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2020-02-15
Il Coronavirus è in Africa: chiudete i porti
Ansa
Il mal d'Africa da oggi non sarà più lo stesso. Covid-19 è arrivato in Egitto. La pandemia cinese ha colpito il primo paziente del Continente nero. A darne notizia è stato il ministero della Salute del Paese. Poche stringate righe per avvisare il mondo intero che l'epidemia ha trovato un nuovo, formidabile incubatore che rischia di rappresentare il detonatore di una esplosione virale molto più potente di quella - già fortissima - che è arrivata da Wuhan e che si è propagata in tutto il pianeta. E questo perché il coronavirus sarà libero di circolare e di attecchire in un continente di circa 1,2 miliardi di persone (di poco inferiore alla Cina) con un sistema sanitario del tutto impreparato ad affrontare i rigori dei protocolli di sicurezza e con strutture socio-economiche carenti e facili al contagio.
Covid-19 in Africa è anche un tema di politica sanitaria internazionale perché investe il tema dei flussi migratori verso l'Europa e, soprattutto, verso l'Italia. Come si comporteranno, adesso, le Ong che sfrecciano nel mar Mediterraneo per portare frotte di disperati da una costa all'altra? Cambieranno modo di operare per la minaccia di traghettare possibili migranti infetti?
Dal 5 febbraio ad oggi, secondo i dati del dipartimento della Protezione civile, in Italia sono stati controllati con i termoscanner e i termometri a pistola 1.037.225 passeggeri sbarcati in Italia con 9.046 voli internazionali. Nella sola giornata di ieri sono stati controllati 144.816 viaggiatori e 1.262 voli. Nel monitoraggio sono impegnati oltre 800 tra medici e volontari: il sistema di profilassi prevede l'impiego di squadre miste, composte da personale medico dell'Ufficio di sanità marittima aerea e di frontiera (Usmaf) e da volontari delle organizzazioni nazionali e regionali di protezione civile e della Croce rossa italiana, con il supporto dei presidi medici aeroportuali. Le organizzazioni non governative che tipo di garanzia possono offrire, anzitutto a quanti collaborano con loro, e poi a chi accoglierà i profughi? Adotteranno misure di prevenzione o si affideranno alla buona sorte? E soprattutto: quanto è compatibile con questo scenario il sistema delle Ong?
Le autorità statali africane sono del tutto impreparate a gestire la complessa macchina degli aiuti e dei soccorsi. Basterebbe pensare che il governo ugandese ha affermato, proprio ieri, che è troppo costoso noleggiare un aereo per riportare a casa i circa 105 studenti bloccati a Wuhan. Secondo quanto riferiscono i media locali, ai ragazzi è stato già inviato del denaro. Una soluzione che in realtà non risolve nulla. Ieri il ministro della Sanità, Jane Ruth Aceng, ha dichiarato ai parlamentari che l'Uganda non ha conoscenze né una struttura specializzata per gestire l'epidemia, ma sarebbero stati stanziati 61.000 dollari per supportare gli studenti bloccati a Wuhan, anche se non è chiaro quanto riceverà ciascuno. Alcuni ragazzi si sono infatti lamentati perché stanno finendo soldi, cibo e mascherine, lanciando una campagna sui social media con l'hashtag #EvacuateUgandansInWuhan. Il governo di Kampala ha confermato inoltre che a più di 260 viaggiatori in arrivo dalla Cina, sia cinesi sia ugandesi, è stato chiesto di autoisolarsi per due settimane. La scorsa settimana, per di più, sono state messe in quarantena circa 100 persone arrivate dalla Cina all'aeroporto internazionale della città ugandese di Entebbe. Troppo poco per poter parlare di una seria politica di prevenzione. E questo senza considerare che il coronavirus avrebbe addirittura una capacità di diffusione superiore a quella stimata finora dall'Organizzazione mondiale della sanità: il numero di persone che possono essere contagiate da un soggetto infetto sarebbe pari a 3,28 (e non compreso tra 1,4 e 2,5 come ipotizzato finora). A sostenerlo è una revisione di 12 studi, pubblicata sul Journal of Travel Medicine dall'università di Umea in Svezia, l'Heidelberg Institute of Public Health in Germania e lo Xiamen University Tan Kah Kee College in Cina. «La nostra revisione dimostra che il coronavirus è trasmissibile almeno quanto il virus della Sars, e questo dice molto della serietà della situazione», ha dichiarato Joacim Rocklov dell'Università di Umea. Gli studi presi in esame stimano la crescita dell'epidemia sulla base dei casi di Covid-19 osservati in Cina e sulla base di modelli statistici e matematici. Se le prime ricerche indicavano una trasmissibilità del coronavirus relativamente bassa, in seguito questo valore è cresciuto rapidamente per stabilizzarsi intorno a 2-3 negli studi più recenti. «Guardando allo sviluppo dell'epidemia», ha aggiunto Rocklov, «la realtà sembra andare di pari passo o addirittura superare il valore massimo di crescita dell'epidemia dei nostri calcoli. Nonostante tutti gli interventi e le attività di controllo, il coronavirus si è già diffuso più di quanto non abbia fatto la Sars».
