- Giorni di titoloni sull’Italia maglia nera del gettito Iva. Peccato che il report della Commissione prendesse in considerazione il 2020, l’anno del lockdown. Con mezzo Paese chiuso, per forza che sono entrate meno imposte. Ma non era colpa dei furbetti.
- Ma quali furbetti: contante usato per meno della metà dei pagamenti. Nel 2019 eravamo poco sopra la media europea. La pandemia ha spinto l’uso delle carte.
Giorni di titoloni sull’Italia maglia nera del gettito Iva. Peccato che il report della Commissione prendesse in considerazione il 2020, l’anno del lockdown. Con mezzo Paese chiuso, per forza che sono entrate meno imposte. Ma non era colpa dei furbetti.Ma quali furbetti: contante usato per meno della metà dei pagamenti. Nel 2019 eravamo poco sopra la media europea. La pandemia ha spinto l’uso delle carte.Lo speciale comprende due articoli.Nella polemica tutta italiana relativa all’uso dei contanti e alla supposta evasione fiscale a esso legata vengono reclutate strumentalmente anche le istituzioni europee. Due giorni fa, sono comparsi grossi titoli di giornale su un tema tanto caro a una certa trita visione del mondo, quella del «quanto ci costa» questo o quel cattivone. Nel caso specifico, si riportavano i dati della cosiddetta evasione dell’Iva in Italia, riferendo con strepito numeri assoluti senza un minimo di contestualizzazione. «Evasione, il record italiano»: il dato, nudo e crudo, riportato da alcuni giornali con grande scandalo è che in Italia nel 2020 si sono «evasi» 26,2 miliardi di euro di Iva. In Francia 14 miliardi e in Germania 11,1. Dunque, la solita caricatura dell’Italietta «evasora», allergica alle regole e affetta dal mitico familismo amorale. Una bandiera utile alla battaglia politica di retroguardia per ostacolare l’uso del contante e imporre i pagamenti elettronici.Il primo ad accorgersi che qualcosa non funzionava in questi numeri è stato Franco Bechis, che sul sito di Verità & Affari ha fatto notare che prendere il 2020, anno di pesanti lockdown, come riferimento per qualsiasi calcolo di questo tipo è come minimo fuorviante. Tanto più, argomenta Bechis, che c’è un documento della Banca d’Italia («Questioni di economia e finanza n. 669») in cui si fa notare come invece, a fronte di un calo dei consumi delle famiglie dell’11%, gli incassi dell’Iva sono scesi solo del 6%. Cioè la compliance Iva (Vat, in inglese) è in realtà migliorata proprio nel 2020. Questo è un dato che in effetti si trova nel report ufficiale della Commissione («Vat gap in the Eu») e come quasi sempre capita in questi casi, c’è da chiedersi se qualcuno lo abbia letto davvero. Noi l’abbiamo fatto e due cose emergono chiaramente. Primo, le entrate attese dell’Iva per il 2020, per come sono calcolate, non tengono conto integralmente del calo del giro d’affari dovuto al lockdown, che peraltro in Italia è stato più lungo che altrove. Secondo, il report della Commissione sull’Italia è in realtà assai positivo, perché sul 2020 mostra un netto miglioramento rispetto al 2019, mentre i dati preliminari del 2021 sono addirittura ottimi.Sul primo tema, va chiarito che il report analizza il gettito reale (Vat revenue) rispetto a un gettito atteso (Vttl, ovvero Vat total tax liability). Quest’ultimo è calcolato attraverso una serie corposa di parametri stimati. È un tipico approccio top-down, come dichiarato in maniera trasparente anche nelle analisi della Commissione contenute nel rapporto. Pur essendo stata aggiustata sul 2020, la stima di questo numero non può certo tenere conto del reale calo del giro d’affari complessivo dovuto al lockdown, che in Italia è stato più lungo e severo che in altri paesi e che ha avuto implicazioni profonde. Il Vttl del 2020, dunque, cioè il gettito Iva atteso, nel report della Commissione facilmente risulta sovrastimato rispetto alla realtà. Quello del 2019 era stimato in 142,5 miliardi di euro, mentre quello del 2020 è stato stimato in 125,8 miliardi di euro (-11%). Rispetto a questo dato, afferma il rapporto, il gettito reale è stato di 99,7 miliardi, in calo dai 111,5 del 2019 (-10%). Però (sorpresa!) se passiamo ad analizzare il Vat compliance gap, cioè l’indicatore di mancato gettito rispetto alle attese, osservando il dato in prospettiva storica, si nota come il mancato gettito sia in realtà in calo e nel 2020 sia sceso di un punto percentuale rispetto al 2019 (da 31 a 26,2 miliardi in valore assoluto). Cioè il gettito reale rispetto alle attese è salito. Si tratta di una tendenza in atto almeno dal 2016: da allora al 2020 il gettito reale è migliorato del 5,7%. Nel 2020, si tratta soprattutto degli effetti dei nuovi obblighi di reportistica, cioè della fatturazione elettronica, ma anche del fatto che nella spesa dei consumatori finali si è molto allargata la parte online, dove la compliance è scontata.C’è di più, però. Il Vat compliance gap, cioè, ripetiamo, il mancato gettito rispetto alle attese, non è tutto relativo a evasione. Lo stesso commissario Paolo Gentiloni, presentando il rapporto tre giorni fa, ha detto che dei 93 miliardi di mancato gettito relativo a tutta l’Unione, solo circa un quarto è relativo a frodi. Nel