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2021-11-18
Il Trattato del Quirinale è pronto ma il Parlamento rimane all’oscuro
Sergio Mattarella e Emmanuel Macron (Ansa)
Che belle le parole di Sergio Mattarella a Madrid. «Ogni Parlamento è tempio della democrazia. Il confronto fra diverse visioni vi trova posto, in vista di una sintesi orientata al bene comune», ha detto ieri il nostro capo dello Stato nel suo intervento davanti alle Cortes spagnole. Un luogo dove il concetto di democrazia non è certo teorico visto che pochi anni fa, nel 1981, si è misurato direttamente con un assalto armato. «Tocca ai Parlamenti colmare il divario tra la traiettoria segnata dalle aspirazioni racchiuse nei testi costituzionali e le condizioni reali, attraverso il confronto politico», ha aggiunto, «Si tratta di un compito arduo e appassionante». Ascoltando le parole di Mattarella abbiamo però dovuto riavvolgere il nastro, tornare all'incipit e verificare che il messaggio non fosse solo rivolto alle Cortes spagnole bensì anche ai nostri Senato e Camera. In effetti, «ogni Parlamento è tempio»: avevamo capito bene. Eppure qualcosa stona. Basti pensare alla legge finanziaria. Anzi alle ultime tre manovre finite in Aula con tale ritardo da rendere impossibile il funzionamento bicamerale e imporre un passaggio così a volo d'uccello da trasformare l'attività dei parlamentari in qualcosa di meramente accessorio.
Ma a stonare ancor di più c'è un tema di estrema attualità. Il prossimo 25 novembre, fra sette giorni, il premier francese Emmanuel Macron è dato a Roma. In quell'occasione si firmerà il Trattato del Quirinale che porta proprio il nome del Colle. Come La Verità ha più volte denunciato, si tratterà di un accordo bilaterale in grado di blindare i rapporti tra i due Paesi in modo indissolubile. Su temi che vanno dall'industria alla Difesa, dallo spazio fino alla pesca e alla gestione dei migranti e dei confini marittimi e terrestri. Eppure del Trattato il Parlamento non sa nulla. Non è stato minimamente coinvolto o consultato. A partire da agosto 2020, in collaborazione con la Farnesina e il Colle, sono partiti i tavoli su tutte le tematiche tranne quella della cooperazione spaziale di cui si è cominciato a discutere solo a settembre. La colonna dorsale dell'impianto servirà a creare percorsi di cooperazione così rigidi che qualunque governo ci sarà a Palazzo Chigi nei prossimi anni sarà ininfluente. Non dovrebbe essere in grado di intervenire per cambiare rotta. Ecco perché si sarebbe dovuto alzare le antenne e domandarsi perché le trattative sono praticamente un segreto di Stato. Un compito che certamente spetta al Parlamento. Ma che certamente non riuscirà a portare a termine. Nessuna cerimonia democratica dentro il tempio italiano. La lancetta dell'orologio però corre e in questi sette giorni c'è da chiedersi quale sarà la versione finale e chi metterà la faccia sul trattato, oltre che la firma.
Gli uomini di Macron nelle ultime settimane hanno chiesto di inserire un esplicito riferimento al sostegno che le parti dovrebbero perseguire per rendere l'Accordo di Parigi un elemento essenziale in tutti i tavoli internazionali sul commercio e sugli investimenti sostenuti dall'Ue. Il nostro Paese dovrebbe impegnarsi a rendere il quadro normativo internazionale, che piace ai francesi, di fatto una legge soprastante non solo alle logiche italiane ma anche a quelle dell'intera Unione. Con il rischio concreto di finire con il tagliare il ramo su cui molte aziende italiane siedono quando trattano con gli Usa o anche con altri partner asiatici che delle tematiche ambientali hanno sicuramente una visione diversa. Ma al di là degli aspetti economici, che sono basilari, si ritorna all'interrogativo di fondo sul Parlamento. Non spetta all'Aula decidere e vigilare le decisioni sugli accordi internazionali? Gli italiani hanno la memoria corta. L'attuale commissario Ue all'Economia ha portato avanti in solitudine il Trattato di Caen. Anch'esso un tentativo di definire tra Roma e Parigi relazioni privilegiate. Dove il termine privilegio è da intendere nei confronti della Francia. In quel caso, l'incontro avvenne a marzo del 2015 appunto a Caen, i contenuti miravano alla condivisione e lo sfruttamento di risorse sottomarine oltre che ai relativi interessi delle zone speciali. Il Trattato si è arenato e non è mai arrivato al Parlamento. Nel 2019 il neo ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola si disse favorevole a riaprire il tavolo. La spinta del Pd non ha portato a nulla. Per fortuna.
