2022-01-15
Il viaggio in Italia del nuovo Goethe del gusto
Da 40 anni il «gastronauta» Davide Paolini va alla ricerca dei sapori autentici della cucina italiana. Come i cappelletti, piatto di eccellenza del Natale, per il cui ripieno secondo l’Artusi vige il «divieto assoluto di utilizzare la carne». O le melanzane rosse.È il Gastronauta per antonomasia, quello che «ha scelto di mangiare con la propria testa, non accontentandosi dei luoghi comuni culinari». Da quasi quarantanni Davide Paolini, con i suoi racconti, ha condotto per mano i lettori golosi alla scoperta di pepite gastronomiche spesso fuori dagli schemi. I suoi ritratti di osti e trattori li pone sullo stesso piedistallo, a futura memoria, con i pluristellati della galassia di fuochi e pignatte entrate nella storia. Per oltre vent’anni le onde radio del sabato mattina, con le sue puntate de Il Gastronauta, hanno stimolato i peccatori di gola a week end golosi, senza se e senza ma, «perché si mangiano prima le storie che ci suggeriscono i vari piatti, tutto il resto è conseguente». Autore prolifico, in questi giorni è uscita la sua ultima creatura Confesso che ho mangiato, una sorta di antologia che parte da lontano. Nativo della Romagna Toscana, Galeata, poco più di duemila anime, ama definirsi «Romagnolo nel carattere, globetrotter per scelta». Un imprinting di quelli che «non lasciano alternative». Il nonno Domenico (Mingo per tutti), commerciante di carni e produttore di salumi, lo ha avviato da subito sulla strada giusta. La paghetta settimanale se la doveva guadagnare con la salatura a mano di almeno due prosciutti nelle umide cantine preposte. Gli avrà anche provocato qualche gelone agli innocenti polpastrelli, ma in cambio gli ha permesso di percepire «senza filtri» l’essenza della qualità di prodotti autentici. In casa era bandito il filetto, si viaggiava di frattaglie, un universo troppo spesso dimenticato (o rimosso) al di là delle scontate trippe d’ordinanza. Nonna Adele, ramo paterno, lo svezzava a uova sbattute con lo zucchero, rinforzando qualche volta il tutto con un bicchierino di Ferrochina Bisleri, nell’innocente convinzione che fosse il miglior propulsore a farlo crescere giovane e forte, mentre il pranzo da Teresa, la nonna materna, era basato su generose scodelle di cappelletti in brodo.Lo scorrere di molti capitoli del libro incuriosirebbe un Wolfgang Goethe del terzo millennio, in un suo ipotetico Viaggio in Italia, non più in calesse, ma con una generosa station wagon pronta a fare incetta degli svariati prodotti che il Gastronauta ci aiuta a scoprire, con le loro storie. Roba che, il più delle volte, te la devi andare a cercare in loco, troppo identitaria per stare sui bancali della Gdo. Inevitabile iniziare con i caplet (cappelletti), Terre di Romagna pura, di cui anche il più scafato gourmet pensa di essere edotto, ma forse qualche particolare, se non hai il Dna indigeno, può sfuggire. Il piatto di eccellenza del pranzo di Natale, poi ecumenicamente spalmato su calendario più ampio. La cabina di regia saldamente in mano alle azdore, madri e donne di famiglia che, la notte della vigilia, reclutavano tutta la pargolanza nell’aiutarle a confezionare degna meraviglia. Vigeva la «prova trasparenza», ovvero la sfoglia, presa tra le mani e messa controluce, doveva risultare così sottile da poter vedere l’ombra delle cose sullo sfondo. L’impasto non si pesava a ettogrammi, ma l’unità di misura recitava «ho fatto dieci uova di sfoglia». E così sia. C’era poi il «compenso», posto che era tutto volontariato familiare, ovvero degno ripieno. Qui ogni campanile le sue regole, che si possono riassumere in tre macroaree. Nella Romagna di Pellegrino Artusi «divieto assoluto di utilizzare la carne». Possibilisti nel forlivese, mentre nella godereccia costa romagnola, fin giù agli avamposti marchigiani, si può andare in deroga con farcia di maiale, vitello e cappone. A