
Se il vertice di governo di pochi giorni fa (si è tenuto lunedì 18) che ha messo allo stesso tavolo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e i ministri Giorgetti, Fitto e Urso non era riuscito a indicare la strada da seguire per togliere dal pantano l’ex Ilva di Taranto, era difficile aspettarsi che nell’incontro di ieri con i sindacati l’esecutivo potesse rivelare chissà quale soluzione salvifica. E infatti il governo ha preso tempo.
Ma questo non vuol dire che non sia successo nulla. I ministri presenti e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano hanno assicurato la continuità aziendale. E questo rappresenta un punto di partenza. Fonti sindacali raccontano poi di una presa d’atto, da parte dei rappresentanti dell’esecutivo della necessità di trovare una soluzione il prima possibile, perché se si va oltre gennaio davvero l’azienda rischia di chiudere. E dall’altro sembra che ormai anche gli ultimi sostenitori del primo socio, gli indiani di Arcelor-Mittal, stiano abbandonando l’idea di poter trovare un compromesso con la multinazionale asiatica.
Dai siti di Novi Ligure e Racconigi arrivano notizie di diverse produzioni che sono state dirottate verso la Francia, un’ulteriore dimostrazione di quale fossero i reali obiettivi dell’operazione a Taranto: accaparrarsi il portafoglio clienti ed evitare che potesse andare nelle mani dei concorrenti, assicurarsi il know how e non investire praticamente nulla nell’acciaieria italiana.
Il problema al momento è quello emerso nell’ultima assemblea quando gli indiani si sono prestanti accompagnati dagli avvocati, ricordando al socio pubblico Invitalia quali fossero gli accordi con il precedente governo. E che nel caso quegli impegni non fossero rispettati ci sarebbero delle penali da pagare.
Insomma, qualsiasi decisione verrà assunta da Fitto, Urso e Giorgetti dovrà fare i conti con le clausole sottoscritte dal governo Conte con il primo socio che oggi detiene ancora il 62% della società. Da qui si capisce meglio anche perché il governo stia temporeggiando per evitare contenziosi
Del resto le strade possibili restano sempre le stesse. Da un lato, quella che da tempo indicano i sindacati e che ieri è stata riassunta dal segretario generale della Fim, Roberto Benaglia: «Il governo», ha evidenziato, «ha la possibilità di salire in maggioranza con la conversione del prestito da 680 milioni in capitale. In questo modo può prendere il controllo e cambiare la gestione garantendo il pagamento degli appalti e trovando il miglior socio privato per salvare l’Ilva». Si sta lavorando anche in questa direzione. E oltre all’ipotesi Tata e degli ucraini di Metinvest (di cui oggi parlava Il Sole 24 Ore), non è mai stata abbandonata la possibilità di creare una cordata di imprenditori italiani dell’acciaio (i nomi sono i soliti, si parte da Arvedi e si arriva fino alla Marcegaglia) disponibili a intervenire per garantire i famosi 5 miliardi che servono per pagare i fornitori e fare tutti gli investimenti necessari alla conversione verso una produzione «pulita». L’alternativa è l'amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi. Che di certo garantirebbe la continuità, ma altrettanto sicuramente metterebbe a rischio parte dei 20.000 posti di lavoro.
Come se ne esce? Allo stato dell’arte è difficile aspettarsi che nell’assemblea del 22 ci possa essere la svolta tanto auspicata. Più probabile che nel Consiglio dei ministri del 28 si decida di iniettare quei 320-350 milioni che servono nell’immediato, per poi avere qualche settimana in più per trovare una soluzione definitiva.