La nemesi di Burioni: da bullo web a bullizzato
Il coronavairus (come lo chiama Luigi Di Maio, che ha studiato a Cambridge) non deve preoccupare. L'importante è riempire i ristoranti cinesi e considerare analfabeti senza speranza coloro che preferiscono gli spaghetti al sugo cucinati in casa. E chi la pensa in modo diverso? Ovviamente è un minus habens, un bieco sovranista da sciogliere nell'acido del disprezzo.
Per una sorta di nemesi purificatrice, a questa regola non è sfuggito neppure Roberto Burioni, il re social dei divulgatori scientifici, il pontefice massimo dei vaccini anche per i calli, che in questi giorni è al centro di una congiura di palazzo a colpi di provetta. L'infallibile medico con il ciuffo da Elvis Presley ha fatto una scoperta sconvolgente: c'è qualcuno più integralista di lui. Tutto è cominciato da un suo tweet di puro buonsenso: «Capisco benissimo che è una banalità, ma in mancanza di farmaci e vaccino in grado di rallentare l'infezione, l'unica arma per bloccare l'epidemia e sperare di vincere questo virus è l'isolamento». Come dire alla Max Catalano che «il fumo fa male e se ti tuffi in mare ti bagni». Acqua fresca a tal punto che Marco Travaglio gli ha risposto: «Per fortuna ci sono scienziati come lei sennò non ci arrivava nessuno».
Sbagliato, vergogna, cavernicoli, fascisti. Subito si è scatenata l'indignazione degli ayatollah del conformismo progressista, indignati per la conseguenza di un simile consiglio: l'isolamento delle comunità cinesi, lo spreco di involtini primavera, lo strappo al concetto di fratellanza benedetto da papa Francesco e sancito in salsa democristiana da Sergio Mattarella circondato dai bambini. Contro la massima allerta si è scagliata Roberta Villa, medico e giornalista, collaboratrice di lungo corso delle pagine di salute del Corriere della Sera. Mentre il mondo intero (dall'Onu all'Organizzazione mondiale della sanità, dall'Europa agli scienziati in prima linea) è ancora diffidente rispetto alle opacità cinesi sulle reali conseguenze dell'agente patogeno, lei twitta riferendosi a Burioni: «Quando usava gli stessi metodi dogmatici e antiscientifici sui vaccini lo sostenevano tutti perché era per una buona causa. Ora però tocca agli altri, istituzioni in primis, raccogliere i cocci dei danni che sta facendo con il suo disinformation storm».
Scaricato come un terrapiattista dunque, via la patente. Per la verità questa è una shitstorm, demolisce un'icona pop, e il Napoleone dei batteri se la merita. Chi la fa l'aspetti. Ma ad apparire singolare e ambiguo è il ragionamento che sta dietro la critica. Finché faceva il pasdaran funzionale a «una buona causa» Burioni poteva sbandierare dogmi e insultare chiunque. Al contrario, ora che non sta dentro il recinto della correctness da convegno di Riza Psicosomatica, farebbe solo danni. Sei un mito quando mi fa comodo; il metodo è scientifico, non c'è che dire. Caro professore, benvenuto nel club degli analfabeti funzionali, c'è sempre un luminare incontinente più a Nord di te.
I commenti a supporto della tesi si trasformano presto in tempesta sul Web. «Il morbo pressapochista ha infettato Burioni», scrive il sito TheSubmarine; «lo scetticismo alimenta razzismo e panico» vanno giù piatti gli adepti che la sanno lunga, vale a dire economisti renziani, finanzieri col pallottoliere, stuntmen della vita incattiviti dai social. Roberta Villa è costretta a cancellare il tweet come se fosse una voce dal sen fuggita e a spiegare in un altro intervento: «Una cosa, una, era importante anche per superare le paure nei confronti dei vaccini. Riconquistare la fiducia nelle evidenze scientifiche e nelle autorità sanitarie. E invece no: “Non ce la raccontano giusta, nascondono i dati, c'è un singolo studio che dice...". Ma perché?». L'effetto però è raggiunto e ha perfino qualcosa di biblico: il bullizzatore Burioni è stato bullizzato dai suoi seguaci.
La lite da ballatoio conferma che il tifo non è solo una malattia infettiva ma una perversione tollerabile soltanto in uno stadio. E Burioni, che sperava di rimanere dentro il perimetro del politicamente corretto interpretando le parole davvero rassicuranti del ministro della Salute, Roberto Speranza («Stiamo affrontando l'emergenza come se si trattasse di peste o colera»), si è ritrovato improvvisamente come Re Lear, solo e al freddo. Abbandonato dai follower e accusato di tradimento dalla setta degli adoratori dello Stato etico, che durante un'epidemia ti impone quando devi essere preoccupato e dove andare a cena per non sentirti un reprobo. «Bisogna affidarsi all'oggettività della Scienza», ti dicono i giusti. Dove pare che, anche se Nature non ne fa menzione, il loro parametro più oggettivo sia la buona causa.
