
Il portavoce Thomas Wüppesahl rompe il silenzio sui danni causati dall'accoglienza a tutti i costi. Arruolati stranieri che non sanno il tedesco, disprezzano le colleghe e coprono i reati riconducibili alle etnie dell'area islamica.«In base alle nostre indagini supponiamo che sei o anche dieci nostri colleghi siano implicati nel circuito dei clan arabi». Lo dichiara il portavoce federale dell'Associazione degli agenti di polizia tedesca, Thomas Wüppesahl, sottolineando come per alcuni agenti «i rapporti familiari siano più importanti dello Stato di diritto» e questo finisce in certi casi con il frenare le indagini sui crimini, sempre più numerosi, dei clan che la stampa tedesca definisce «arabi» (in realtà principalmente turchi e in secondo luogo riconducibili ad altre etnie dell'area islamica). La dichiarazione di Wüppesahl fa riferimento a un numero limitato di agenti, ma nello stesso tempo infrange il tabù del silenzio riguardo a una realtà scomoda, che l'ideologia dell'accoglienza a tutti i costi aveva cercato ostinatamente di negare. Oggi si può dire finalmente a voce alta ciò che già nel 2017 un funzionario di polizia, coprendosi con l'anonimato, aveva evidenziato: «Insegno da anni all'accademia di polizia», diceva, «e non ho mai sperimentato niente di simile. La mia aula composta per metà da arabi e turchi è un inferno».In cosa consisteva l'inferno? Il quotidiano Die Welt, che aveva registrato il messaggio anonimo proveniente dal quartiere Spandau di Berlino, faceva riferimento a scontri tra gruppi etnici all'interno della scuola di polizia, a cattive relazioni tra allievi tedeschi e allievi stranieri. Questi ultimi, peraltro, risultano sovrarappresentati nei quadri degli aspiranti agenti: un 30% di ragazzi di origini stranieri rispetto a una media del 12% nella città di Berlino. La voce anonima alludeva al fatto che spesso venivano arruolati giovani che neppure sapevano bene il tedesco, che tendevano a disprezzare le colleghe di sesso femminile in base a quella che è la formazione culturale d'origine. Concludeva la gola profonda della Polizei: «Questi non sono colleghi, il nemico è già nei nostri ranghi». Inutile dire che l'agente che si era rivolto a Die Welt in anonimato era stato rintracciato e interrogato dalla stessa Polizia, per verificare se nella sua denuncia non si ravvisasse l'immancabile reato di xenofobia. Oggi però l'acuirsi di certi fenomeni fa venire allo scoperto chi li denuncia. La politica stessa ha peraltro messo la lotta ai clan organizzati «arabi» ai primi punti nell'agenda dei problemi e a metà gennaio le indagini sul tentato rapimento dei figli del rapper tedesco-tunisino Bushido hanno definitivamente portato alla ribalta la realtà che qualcuno in passato ha tentato di nascondere: il mondo sommerso delle complicità tra poliziotti (di origine straniera) e criminalità multietnica. Wüppesahl finisce col dare ragione allo sfogo anonimo dell'agente: il problema è a monte, nei criteri di selezione del personale. Gli standard di qualità, nel paese del perfezionismo, si sarebbero negli ultimi anni drammaticamente abbassati: «Molti di quelli che ora vengono addestrati come agenti di polizia non sarebbero stati accettati 20 o 30 anni fa». Risultato: scarsa disciplina, scarsa padronanza della lingua tedesca e comportamenti ben poco teutonici. Si pensi al tirocinante di polizia che qualche settimana fa è stato beccato per le strade di Berlino a guidare ubriaco, senza patente e con un'auto non assicurata. Ma che consistenza può assumere il fenomeno delle infiltrazioni criminali etniche all'interno della Polizei? Lo chiediamo a Luca Steinmann, analista di Limes per le questioni tedesche e le dinamiche multiculturali: «Forse sono esagerati questi sospetti di contiguità tra poliziotti di origini straniera e i clan: erano gli stessi sospetti che aleggiavano attorno ai poliziotti italo-americani negli Usa degli anni Venti. Il vero problema è più generale e riguarda la perdita di legittimità e di presenza dello Stato in alcune aree delle grandi città, dove sorge una società parallela, si parlano in prevalenza lingue straniere e si scontrano i vari clan criminali. Delicato il caso della numerosa minoranza turca, fortemente legata al governo di Ankara, che a sua volta persegue una politica di aperta «nazionalizzazione» delle comunità turche nel mondo».La polizia vive di riflesso quello che è un problema generale della società tedesca. Il multiculturalismo smette di essere un Eden e i giornali fanno titoli che sfidano il politicamente corretto. Il Tagesspiegel, il più diffuso quotidiano della capitale, titola: Berlin wir arabischer, Berlino diventa sempre più araba. Un'«alienazione» che non lascia intravedere i frutti sperati del multiculturalismo: i clan si dividono i quartieri. Quando compiono atti di violenza non è tanto per ragioni di profitto economico, ma per imporre una misura di rispetto e di supremazia: marcano il territorio. Sia per ragioni linguistiche, che di chiusura di clan, è difficile entrare nelle logiche di queste società parallele - sottolinea il Frankfurter Allgemeine Zeitung in una sua inchiesta - e ottenere informazioni. Per questo sarebbe indispensabile avere agenti fidati che abbiano origini compatibili con quelle dei clan. Qui però si torna al discorso di partenza: invece di infiltrare poliziotti nei clan, sembra che stia accadendo il contrario, secondo la denuncia dei sindacati di polizia: sono i clan arabi a far entrare in accademia propri giovani per farli diventare Polizisten, sempre memori del fatto che «i rapporti familiari sono più importanti dello Stato».
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