2022-04-30
Il tour delle Lady Azov organizzato dall’ex portavoce delle Pussy riot
Le «Lady Azov» a Porta a Porta. (Getty Images)
Le trasmissioni televisive ospitano le mogli dei combattenti asserragliati a Mariupol. L’operazione è gestita da Petya Verzilov, attivista ed ex marito della leader del collettivo femminista e blasfemo.A differenza di numerose altre attività di intrattenimento, il circo bellico mediatico non conosce crisi e ogni giorno mette in scena nuovi spettacoli a base di dolore e morte. Dopo i dibattiti sui forni crematori, le fosse comuni e il genocidio, la rappresentazione del dolore raggiunge ora una nuova frontiera. Sugli schermi e sui giornali appaiono ora le mogli dei combattenti, le giovanissime donne di Azov, invitate per piangere in diretta i loro mariti e compagni attualmente barricati nella acciaieria Azovstal di Mariupol. A Porta a Porta e poi di nuovo all’Aria che tira abbiamo visto Kateryna Prokopenko, moglie di Denis, capo del reggimento Azov. Con le lacrime agli occhi ha raccontato del marito e dei suoi camerati rinchiusi da due mesi nella fabbrica, dove sarebbero rintanati 600 militari e circa 1.000 civili. Assieme a lei è apparsa anche Yulia Fedosiuk, moglie di Arseniy, pure lui guerriero di Azov, e già assistente parlamentare di un esponente del partito di Zelensky (giusto per ricordare quali siano i legami politici). Yulia ha ribadito che gli uomini del fu battaglione ora reggimento non sono nazisti, ma esibiscono simboli antichi che richiamano l’amor patrio e la volontà di battersi fino alla fine. Quanto all’esfiltrazione dalla fabbrica, le due donne chiedono che i militari e i civili vengano fatti uscire assieme, e che sia garantita loro la sopravvivenza. Quest’ultimo particolare fa pensare che nella acciaieria le persone comuni siano una sorta di scudi umani volontari, amici, famigliari ed ex dipendenti intenzionati a proteggere Azov con i loro corpi. È ovviamente impossibile non provare dolore quando si osservano due giovani donne che rischiano di perdere i loro giovani uomini. I loro occhi lucidi e i loro volti tesi dovrebbero forse spingerci a riflettere sulla bruta realtà della guerra. Loro sono la dimostrazione di che cosa significhi, in concreto, combattere fino alla morte. È prima di tutto a loro che dovrebbero rendere conto i tanti guerrafondai da tinello di casa nostra, che la sparano grossa e lasciano che siano altri a crepare. Purtroppo, l’esibizione delle due donne serve soltanto ad alimentare il già alto tasso di emotività presente sui media. Il quale a sua volta serve a sostenere l’unica posizione oggi considerata accettabile dal pensiero prevalente (cioè la totale condiscendenza all’invio di armi utili a fare proseguire il sanguinoso conflitto e a fare morire altra gente). A questo proposito, è interessante notare chi sia l’organizzatore del tour televisivo delle due giovani mogli. Si tratta di Petya Verzilov, 34 anni, attivista russo-canadese. Costui è noto per essere l’ex marito di Nadezhda Tolokonnikova, battagliera componente delle Pussy Riot. Nadezhda nel 2012 è stata condannata a due anni di reclusione per teppismo e odio religioso dopo una esibizione provocatoria nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, salvo poi essere amnistiata nel 2013. L’ex marito Petya ha operato come portavoce informale delle Pussy Riot e alcuni anni fa ha denunciato di essere stato vittima di un avvelenamento (ovviamente da parte dei putiniani), anche se sulla faccenda non è mai stata fatta chiarezza fino in fondo. Che cosa c’entrino gli attivisti russi anti Putin sostenuti dall’Occidente con Azov e la guerra ucraina non è chiarissimo, e viene da pensare si tratti di una campagna di comunicazione ben studiata da oppositori professionali del regime russo. Militanti che negli anni passati si sono mobilitati ripetutamente per sollevare accuse di violazione dei diritti Lgbt da parte delle autorità moscovite. Tutto legittimo, come no. Il punto è che in questo modo la battaglia politica contro Putin si sovrappone e in parte oscura la realtà del conflitto. Per puntate alla destabilizzazione del presidente russo si dimenticano i morti in terra ucraina e si fornisce una ricostruzione molto parziale e - appunto - emotiva della guerra. Si versano lacrime e si dà spazio alle storie dolorose, ma si presta molto meno attenzione ad alcuni fatti riportati da inviati coraggiosi e precisi e del più recente report di Human Rights Watch sui fatti di Bucha. E se è vero che la Ong umanitaria ha stigmatizzato «16 uccisioni illegali di civili comprese 9 esecuzioni sommarie e 7 omicidi indiscriminati» da parte dei russi, è anche vero che ha ridimensionato molto i racconti sulle fosse comuni. Il rapporto di Human Rights Watch riporta le dichiarazioni di Serhii Kaplychnyi, addetto comunale di Bucha. Costui ha reso noto di aver dato ordine di scavare la fossa comune vicino alla chiesa di Sant’Andrea onde avere più spazio per seppellire i morti. Che cosa significa? Che le atrocità in guerra vengono commesse sicuramente dai più forti e qualche volta anche dai più deboli (l’Ocse ha avuto qualcosa da ridire sul trattamento riservato dagli ucraini ai prigionieri). Ma allargare l’obiettivo su un lato solo e fare riferimento costante a fosse comuni, forni e genocidi, serve a creare un legame immediato con passati orrori della storia. In soldoni: fare capire che la morte è il frutto della guerra può fare pensare che sia giusto terminare subito il conflitto. Instillare l’idea che Putin stia organizzando un nuovo Olocausto significa spingere l’opinione pubblica a desiderare l’annientamento della Russia, e dunque la continuazione delle ostilità. I giornalisti che provano a fare notare questi particolari vengono accusati spesso di essere pericolosi putiniani, e si prova a toglierli di mezzo. Così si lascia il campo libero ad attivisti politici e agitatori mediatici che hanno tutto l’interesse a fare lavorare il circo del dolore. Creano un bello spettacolo, come no: solo che a farsi divorare dai leoni mandano i poveri cristi.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)