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Un caso diagnosticato in Egitto. Si è concretizzata la paura degli scienziati: nel Continente nero i contagi sono difficili da contenere e l'escalation è probabile. Le navi delle Ong aumentano i rischi per il nostro Paese.Roberto Burioni, faro del medicalmente corretto, a epidemia scoppiata, ha detto chiaramente che l'unica è isolarsi. Apriti cielo, la sua stessa setta gli si è rivoltata contro accusandolo di oscurantismo. Ora che la crociata sui vaccini è vinta, il bastonatore non serve più.Lo speciale contiene due articoli. Il mal d'Africa da oggi non sarà più lo stesso. Covid-19 è arrivato in Egitto. La pandemia cinese ha colpito il primo paziente del Continente nero. A darne notizia è stato il ministero della Salute del Paese. Poche stringate righe per avvisare il mondo intero che l'epidemia ha trovato un nuovo, formidabile incubatore che rischia di rappresentare il detonatore di una esplosione virale molto più potente di quella - già fortissima - che è arrivata da Wuhan e che si è propagata in tutto il pianeta. E questo perché il coronavirus sarà libero di circolare e di attecchire in un continente di circa 1,2 miliardi di persone (di poco inferiore alla Cina) con un sistema sanitario del tutto impreparato ad affrontare i rigori dei protocolli di sicurezza e con strutture socio-economiche carenti e facili al contagio.Covid-19 in Africa è anche un tema di politica sanitaria internazionale perché investe il tema dei flussi migratori verso l'Europa e, soprattutto, verso l'Italia. Come si comporteranno, adesso, le Ong che sfrecciano nel mar Mediterraneo per portare frotte di disperati da una costa all'altra? Cambieranno modo di operare per la minaccia di traghettare possibili migranti infetti? Dal 5 febbraio ad oggi, secondo i dati del dipartimento della Protezione civile, in Italia sono stati controllati con i termoscanner e i termometri a pistola 1.037.225 passeggeri sbarcati in Italia con 9.046 voli internazionali. Nella sola giornata di ieri sono stati controllati 144.816 viaggiatori e 1.262 voli. Nel monitoraggio sono impegnati oltre 800 tra medici e volontari: il sistema di profilassi prevede l'impiego di squadre miste, composte da personale medico dell'Ufficio di sanità marittima aerea e di frontiera (Usmaf) e da volontari delle organizzazioni nazionali e regionali di protezione civile e della Croce rossa italiana, con il supporto dei presidi medici aeroportuali. Le organizzazioni non governative che tipo di garanzia possono offrire, anzitutto a quanti collaborano con loro, e poi a chi accoglierà i profughi? Adotteranno misure di prevenzione o si affideranno alla buona sorte? E soprattutto: quanto è compatibile con questo scenario il sistema delle Ong?Le autorità statali africane sono del tutto impreparate a gestire la complessa macchina degli aiuti e dei soccorsi. Basterebbe pensare che il governo ugandese ha affermato, proprio ieri, che è troppo costoso noleggiare un aereo per riportare a casa i circa 105 studenti bloccati a Wuhan. Secondo quanto riferiscono i media locali, ai ragazzi è stato già inviato del denaro. Una soluzione che in realtà non risolve nulla. Ieri il ministro della Sanità, Jane Ruth Aceng, ha dichiarato ai parlamentari che l'Uganda non ha conoscenze né una struttura specializzata per gestire l'epidemia, ma sarebbero stati stanziati 61.000 dollari per supportare gli studenti bloccati a Wuhan, anche se non è chiaro quanto riceverà ciascuno. Alcuni ragazzi si sono infatti lamentati perché stanno finendo soldi, cibo e mascherine, lanciando una campagna sui social media con l'hashtag #EvacuateUgandansInWuhan. Il governo di Kampala ha confermato inoltre che a più di 260 viaggiatori in arrivo dalla Cina, sia cinesi sia ugandesi, è stato chiesto di autoisolarsi per due settimane. La scorsa settimana, per di più, sono state messe in quarantena circa 100 persone arrivate dalla Cina all'aeroporto internazionale della città ugandese di Entebbe. Troppo poco per poter parlare di una seria politica di prevenzione. E questo senza considerare che il coronavirus avrebbe addirittura una capacità di diffusione superiore a quella stimata finora dall'Organizzazione mondiale della sanità: il numero di persone che possono essere contagiate da un soggetto infetto sarebbe pari a 3,28 (e non compreso tra 1,4 e 2,5 come ipotizzato finora). A sostenerlo è una revisione di 12 studi, pubblicata sul Journal of Travel Medicine dall'università di Umea in Svezia, l'Heidelberg Institute of Public Health in Germania e lo Xiamen University Tan Kah Kee College in Cina. «La nostra revisione dimostra che il coronavirus è trasmissibile almeno quanto il virus della Sars, e questo dice molto della serietà della situazione», ha dichiarato Joacim Rocklov dell'Università di Umea. Gli studi presi in esame stimano la crescita dell'epidemia sulla base dei casi di Covid-19 osservati in Cina e sulla base di modelli statistici e matematici. Se le prime ricerche indicavano una trasmissibilità del coronavirus relativamente bassa, in seguito questo valore è cresciuto rapidamente per stabilizzarsi intorno a 2-3 negli studi più recenti. «Guardando allo sviluppo dell'epidemia», ha aggiunto Rocklov, «la realtà sembra andare di pari passo o addirittura superare il valore massimo di crescita dell'epidemia dei nostri calcoli. Nonostante tutti gli interventi e le attività di controllo, il coronavirus si è già diffuso più di quanto non abbia fatto la Sars».