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2021-01-26
Il pressing di Zinga fa cedere l’avvocato. Ma il Pd è pronto anche ad altri scenari
Romano Prodi (Antonio Masiello/Getty Images)
Dal Nazareno si sono fatti sentire in tanti negli ultimi giorni. Dario Franceschini, capo della delegazione pd al governo, ha indicato la linea per primo: dimissioni di Giuseppe Conte, appello a un governo di «salvezza nazionale» o formule analoghe, apertura ai responsabili e brandelli di centristi. Nicola Zingaretti, il segretario, ha fatto un pressing sfiancante sul premier ricordandogli che «il Pd è l'unica forza responsabile» e che «non vuole elezioni anticipate» né galleggiare in balia degli umori di Clemente Mastella. Non solo, una volta saputa la notizia che Giuseppi questa mattina sarebbe andato al Quirinale, il segretario dem ha twittato, come per rassicurarlo: «Con Conte per un nuovo governo chiaramente europeista e sostenuto da una base parlamentare ampia, che garantisca credibilità e stabilità per affrontare le grandi sfide che l'Italia ha davanti». Francesco Boccia, il ministro incaricato di mediare con le Regioni, ha fatto capire che dalle parti del suo partito sarebbero stati disponibili perfino a rimettersi seduti attorno a un tavolo con Matteo Renzi: «Noi ci siamo sempre stati, lui lo sa». Il problema è non farlo sotto la minaccia di un ricatto. Un tweet del capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, ha lanciato un invito: «Per rilanciare la legislatura e l'attività di governo fermiamo la guerra e ragioniamo».
Insomma, nella strategia del Pd la via crucis di Conte verso le dimissioni al Quirinale era segnata. Ma la spallata decisiva all'avvocato del popolo è arrivata da lui, il prevosto del Pd. Romano Prodi ha vergato domenica un editoriale sul Messaggero che racconta la crisi «vista da Bruxelles». Lui a Bruxelles non ci vive più da tempo, il quinquennio da presidente della Commissione europea è finito 15 anni fa, ma è sempre il portavoce più informato dei voleri dei signori Ue. Lui vede l'Italia dall'unico punto di osservazione possibile, quello dei poteri forti comunitari. E il messaggio che arriva dalle cancellerie è chiaro: «Per essere sintetico», taglia corto Prodi, «la crisi italiana spaventa l'Europa».
Il terrore non riguarda tanto le formulette del governo, ma il cash, i soldi, il destino del fiume di euro che sta per valicare le Alpi sotto il nome di Recovery fund. Dunque, che fare per tranquillizzare i partner che si apprestano ad aprire il portafoglio? Mister Euro non risparmia i suoi saggi consigli. Serve «un governo in grado di rispondere positivamente all'allarme dei nostri partner», con un programma di «quattro o cinque progetti di riforma indispensabili per unirci alla comune strategia di ripresa». Provvedimenti «urgenti e necessari sui quali è concretamente possibile trovare un largo consenso». E quali sono questi punti, secondo Prodi? Nell'ordine: riduzione dei tempi della giustizia, riorganizzazione della scuola, riforma fiscale, revisione del codice degli appalti, semplificazione della burocrazia.
L'ex premier si spinge fino a disegnare il perimetro della nuova coalizione: una «necessaria aggregazione politica non solo del Parlamento, ma delle forze sociali, che, a differenza di altri momenti storici, si sono mantenute singolarmente al margine del processo politico delle scorse settimane». Questa è una bella tirata d'orecchi all'assolutismo di Conte che si è abituato ai dpcm e non sente più nessuno quando si tratta di prendere decisioni. «Quando il governo da me presieduto si propose di portare l'Italia nell'euro», ricorda il Professore, «non disponeva certo di una maggioranza larga e omogenea, ma fu in grado di raccoglierla e renderla compatta proponendo al Parlamento un obiettivo voluto dalla maggioranza degli italiani». Oggi, secondo il ventriloquo di Bruxelles, «è possibile aggregare una solida maggioranza parlamentare e non una coalizione di reduci tenuta insieme solo per finire la legislatura». E qui arriva anche la tirata d'orecchi ai compagni del Pd, che pur di arrivare al 2023 sono disposti a tirare a campare con Lello Ciampolillo, Renata Polverini e Maria Rosaria Rossi.
