'oro. I dati forniti dal Viminale - ricavati dalle operazioni condotte da tutte le forze di polizia italiane - parlano chiaro. Nel 2017, sono state denunciate o arrestate per spaccio e detenzione 70.120 persone, di cui 26.569 di origine straniera, cioè il 37,90% del totale. Nel 2018, questa percentuale è aumentata ancora. Dal primo gennaio al 31 luglio di quest'anno, infatti, sono stati arrestati o denunciati per reati legati agli stupefacenti ben 43.061 individui, di cui 17.541 stranieri (aumento del 4,2% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente). Significa che gli immigrati sono il 40,70% del totale. Contando che gli stranieri in Italia sono circa l'8,8% della popolazione, capite bene che si tratta di una percentuale clamorosa. Facciamo un calcolo a spanne. In 212 giorni sono stati presi 17.451 spacciatori stranieri. Vuol dire che sono 82,3 al giorno, domeniche e festivi compresi. Ovvero 3,4 all'ora. Un flusso mostruoso, esorbitante. Già questi dati bastano a far riflettere. Ma c'è di più. Tra gli arrestati, molto sono richiedenti asilo. Cioè persone che abbiamo fatto entrare e accolto, le quali per occupare il tempo si dedicano alla vendita di sostanze assassine. La cronaca degli ultimi mesi è emblematica. Intorno alla metà di luglio, a Mestre, un gigantesco blitz delle forze dell'ordine ha colpito duramente una grande rete di spacciatori. Si trattava di nigeriani legati alla mafia africana, i quali vendevano a prezzi stracciati un tipo di eroina particolarmente potente che ha causato decine di decessi. Dopo l'operazione di polizia, su richiesta del pm antimafia Paola Tonini, sono state emesse 41 ordinanze di custodia cautelare, il 90% delle quali riguardava richiedenti asilo. Pochi giorni dopo, un caso analogo a Vinci, in provincia di Firenze: sei nigeriani arrestati per spaccio, tutti richiedenti asilo. Passano un paio di giorni ed ecco un'altra notizia, questa volta a Rimini: quattro arrestati, due nigeriani e due gambiani, anche loro richiedenti asilo ospitati da strutture d'accoglienza romagnole. Sempre in luglio, ennesima operazione antidroga a Trento. Sono stati arrestati 14 centrafricani richiedenti asilo i quali gestivano un enorme traffico che toccava Trento, Verona, Vicenza e Ferrara. Anche questi signori erano giunti qui tramite barcone, erano stati gentilmente tratti in salvo e ospitati. Per mantenersi, spacciavano grandi quantità di marijuana ed eroina. Di casi come questi ce ne sono ogni settimana. L'ultimo in ordine di tempo risale a pochi giorni fa: nel centro di accoglienza di Pergusa, in provincia di Enna, sono stati arrestati cinque richiedenti asilo gambiani e nigeriani per detenzione e spaccio di droga.La costante presenza di richiedenti asilo fra gli spacciatori ha una causa precisa. L'ha spiegata, all'inizio di agosto, il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi. «Nell'ultimo anno abbiamo coordinato cinque maxi operazioni contro lo spaccio di droga nel centro storico. Fra le persone arrestate anche richiedenti asilo», ha detto. Poi ha chiarito il concetto: «I migranti non impegnati spesso finiscono a spacciare». Insomma, chi sta nei centri di accoglienza, non ha un lavoro ma in compenso ha molto tempo da perdere, è facile che finisca a vendere droga. Secondo qualcuno, la soluzione sarebbe mettere a lavorare i presunti profughi. Il ministero dell'Interno, intanto, ha annunciato che dal 5 settembre partirà la sperimentazione dei taser elettrici in 12 città più «movimentate» (tra cui Milano, Genova, Bologna, Firenze, Palermo e Catania). Ma c'è un solo modo efficace di affrontare la questione: limitare drasticamente gli ingressi nel nostro Paese. Più di tre spacciatori stranieri ogni ora ce li possiamo risparmiare.
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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