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-virus-si-diffonde-anche-in-africa-da-adesso-litalia-corre-piu-pericoli-2645154024.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-nemesi-di-burioni-da-bullo-web-a-bullizzato" data-post-id="2645154024" data-published-at="1765808670" data-use-pagination="False"> La nemesi di Burioni: da bullo web a bullizzato Il coronavairus (come lo chiama Luigi Di Maio, che ha studiato a Cambridge) non deve preoccupare. L'importante è riempire i ristoranti cinesi e considerare analfabeti senza speranza coloro che preferiscono gli spaghetti al sugo cucinati in casa. E chi la pensa in modo diverso? Ovviamente è un minus habens, un bieco sovranista da sciogliere nell'acido del disprezzo. Per una sorta di nemesi purificatrice, a questa regola non è sfuggito neppure Roberto Burioni, il re social dei divulgatori scientifici, il pontefice massimo dei vaccini anche per i calli, che in questi giorni è al centro di una congiura di palazzo a colpi di provetta. L'infallibile medico con il ciuffo da Elvis Presley ha fatto una scoperta sconvolgente: c'è qualcuno più integralista di lui. Tutto è cominciato da un suo tweet di puro buonsenso: «Capisco benissimo che è una banalità, ma in mancanza di farmaci e vaccino in grado di rallentare l'infezione, l'unica arma per bloccare l'epidemia e sperare di vincere questo virus è l'isolamento». Come dire alla Max Catalano che «il fumo fa male e se ti tuffi in mare ti bagni». Acqua fresca a tal punto che Marco Travaglio gli ha risposto: «Per fortuna ci sono scienziati come lei sennò non ci arrivava nessuno». Sbagliato, vergogna, cavernicoli, fascisti. Subito si è scatenata l'indignazione degli ayatollah del conformismo progressista, indignati per la conseguenza di un simile consiglio: l'isolamento delle comunità cinesi, lo spreco di involtini primavera, lo strappo al concetto di fratellanza benedetto da papa Francesco e sancito in salsa democristiana da Sergio Mattarella circondato dai bambini. Contro la massima allerta si è scagliata Roberta Villa, medico e giornalista, collaboratrice di lungo corso delle pagine di salute del Corriere della Sera. Mentre il mondo intero (dall'Onu all'Organizzazione mondiale della sanità, dall'Europa agli scienziati in prima linea) è ancora diffidente rispetto alle opacità cinesi sulle reali conseguenze dell'agente patogeno, lei twitta riferendosi a Burioni: «Quando usava gli stessi metodi dogmatici e antiscientifici sui vaccini lo sostenevano tutti perché era per una buona causa. Ora però tocca agli altri, istituzioni in primis, raccogliere i cocci dei danni che sta facendo con il suo disinformation storm». Scaricato come un terrapiattista dunque, via la patente. Per la verità questa è una shitstorm, demolisce un'icona pop, e il Napoleone dei batteri se la merita. Chi la fa l'aspetti. Ma ad apparire singolare e ambiguo è il ragionamento che sta dietro la critica. Finché faceva il pasdaran funzionale a «una buona causa» Burioni poteva sbandierare dogmi e insultare chiunque. Al contrario, ora che non sta dentro il recinto della correctness da convegno di Riza Psicosomatica, farebbe solo danni. Sei un mito quando mi fa comodo; il metodo è scientifico, non c'è che dire. Caro professore, benvenuto nel club degli analfabeti funzionali, c'è sempre un luminare incontinente più a Nord di te. I commenti a supporto della tesi si trasformano presto in tempesta sul Web. «Il morbo pressapochista ha infettato Burioni», scrive il sito TheSubmarine; «lo scetticismo alimenta razzismo e panico» vanno giù piatti gli adepti che la sanno lunga, vale a dire economisti renziani, finanzieri col pallottoliere, stuntmen della vita incattiviti dai social. Roberta Villa è costretta a cancellare il tweet come se fosse una voce dal sen fuggita e a spiegare in un altro intervento: «Una cosa, una, era importante anche per superare le paure nei confronti dei vaccini. Riconquistare la fiducia nelle evidenze scientifiche e nelle autorità sanitarie. E invece no: “Non ce la raccontano giusta, nascondono i dati, c'è un singolo studio che dice...". Ma perché?». L'effetto però è raggiunto e ha perfino qualcosa di biblico: il bullizzatore Burioni è stato bullizzato dai suoi seguaci. La lite da ballatoio conferma che il tifo non è solo una malattia infettiva ma una perversione tollerabile soltanto in uno stadio. E Burioni, che sperava di rimanere dentro il perimetro del politicamente corretto interpretando le parole davvero rassicuranti del ministro della Salute, Roberto Speranza («Stiamo affrontando l'emergenza come se si trattasse di peste o colera»), si è ritrovato improvvisamente come Re Lear, solo e al freddo. Abbandonato dai follower e accusato di tradimento dalla setta degli adoratori dello Stato etico, che durante un'epidemia ti impone quando devi essere preoccupato e dove andare a cena per non sentirti un reprobo. «Bisogna affidarsi all'oggettività della Scienza», ti dicono i giusti. Dove pare che, anche se Nature non ne fa menzione, il loro parametro più oggettivo sia la buona causa.