casa Paolini il compenso viaggiava di ricotta, parmigiano e raviggiolo, un prodotto fresco dei pascoli appenninici, un tempo meticcio ovicaprino, poi divenuto vaccino. Rigorosamente brodo di cappone, come ben descritto da Pellegrino Artusi nella sua ricetta numero 7. «Questa minestra, per rendersi più grata al gusto, richiede brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che, per sua bontà, si offre nella solennità del Natale in olocausto agli uomini». Ma non finisce qua. Artusi è entrato nella leggenda non solo per essere stato scrupoloso notaio di ricette, ma anche quale attento cronista del suo tempo. Infatti precisa che «nei giorni di festa troverete degli eroi che si vantano di averne mangiati cento, ma c’è il caso di crepare. Ad un mangiatore discreto ne bastano due dozzine». Il «fenomeno» non era passato inosservato, qualche decennio prima, in epoca napoleonica, al Prefetto del Rubicone, Leopoldo Staurenghi. In un’indagine commissionatagli per capire usi e costumi delle popolazioni rurali, arrivato al capitolo cappelletti annotò scrupolosamente «l’avidità di tale minestra è così generale che da tutti, e massimo dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggiore quantità», con le conseguenze poi facilmente immaginabili. Comunque, al di là del pericolo di finire in sala rianimazione per «eccessi di dose» fuori controllo, una regoletta base «il cappelletto deve finire affogato in una bella pentola fumante. Ci deve riposare un po’ dentro, perché i sapori e i profumi abbiamo il tempo di sposarsi fra di loro, per poi finire nel piatto della festa». Ecumenico… Il viaggio tra le pagine di «Goethe» Paolini prosegue goloso e, pur se rende i dovuti onori alle eccellenze nordiche (la trifola albese su tutti), marca con scrupolosità notarile le lande sudiste perché «il viaggio di scoperta non può che vedere protagonista il sud, in quanto è un campo minato dove le “bombe”, in realtà, rappresentano infinite e gustose sorprese» come può capitare in Lucania «un territorio di uomini e lupi, religiosità e magia, di baroni, principi e briganti». A iniziare dalla melanzana rossa, un prodotto meticcio arrivato sul fare degli anni Trenta nelle valigie dei migranti di ritorno dalle colonie etiopi. La sua capitale Rotonda, poco più di 4.000 residenti. Rossa come un pomodoro, può essere scambiata per un caco, ma la polpa ne conferma l’identità. Un bell’esempio di meticciamento agricolo. Se nelle terre del Negus era arancione dalla forma allungata, con il passaporto tricolore è diventata bicolore. Rossa, dalle striature verdognole, di taglia bella tonda. Le foglie, più nutrienti del frutto, ricordano gli spinaci con un retrogusto piccante. A differenza delle cugine che vanno raccolte prima della maturazione, le melanzane rosse devono essere messe nel cesto del contadino solo a maturazione avvenuta. Ne vale la pena. Emanano un profumo intenso e fruttato che rimanda al fico d’India. Al contrario delle altre, quando la si taglia a rondelle, la polpa rimane bella bianca senza scurirsi in brevissimo tempo come avviene con le cugine viola. Tra gli indigeni viene chiamata «pummadora», giusto per evitare malintesi. Fanno parte del paesaggio tanto che, se vi aggirate tra i paesi del Parco del Pollino, le potete vedere nzertate, cioè legate a grappoli e appese sotto delle tettoie ad asciugare. Molto eclettiche alla prova del fuoco. Fritte, aromatizzate con aglio e menta; a fare polpette mischiate a salsiccia e pure con il caciocavallo a valorizzare i fusilli. Non hanno preclusioni di sorta, tanto che si accompagnano bene con seppie e patate e pure ripiene ad accogliere gamberi e calamari. A un certo punto ha rischiato di estinguersi, ma è stata salvata da irriducibili appassionati che ne hanno tenuto viva, valorizzandola, la coltivazione attorno al parco del Pollino, il più esteso parco naturale nazionale, tra Calabria, Basilicata e Cilento campano.