L'attuale Trattato in via di definizione è però molto più sottile e dunque rischioso. Pur immaginando che dovrà avere un percorso parlamentare un po' come è avvenuto ai tempi di Silvio Berlusconi con la Libia, molti passaggi dell'accordo del Quirinale non necessiteranno di ratifiche per entrare in vigore. Quelli industriali, sulla sicurezza, sulla nostra proiezione all'estero e sull'intelligence potranno essere operativi da subito. Ecco, sarebbe il caso che il Parlamento bussi a qualche porta o almeno batta un colpo.
«Prima Euronext, poi i singoli Stati»
Era attesa da tempo l'audizione in commissione finanze alla Camera dell'ad di Euronext, Stéphane Boujnah. E ieri è andato in scena a Montecitorio l'ultimo atto di quella che ricorderemo come la vecchia Borsa italiana. Boujnah, infatti, di fronte ai Parlamentari ha affrontato le tematiche relative alle strategie di consolidamento del gruppo in seguito all'acquisizione del nostro mercato finanziario. Ha di fatto confermato, tra le righe e rispondendo a una domanda della Lega, che l'Italia e gli interessi del Sistema Paese saranno di fatto messi in secondo piano per rendere grande Euronext. Anche perché ha sottolineato come sia vero che «Borsa italiana rappresenta un terzo dei ricavi del gruppo e che Milano contribuisce con una crescita dei ricavi pari al +10%». Ma «ora che i volumi medi quotidiani si avvicinano ai 12 miliardi sarà sempre più importante avere una sola testa europa» . «Nello statuto non si parla di Stati», ha infatti sottolineato. Un tempo il Parlamento, grazie alle pressione di Consob, a molti Parlamentari sfuggiva la partecipazione di Borsa Italiana allo schieramento londinese. Adesso tutti invece dovranno confrontarsi direttamente con Euronext Milano. Dopo una breve relazione introduttiva, accompagnato dal direttore finanziario Giorgio Modica e del prossimo amministratore delegato (dal 28 novembre) di Borsa italiana Fabrizio Testa, Boujnah ha ricordato che un terzo dell'intero organico sarà distribuito tra Milano, Roma e Isernia. Euronext promette anche di sviluppare investimenti in innovazione e che vi sarà la migrazione del core data center (in partnership con Aruba) da Londra a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo. Secondo l'amministratore delegato francese del gruppo l'area del capoluogo diverrà un hub fondamentale, anche se non ha spiegato come. La migrazione rappresenta il più grande investimento di Euronext e dei suoi clienti: creerà decine di posti e i lavori finiranno nel giugno 2022. Ma a fronte di questi slogan e delle rassicurazioni sull'occupazione («Sulle nuove assunzioni, nel 2024 il numero di posti di lavoro sarà uguale a quello odierno» ha detto), Boujnah ha anche dovuto ammettere che i tagli ci potrebbero essere. «Le voci girate quest'estate sui licenziamenti», ha affermato, «sono assurde, ma non possiamo essere più specifici oggi perché in Italia, come negli altri Paesi europei, prima bisogna parlare con i sindacati per cercare di organizzare le cose nella maniera più giusta. Quindi non faremo annunci né prenderemo iniziative senza prima aver parlato con chi rappresenta i lavoratori». Un modo per dire che ci saranno esuberi volontari concordati con i sindacati.
Giulio Centemero, capogruppo della Lega in commissione Finanze, ha ribadito l'importanza del mercato italiano a tutela anche delle Pmi. I responsabili di Piazza Affari dovrebbero essere italiani e l'ad dovrebbe avere un'ampia autonomia proprio in virtù della qualità e della specificità del mercato italiano. Ma, secondo Boujnah, questo discorso non tiene. Perché «Euronext è organizzazione federale: siamo uniti nella diversità». Certo, «ogni mercato ha le proprie specificità (l'Olanda è vitale sui derivati, la Norvegia sulle Pmi e sul tech)», ma Euronext è «un'organizzazione che si evolve e si cercherà di sviluppare la governance federale. Si guarda alla gente, non alla cittadinanza. Nello statuto non si parla di Stati. Euronext non distribuisce i progetti per nazioni» anche se «l'Italia sarà il territorio con i massimi investimenti» come dimostra il data center di Bergamo. Rispetto invece al progetto di acquisizione di Clearnet, il numero uno della Borsa paneuropea ha ricordato che nel 2017 «era stata acquistata al netto della fusione che però non è avvenuta, ma oggi i rapporti sono buoni». Chi ha ascoltato l'audizione ha definito Boujnah, «un ottimo commerciale. Tanti slogan. Speriamo ci sia anche sostanza».