Luis «Toto» Caputo (Getty Images)
Caputo, classe 1965, cresciuto al Collegio Cardenal Newman e laureato in Economia all’Università di Buenos Aires, è il fulcro del sistema Milei. Dopo una lunga carriera tra Jp Morgan e Deutsche Bank, dov’è stato uno dei trader di riferimento per l’America Latina, entra in politica con Mauricio Macri nel 2015 come segretario e poi ministro delle Finanze, gestendo il rientro dell’Argentina nei mercati con il compromesso sui fondi avvoltoio e il celebre bond centenario (un’obbligazione da 45 miliardi di dollari con scadenza a 100 anni e cedola del 7,125%). Nell’esperienza di governo con Macri, il debito privato argentino è salito dal 16% al 38% del Pil.
Con Milei, torna al centro della scena come ministro dell’Economia dal dicembre 2023. Subito attua tagli feroci a sussidi e spesa, operazioni che riportano l’Argentina al surplus fiscale dopo anni di disavanzi.
Accanto a lui, nel ruolo di vice, c’è José Luis Daza, nato a Buenos Aires da diplomatici cileni ma formato tra Cile, Stati Uniti e i grandi desk di Wall Street. Economista dell’Universidad de Chile, con un dottorato all’Università di Georgetown, rappresentante del Banco Central de Chile a Tokyo, poi capo ricerca mercati emergenti a Jp Morgan e Deutsche Bank. Daza ha fondato l’hedge fund Qfr Capital ed è stato consigliere del candidato conservatore cileno José Antonio Kast. Dal 2024 è segretario alla politica economica e viceministro di Caputo, con il compito chiave di tenere i rapporti con il Fondo monetario internazionale e con gli investitori di tutto il mondo.
Pablo Quirno è invece il ponte tra l’universo finanziario e la diplomazia. Discendente di una storica famiglia conservatrice argentina, studia Economia alla University of Pennsylvania (Wharton) e costruisce una carriera in Jp Morgan come direttore per l’America Latina e membro del comitato di gestione regionale, seguendo privatizzazioni e ristrutturazioni di debito in mezzo mondo. Nel 2016 entra nel governo Macri come coordinatore della segreteria delle Finanze e capo di gabinetto di Caputo, passando anche dal board della Banca centrale argentina. Con Milei è prima segretario alle Finanze, poi (dopo le dimissioni di Gerardo Werthein) promosso ministro degli Esteri nell’ottobre 2025, simbolo dell’allineamento sempre più netto con gli Stati Uniti.
Infine, Santiago Bausili, 1974, anche lui formatosi al Collegio Cardenal Newman e poi all’Università di San Andrés. Per oltre undici anni in Jp Morgan e quasi nove in Deutsche Bank, si specializza in debito sovrano latinoamericano e derivati, spesso in tandem con Caputo. Nel 2016 passa al settore pubblico come sottosegretario e poi segretario alle Finanze nel governo Macri. Nel dicembre 2023 Milei lo nomina presidente della Banca centrale, dietro raccomandazione di Caputo.
La strategia del team Caputo è quella della disciplina fiscale a tutti i costi. L’obiettivo immediato è stato frenare l’inflazione, crollata da oltre il 200% all’inizio del mandato a circa il 30%. Ma il prezzo è la macelleria sociale. Pensioni, salari pubblici e prestazioni sociali non sono state adeguate all’inflazione e la disoccupazione è aumentata.
L’altro elemento critico della strategia di Caputo è la gestione della valuta argentina. Nonostante Milei avesse un tempo definito il peso «escremento», la sua amministrazione ha adottato una politica di sostegno alla valuta, mantenendo tassi di interesse elevati e controlli stretti su cambi e capitali. Questa formula, già tentata dai predecessori senza successo, ha lo scopo di stabilizzare l’inflazione in un mercato dei cambi volatile e ristretto.
Questa politica monetaria rigida ha avuto un impatto tossico sul sistema bancario. I tassi di interesse elevati hanno spinto il tasso di morosità sui prestiti ai massimi da almeno 15 anni, costringendo le banche a ridurre drasticamente l’erogazione di credito.