Vat compliance gap, infatti (pagina 18 del rapporto della Commissione), confluiscono anche i mancati gettiti relativi a insolvenze, fallimenti, errori amministrativi e ottimizzazioni fiscali legali. Dei 26 miliardi (stimati) di mancato gettito, quanti sono relativi a insolvenze e fallimenti in un anno come il 2020, dove il lockdown ha falciato negozi e piccoli imprese? Ragionevolmente, parecchi.Un’occhiata ai dati preliminari del 2021, poi, aggiunge elementi gustosi. A fronte di un Vttl (gettito atteso) stimato in 133,8 miliardi, le entrate da Iva (Vat revenue) sarebbero nel 2021 ben 120,8 miliardi. Il Vat compliance gap, cioè, si ridurrebbe nel 2021 al 9,7%, più che dimezzandosi rispetto al 2020.Ai fini della polemica politica contingente è stato usato un dato di un anno del tutto particolare, il 2020, evitando di contestualizzarlo e di metterlo in prospettiva. Lo si è attribuito tutto all’evasione mentre in realtà contiene altre casistiche importanti. Il bersaglio di queste polemiche è la manovra del governo, naturalmente: il tentativo di dipingere l’esecutivo come amico degli evasori è palese. Chi maneggia i numeri sa che ai numeri si può far dire quasi tutto ciò che si vuole. Almeno fino a quando si viene scoperti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-record-di-evasione-iva-era-una-bufala-2658947659.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-quali-furbetti-contante-usato-per-meno-della-meta-dei-pagamenti" data-post-id="2658947659" data-published-at="1670704483" data-use-pagination="False"> Ma quali furbetti: contante usato per meno della metà dei pagamenti A seguito delle polemiche sull’innalzamento del tetto al contante voluto al governo Meloni, gli italiani sono spesso stati spesso dipinti come utilizzatori quasi esclusivi del cash. Al contrario, l’Italia si mostro solo di poco sopra la media europea. Lo si evince da un’indagine statistica della Bce condotta nel 2019, secondo cui, nel Vecchio continente, le banconote erano usate in media per il 73% delle transazioni, pari al 48% del valore monetario complessivo. In Italia, la media era sì più alta, ma non di molto. Si parlava di valori pari all’82% delle transazioni e al 58% del valore complessivo. Più in dettaglio, il dato si è mostrato in calo di 11 punti percentuali rispetto al 2016, e sembra che si sia ulteriormente ridotto negli anni della pandemia, che hanno costretto i cittadini a fare maggiore ricorso ai pagamenti elettronici, per gli acquisti online o per ragioni igieniche. L’idea, in più, è che il cambiamento sia così in parte penetrato nella consuetudine anche a livello culturale. Secondo dati più recenti rispetto a quelli della Bce, infatti, nel 2021, su 884 miliardi di euro di consumi in Italia, il 48% è stato pagato in contanti. A rilevarlo è uno studio dell’Osservatorio innovative payments del politecnico di Milano, secondo il quale i pagamenti elettronici sono stati effettuati principalmente per importi medio-bassi: l’80% delle transazioni digitali ha riguardato infatti un importo medio di 47,5 euro. La tendenza sembra in aumento, stando ai dati ancora parziali del primo semestre 2022 (+19% del numero di transazioni e + 22% del valore complessivo), che contengono in minima parte gli effetti dell’obbligo per gli esercenti di accettare i pagamenti elettronici, introdotto a giugno. Va inoltre considerato che, su 27 Paesi membri dell’Ue, dieci non hanno alcun tetto al contante. Si tratta di Austria, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Svezia, Finlandia, Ungheria, Estonia e Cipro. Tutti gli altri hanno fissato limiti molto variabili tra loro, che vanno dai 15.000 euro della Croazia ai 1.000 di Francia e Spagna, fino ai 500 euro della Grecia. L’Italia, da parte sua, si appresta a innalzare il tetto da 2.000 a 5.000 euro, norma che entrerà in vigore con la legge di bilancio. La misura ha fatto molto discutere, almeno quanto l’eliminazione dell’obbligo per gli esercenti di accettare pagamenti elettronici sotto i 60 euro, soglia che potrebbe essere modificata durante l’iter parlamentare della manovra. D’altronde è lo stesso Consiglio Ue ad aver fissato di recente il tetto al contante a 10.000 euro. Come ha sottolineato Zbynek Stanjura, ministro delle Finanze della Repubblica Ceca (presidente di turno dell’Ue), «i terroristi e coloro che li finanziano non sono benvenuti in Europa. Per riciclare il denaro sporco, i singoli criminali e le organizzazioni criminali hanno dovuto cercare lacune nelle nostre norme vigenti, che sono già piuttosto rigorose. Ma la nostra intenzione è di colmare ulteriormente queste lacune e applicare norme ancora più rigorose in tutti gli Stati membri dell’Ue. I pagamenti in contanti di importo elevato, oltre i 10.000 euro, diventeranno impossibili. Sarà molto più difficile cercare di mantenere l’anonimato quando si acquistano o si vendono criptoattività. Non sarà più possibile nascondersi dietro vari livelli di proprietà delle società. Diventerà difficile anche riciclare denaro sporco attraverso gioiellieri o orafi».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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