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Il testo, mai visto dall'Aula, sottoscritto fra 7 giorni. Molte parti saranno subito effettive, anche senza ratifica Mattarella celebra le Camere «templi della democrazia», eppure consente la firma senza alcuna votazioneStéphane Boujnah, il francese a capo del conglomerato a cui appartiene la Borsa , in audizione annuncia investimenti e pochi esuberi. Però conferma: «No a scelte di cittadinanza»Lo speciale contiene due articoliChe belle le parole di Sergio Mattarella a Madrid. «Ogni Parlamento è tempio della democrazia. Il confronto fra diverse visioni vi trova posto, in vista di una sintesi orientata al bene comune», ha detto ieri il nostro capo dello Stato nel suo intervento davanti alle Cortes spagnole. Un luogo dove il concetto di democrazia non è certo teorico visto che pochi anni fa, nel 1981, si è misurato direttamente con un assalto armato. «Tocca ai Parlamenti colmare il divario tra la traiettoria segnata dalle aspirazioni racchiuse nei testi costituzionali e le condizioni reali, attraverso il confronto politico», ha aggiunto, «Si tratta di un compito arduo e appassionante». Ascoltando le parole di Mattarella abbiamo però dovuto riavvolgere il nastro, tornare all'incipit e verificare che il messaggio non fosse solo rivolto alle Cortes spagnole bensì anche ai nostri Senato e Camera. In effetti, «ogni Parlamento è tempio»: avevamo capito bene. Eppure qualcosa stona. Basti pensare alla legge finanziaria. Anzi alle ultime tre manovre finite in Aula con tale ritardo da rendere impossibile il funzionamento bicamerale e imporre un passaggio così a volo d'uccello da trasformare l'attività dei parlamentari in qualcosa di meramente accessorio. Ma a stonare ancor di più c'è un tema di estrema attualità. Il prossimo 25 novembre, fra sette giorni, il premier francese Emmanuel Macron è dato a Roma. In quell'occasione si firmerà il Trattato del Quirinale che porta proprio il nome del Colle. Come La Verità ha più volte denunciato, si tratterà di un accordo bilaterale in grado di blindare i rapporti tra i due Paesi in modo indissolubile. Su temi che vanno dall'industria alla Difesa, dallo spazio fino alla pesca e alla gestione dei migranti e dei confini marittimi e terrestri. Eppure del Trattato il Parlamento non sa nulla. Non è stato minimamente coinvolto o consultato. A partire da agosto 2020, in collaborazione con la Farnesina e il Colle, sono partiti i tavoli su tutte le tematiche tranne quella della cooperazione spaziale di cui si è cominciato a discutere solo a settembre. La colonna dorsale dell'impianto servirà a creare percorsi di cooperazione così rigidi che qualunque governo ci sarà a Palazzo Chigi nei prossimi anni sarà ininfluente. Non dovrebbe essere in grado di intervenire per cambiare rotta. Ecco perché si sarebbe dovuto alzare le antenne e domandarsi perché le trattative sono praticamente un segreto di Stato. Un compito che certamente spetta al Parlamento. Ma che certamente non riuscirà a portare a termine. Nessuna cerimonia democratica dentro il tempio italiano. La lancetta dell'orologio però corre e in questi sette giorni c'è da chiedersi quale sarà la versione finale e chi metterà la faccia sul trattato, oltre che la firma. Gli uomini di Macron nelle ultime settimane hanno chiesto di inserire un esplicito riferimento al sostegno che le parti dovrebbero perseguire per rendere l'Accordo di Parigi un elemento essenziale in tutti i tavoli internazionali sul commercio e sugli investimenti sostenuti dall'Ue. Il nostro Paese dovrebbe impegnarsi a rendere il quadro normativo internazionale, che piace ai francesi, di fatto una legge soprastante non solo alle logiche italiane ma anche a quelle dell'intera Unione. Con il rischio concreto di finire con il tagliare il ramo su cui molte aziende italiane siedono quando trattano con gli Usa o anche con altri partner asiatici che delle tematiche ambientali hanno sicuramente una visione diversa. Ma al di là degli aspetti economici, che sono basilari, si ritorna all'interrogativo di fondo sul Parlamento. Non spetta all'Aula decidere e vigilare le decisioni sugli accordi internazionali? Gli italiani hanno la memoria corta. L'attuale commissario Ue all'Economia ha portato avanti in solitudine il Trattato di Caen. Anch'esso un tentativo di definire tra Roma e Parigi relazioni privilegiate. Dove il termine privilegio è da intendere nei confronti della Francia. In quel caso, l'incontro avvenne a marzo del 2015 appunto a Caen, i contenuti miravano alla condivisione e lo sfruttamento di risorse sottomarine oltre che ai relativi interessi delle zone speciali. Il Trattato si è arenato e non è mai arrivato al Parlamento. Nel 2019 il neo ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola si disse favorevole a riaprire il tavolo. La spinta del Pd non ha portato a nulla. Per fortuna. L'attuale Trattato in via di definizione è però molto più sottile e dunque rischioso. Pur immaginando che dovrà avere un percorso parlamentare un po' come è avvenuto ai tempi di Silvio Berlusconi con la Libia, molti passaggi dell'accordo del Quirinale non necessiteranno di ratifiche per entrare in vigore. Quelli industriali, sulla sicurezza, sulla nostra proiezione all'estero e sull'intelligence potranno essere operativi da subito. Ecco, sarebbe il caso che il Parlamento bussi a qualche porta o almeno batta un colpo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-trattato-del-quirinale-e-pronto-ma-il-parlamento-rimane-alloscuro-2655755423.