Il grande rischio per Caputo e la sua squadra di ex- trader è che l’accumulo di riserve in valuta forte si sta rivelando troppo impegnativo (secondo il Fmi), nonostante gli sforzi. La sopravvivenza politica di Milei, e l’efficacia dell’esperimento di Caputo, dipendono dalla capacità di tradurre l’austerità e il sostegno finanziario di Washington in prosperità per la maggioranza. Finora, l’esperimento è basato su un precario equilibrio tra disciplina finanziaria draconiana e un sostegno esterno senza precedenti, una miscela esplosiva che sta mettendo a dura prova il tessuto sociale argentino.
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Javier Milei (Ansa)
Milei, l’economista libertario dalla chioma selvatica, ha ottenuto una vittoria sorprendente nelle elezioni di medio termine a fine ottobre, un risultato che gli ha conferito un mandato inequivocabile per il suo programma di terapia shock. Il suo partito, La Libertad Avanza (Lla), ha conquistato circa il 41% dei voti a livello nazionale, doppiando la sua rappresentanza al Congresso, contro il 32% del fronte peronista. Questo risultato ha trasformato il suo gruppo nel più numeroso della Camera bassa, garantendogli la minoranza necessaria per preservare il potere di veto e difendere i suoi decreti presidenziali.
Il trionfo del partito di Milei è stato un inatteso ribaltamento del paesaggio politico. Il dato più sorprendente è che le periferie povere di Buenos Aires, da sempre la roccaforte del movimento peronista, hanno compiuto una svolta storica a sfavore del partito erede del peronismo storico, Fuerza Patria di Cristina Kirchner. I peronisti hanno governato l’Argentina per vent’anni dal 2003, salvo la pausa di quattro anni di Mauricio Macri tra il 2015 e il 2019.
Mentre gli elettori della classe media si sono mobilitati per sostenere la motosega di Milei, la chiave della sconfitta peronista è stata l’astensione o il voto contrario degli elettori più poveri, stanchi di un’instabilità economica permanente cui le fiacche politiche dei passati presidenti li condannavano. Il mandato presidenziale di Alberto Fernández, considerato quasi all’unanimità come il peggior presidente della giovane democrazia argentina, ha significato la fine della pazienza in gran parte dell’elettorato.
Il pilastro della rivoluzione di Milei è l’austerità feroce e senza compromessi. Fin dall’inizio del suo mandato, il presidente ha avviato riforme drastiche, riuscendo a trasformare un deficit fiscale primario in un surplus. Ha tagliato l’occupazione pubblica di oltre il 10%, ha tolto protezioni sociali e rendite diffuse.
Il risultato di questa cura drastica è stato l’abbattimento dell’iperinflazione, che è crollata da oltre il 200% all’inizio del suo mandato a circa il 30% al momento delle elezioni. I mercati internazionali hanno premiato questa determinazione, con il calo del rischio sovrano e un rally nei titoli e nelle obbligazioni subito dopo il voto. Tuttavia, la terapia shock ha avuto un costo sociale elevato, con Milei stesso che ha ammesso che l’austerità aveva portato alla chiusura di fabbriche e all’aumento della disoccupazione.
La scalata di Milei non sarebbe stata possibile senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump ha scommesso pesantemente sul successo del presidente, offrendo un salvataggio finanziario senza precedenti: un accordo di swap di valuta da 20 miliardi di dollari e la promessa di raccogliere altri 20 miliardi di dollari da banche private e fondi sovrani. Questo sostegno finanziario è stato esplicitamente condizionato al successo di Milei nelle elezioni di medio termine, confermando che l’Argentina è ora un alleato ideologico chiave di Washington, fondamentale per contrastare l’influenza cinese in America Latina.
La squadra economica di Milei, soprannominata i «ragazzi di Jp Morgan» per la forte presenza di ex trader di Wall Street come il ministro dell’Economia Luis Caputo, è ora impegnata in un atto di equilibrismo, cercando di stabilizzare il traballante peso e ricondurre l’Argentina sui mercati internazionali.
Milei sta capitalizzando il suo mandato non solo per aggiustare i conti, ma per smantellare lo Stato in senso profondo. Ha introdotto il regime di incentivi per i grandi investimenti (Rigi), che garantisce 30 anni di stabilità fiscale, disponibilità di valuta estera e protezioni legali agli investitori stranieri per progetti superiori a 200 milioni di dollari. Questa mossa è strategica per trasformare l’Argentina in una potenza mineraria, sfruttando le sue immense riserve inesplorate di rame e litio.
L’Argentina, che condivide la stessa catena montuosa del Cile, esportatore per 20 miliardi di dollari di rame all’anno, non esporta un solo grammo di questo metallo critico. L’obiettivo di Milei è attrarre circa 26 miliardi di dollari in investimenti per i progetti di rame, promettendo che l’Argentina «avrà dollari a sufficienza». L’Argentina, inoltre, detiene riserve significative nel Triangolo del litio ed è il quarto esportatore mondiale di questo minerale.
A riprova della sua visione radicale, l’amministrazione Milei sta rimodellando la struttura dello Stato, avvicinandola al modello di sicurezza nordamericano. La Direzione nazionale delle migrazioni è stata trasferita dal ministero dell’Interno a quello della Sicurezza. Poi, per la prima volta dal ritorno alla democrazia nel 1983, Milei ha nominato un generale, Carlos Presti, a capo del ministero della Difesa, con l’intento dichiarato di «porre fine alla demonizzazione dei nostri ufficiali, sottufficiali e soldati». Infine, il presidente sta spingendo per la privatizzazione e la modernizzazione dell’obsoleta rete ferroviaria per potenziare le esportazioni di cereali, rame e litio, aumentando le esportazioni di 100 miliardi di dollari in sette anni.
Nonostante il chiaro allineamento con Washington, Milei è costretto a un difficile pragmatismo verso Pechino, principale cliente per la soia argentina. Nonostante avesse liquidato la Cina come partner «comunista» in campagna elettorale, Milei ha dovuto riconoscerla come un «partner commerciale molto interessante» dopo la conferma di uno swap valutario multimiliardario da parte di Pechino.
Il destino politico di Milei dipende dalla sua capacità di tradurre le riforme orientate al mercato in prosperità tangibile per la maggioranza, specialmente in un momento in cui gli argentini sono preoccupati per la perdita di posti di lavoro e il calo del reddito. Le politiche deflazioniste attuate per compiacere i mercati e frenare l’inflazione hanno un costo sociale alto, quello della disoccupazione e del calo dei consumi. Milei deve quindi trovare sempre nuovi obiettivi e nuovi capri espiatori per evitare che la questione sociale esploda e faccia dell’Argentina una polveriera.
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Ansa
Secondo le prime ricostruzioni almeno due uomini vestiti di nero - mentre le autorità non escludono la presenza di un terzo complice - hanno aperto il fuoco a breve distanza dalla spiaggia, scatenando il panico tra la folla. Diversi testimoni, citati dai media locali, hanno raccontato di colpi esplosi senza sosta e di persone in fuga nel tentativo di mettersi in salvo. L’emittente pubblica Abc ha reso noto il nome di uno dei due attentatori, senza precisare se sia deceduto durante l’assalto. Si tratta di Naveed Akram, cittadino pakistano di 25 anni residente a Sydney, nel quartiere di Bonnyrigg; nella sua auto sono stati ritrovate altre armi e esplosivi, segno che il disegno era molto più ampio. Il secondo autore dell’attacco terroristico è stato identificato come Khaled al Nablusi, cittadino libanese di origine palestinese, affiliato all’Isis, che tuttavia non ha rivendicato l’attacco. Le autorità hanno confermato che almeno uno degli aggressori era noto ai servizi di sicurezza. A riferirlo è stato il direttore dell’Australian security intelligence organisation (Asio), Mike Burgess: «Uno di questi individui ci era noto, ma non con la prospettiva di rappresentare una minaccia immediata. Dobbiamo capire cos’è successo qui».
Resta aperto il nodo delle misure di sicurezza: l’assenza di un dispositivo rafforzato appare difficilmente spiegabile, considerata l’ondata di antisemitismo e le minacce contro la comunità ebraica che da mesi attraversano l’Australia. Invece di smantellare le reti estremiste, il governo ha permesso ai centri islamici legati all’ideologia radicale, tra cui l’Istituto Al Murad, di continuare a operare. Queste istituzioni hanno contribuito a radicalizzare i giovani e persino i bambini, creando le condizioni che hanno prodotto terroristi come Naveed Akram. Secondo quanto emerso, i due uomini armati sono arrivati indisturbati nei pressi dell’area dell’evento e hanno sparato per circa nove minuti utilizzando fucili a pompa Remington 870. Prima dell’intervento della polizia Hamad el Ahmed, arabo-australiano e gestore di un chiosco sulla spiaggia, ha affrontato a mani nude uno degli attentatori riuscendo a neutralizzarlo, salvando così altre vite umane. Colpito da due proiettili, è rimasto ferito e dovrà essere sottoposto a un intervento chirurgico.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato l’Australia di aver alimentato il clima di odio, affermando che il Paese «ha gettato benzina sul fuoco dell’antisemitismo» prima dell’attacco di Sydney. Netanyahu ha ricordato di aver inviato ad agosto una lettera al primo ministro Anthony Albanese. Come riportato dal Times of Israel, il premier israeliano ha sostenuto che le politiche di Albanese, incluso il riconoscimento di uno Stato palestinese, incoraggiano «l’odio per gli ebrei che ora infesta le vostre strade. L’antisemitismo è un cancro. Si diffonde quando i leader rimangono in silenzio. Dovete sostituire la debolezza con l’azione». Il presidente dell’Organizzazione sionista mondiale, Yaakov Hagoel, ha collegato la strage a una più ampia escalation globale: «La serie di aggressioni antisemite che si registrano in tutto il mondo è scioccante e richiama alla memoria i periodi più bui della storia». «Dal 7 ottobre è in corso una guerra che non colpisce soltanto lo Stato di Israele, ma ogni ebreo ovunque si trovi. Questo è diventato l’ottavo fronte di quel conflitto». Resta ora da chiarire se l’attacco sia opera di due «lupi solitari», ipotesi improbabile, o se vi sia una regia esterna.