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prima-euronext-poi-i-singoli-stati" data-post-id="2655755423" data-published-at="1637186842" data-use-pagination="False"> «Prima Euronext, poi i singoli Stati» Era attesa da tempo l'audizione in commissione finanze alla Camera dell'ad di Euronext, Stéphane Boujnah. E ieri è andato in scena a Montecitorio l'ultimo atto di quella che ricorderemo come la vecchia Borsa italiana. Boujnah, infatti, di fronte ai Parlamentari ha affrontato le tematiche relative alle strategie di consolidamento del gruppo in seguito all'acquisizione del nostro mercato finanziario. Ha di fatto confermato, tra le righe e rispondendo a una domanda della Lega, che l'Italia e gli interessi del Sistema Paese saranno di fatto messi in secondo piano per rendere grande Euronext. Anche perché ha sottolineato come sia vero che «Borsa italiana rappresenta un terzo dei ricavi del gruppo e che Milano contribuisce con una crescita dei ricavi pari al +10%». Ma «ora che i volumi medi quotidiani si avvicinano ai 12 miliardi sarà sempre più importante avere una sola testa europa» . «Nello statuto non si parla di Stati», ha infatti sottolineato. Un tempo il Parlamento, grazie alle pressione di Consob, a molti Parlamentari sfuggiva la partecipazione di Borsa Italiana allo schieramento londinese. Adesso tutti invece dovranno confrontarsi direttamente con Euronext Milano. Dopo una breve relazione introduttiva, accompagnato dal direttore finanziario Giorgio Modica e del prossimo amministratore delegato (dal 28 novembre) di Borsa italiana Fabrizio Testa, Boujnah ha ricordato che un terzo dell'intero organico sarà distribuito tra Milano, Roma e Isernia. Euronext promette anche di sviluppare investimenti in innovazione e che vi sarà la migrazione del core data center (in partnership con Aruba) da Londra a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo. Secondo l'amministratore delegato francese del gruppo l'area del capoluogo diverrà un hub fondamentale, anche se non ha spiegato come. La migrazione rappresenta il più grande investimento di Euronext e dei suoi clienti: creerà decine di posti e i lavori finiranno nel giugno 2022. Ma a fronte di questi slogan e delle rassicurazioni sull'occupazione («Sulle nuove assunzioni, nel 2024 il numero di posti di lavoro sarà uguale a quello odierno» ha detto), Boujnah ha anche dovuto ammettere che i tagli ci potrebbero essere. «Le voci girate quest'estate sui licenziamenti», ha affermato, «sono assurde, ma non possiamo essere più specifici oggi perché in Italia, come negli altri Paesi europei, prima bisogna parlare con i sindacati per cercare di organizzare le cose nella maniera più giusta. Quindi non faremo annunci né prenderemo iniziative senza prima aver parlato con chi rappresenta i lavoratori». Un modo per dire che ci saranno esuberi volontari concordati con i sindacati. Giulio Centemero, capogruppo della Lega in commissione Finanze, ha ribadito l'importanza del mercato italiano a tutela anche delle Pmi. I responsabili di Piazza Affari dovrebbero essere italiani e l'ad dovrebbe avere un'ampia autonomia proprio in virtù della qualità e della specificità del mercato italiano. Ma, secondo Boujnah, questo discorso non tiene. Perché «Euronext è organizzazione federale: siamo uniti nella diversità». Certo, «ogni mercato ha le proprie specificità (l'Olanda è vitale sui derivati, la Norvegia sulle Pmi e sul tech)», ma Euronext è «un'organizzazione che si evolve e si cercherà di sviluppare la governance federale. Si guarda alla gente, non alla cittadinanza. Nello statuto non si parla di Stati. Euronext non distribuisce i progetti per nazioni» anche se «l'Italia sarà il territorio con i massimi investimenti» come dimostra il data center di Bergamo. Rispetto invece al progetto di acquisizione di Clearnet, il numero uno della Borsa paneuropea ha ricordato che nel 2017 «era stata acquistata al netto della fusione che però non è avvenuta, ma oggi i rapporti sono buoni». Chi ha ascoltato l'audizione ha definito Boujnah, «un ottimo commerciale. Tanti slogan. Speriamo ci sia anche sostanza».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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