Israele ha avviato consultazioni strategiche e di sicurezza per individuare eventuali mandanti. Negli ultimi mesi, le autorità israeliane avevano lanciato avvertimenti sulla possibile preparazione, da parte dell’Iran, di infrastrutture terroristiche destinate a colpire comunità ebraiche in Australia. Secondo le valutazioni israeliane, il principale sospettato resta Teheran, con possibili collegamenti a organizzazioni come Hezbollah, Hamas e Lashkar-e-Taiba, gruppi che negli anni hanno dimostrato capacità operative anche al di fuori del Medio Oriente; così come non va scartato l’Isis. L’ipotesi prevalente, però, è che l’Iran abbia fornito supporto logistico, finanziario o di addestramento, sfruttando reti già esistenti e canali di radicalizzazione attivi sui social media. Se dovesse emergere una responsabilità diretta di Teheran, la risposta di Israele sarà inevitabile, in linea con la dottrina di deterrenza adottata negli ultimi anni. Tempi, luoghi e modalità restano da definire ma potremmo scoprilo a breve.
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Erika Kirk (Ansa)
Le parole che ha pronunciato e sta pronunciando in televisione in queste settimane sono le migliore e più elevata risposta non solo a coloro che uccidono in nome di un Dio o di una idea, ma pure a tutti quelli che in questi mesi hanno vilipeso la memoria di Charlie, ne hanno mistificato il pensiero e le frasi.
Parlando alla Cbs, Erika ha ribadito che «l’unico modo per combattere il male, proprio come ha fatto Charlie, è attraverso il dialogo e non avendo paura di praticarlo». Quando le hanno fatto notare che Donald Trump aveva chiesto punizioni feroci per i democratici, Erika ha risposto con determinazione: «Non sarò mai d’accordo con la violenza politica». «Mio marito ne è vittima. Io ne sono vittima».
Non c’è spazio per l’odio nel cuore di Erika Kirk, c’è piuttosto il rifiuto per ogni forma di discriminazione vera, a partire dall’antisemitismo. Certo, Charlie aveva criticato la politica e gli attacchi di Israele su Gaza, ma «diceva sempre molto chiaramente che l’odio verso gli ebrei è frutto di un cervello marcio». Erika respinge dunque l’odio contro gli ebrei in quanto tali, e pure le teorie del complotto, comprese quelle sull’omicidio di suo marito. Anche per questo invita i genitori a limitare il tempo che i figli trascorrono sul Web. «Volete che vostro figlio diventi un leader di pensiero o un assassino?», domanda agli ascoltatori.
Erika risponde pure a tutti quelli che hanno giustificato più o meno direttamente l’uccisione di Charlie (e come sappiamo ce ne sono molti anche dalle nostre parti). «Vuoi guardare in alta risoluzione il video dell’omicidio di mio marito, ridere e dire che se lo merita? C’è qualcosa di molto malato nella tua anima, e prego che Dio ti salvi», dice. Quindi si rivolge ai vari commentatori e opinionisti che hanno tentato di dipingere suo marito come un odiatore, pescando qui e là fra i suoi interventi per suggerire che fosse intollerante, razzista, omofobo. «Mio marito non si lascia ridurre a due frasi...», spiega Erika. «No. Era un leader di pensiero, ed era un uomo brillante. Quindi va bene se si vogliono togliere le parole dalla sua bocca o decontestualizzarle senza dare la giusta prospettiva, ma è proprio questo il problema». Già: l’astio nei confronti di Charlie si è manifestato anche dopo la sua morte proprio attraverso la decontestualizzazione e manipolazione delle sue parole.
Hanno avuto il fegato, pure in Italia, di contestare il suo funerale, ovviamente trascurando ciò che Erika disse in quella occasione, la sua straordinaria lezione di umanità e amore. Alla Cbs ha raccontato come decise di perdonare il killer del marito. Prima di prendere il microfono e parlare al mondo si chiese: «Mi prenderò quel momento per dire: “Radunate le truppe, bruciate la città, marciate per le strade”? Oppure prenderò quel momento e farò qualcosa di ancora più grande, più potente, e dirò: “È una rinascita. E lascerò che si scateni, e lascerò che il Signore la usi in modi che nessun altro avrebbe mai potuto immaginare”?». Sappiamo che cosa abbia scelto Erika: ha respinto l’odio e scelto il perdono. E lo sceglie anche oggi: riceve ancora tonnellate di minacce di morte, ma non viene meno al suo impegno. Perché sa che solo così si può rispondere alla violenza. Mentre tutto attorno si consumano stragi, si sparge odio politico e si censurano le idee sgradite, la via di Erika resta l’unica percorribile: la più difficile, e la più forte.
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