Giustizia, scuola, fisco, appalti, burocrazia. In Italia se ne parla da una vita ma non si riesce a combinare nulla, figurarsi cosa riuscirebbe a fare Conte con la sua collezione di Ciampolilli. È un programma di legislatura, anzi di un paio di legislature. Ci vogliono anni di lavoro e di maggioranze d'acciaio per rifare il Paese. E ci vuole soprattutto un garante che tiri le redini, detti i tempi, scriva le agende e non tagli i ponti con gli amici di Bruxelles. Ci vuole uno che faccia quello che dice Prodi. Anzi, per farla breve, ci vuole Prodi. Proprio lui, solo lui. La sostanza è che l'uomo dei poteri forti europei si propone come il tramite tra il prossimo esecutivo e gli interessi comunitari, il padre nobile di questo finale di legislatura e possibilmente anche della prossima. Si offre cioè come prossimo inquilino del Colle.
Quello di Prodi è un colpo di frusta al Pd. Conte non viene mai menzionato e probabilmente, secondo il Professore, dell'avvocato di Volturara Appula si potrebbe pure fare a meno. Quello che conta sono i voleri europei. Il collante del nuovo governo dovrebbe essere il Recovery fund e la coalizione che dovrebbe sostenerlo è la famosa «maggioranza Ursula», quella che ha appoggiato l'elezione della presidente della Commissione Ue e ha indotto alle dimissioni l'allora ministro Matteo Salvini, cioè Pd, 5 stelle, Forza Italia, Italia viva: a quell'epoca Renzi era ancora saldamente nel Pd. Nessuna remora nel mandare Conte a dimettersi, fa capire Prodi. E nessun riguardo nel proporre un avvicendamento a Palazzo Chigi per collocare un uomo in grado di realizzare gli elevati obiettivi che il Professore propone, in attesa di dettare ordini direttamente dal Quirinale.
Berlusconi rassicura i suoi alleati: «Noi fuori da qualunque trattativa»
Dopo una giornata concitata, ieri in serata è arrivato l'annuncio: questa mattina iI premier, Giuseppe Conte, dopo un passaggio in Consiglio dei ministri per comunicare le sue intenzioni, salirà al Quirinale per rassegnare le sue dimissioni nelle mani del presidente Sergio Mattarella. Sarà il giorno della svolta dopo l'apertura della crisi con le dimissioni dei ministri di Italia viva. La maggioranza giallorossa, azzoppata da Matteo Renzi, spera che il Colle conceda un reincarico al premier, un Conte ter che non convince la minoranza che continua a indicare come unica strada il ritorno alle urne.
Secondo Matteo Salvini le dimissioni andavano date prima perché Conte non ha i numeri». Ieri, lasciando il tribunale di Torino dopo aver testimoniato nel processo in cui è accusato di vilipendio all'ordine giudiziario, il leader della Lega ha ribadito che «l'Italia non può rimanere immobile in attesa della compravendita di senatori di notte, in cambio di non si sa cosa. La posizione della Lega è chiara. Io mi aspetto che prevalgano buonsenso e amore per il Paese. In queste settimane lo spettacolo Conte, Renzi, Di Maio, Mastella, Zingaretti, Tabacci è stato squallido. Mi auguro che se non hanno i numeri per governare, si facciano da parte».
«Il premier si dimetta e apra una fase nuova», ha ribadito ieri Maria Stella Gelmini, capogruppo a Montecitorio di Forza Italia, il partito nell'occhio del ciclone perché indicato come bacino di »responsabili».
Ma a chiudere ogni illazione sul «soccorso azzurro» lo stesso presidente Silvio Berlusconi (indicato da Salvini come possibile nuovo capo dello Stato), anche per eliminare i sospetti su Gianni Letta e Renato Brunetta, ha dichiarato: «Garantisco io l'assoluta unità del partito. Né io né miei collaboratori o parlamentari abbiamo in corso trattative di qualsiasi tipo per sostenere il governo in carica. Ci rimettiamo a Mattarella. Serve un nuovo governo che rappresenti l'unità sostanziale del Paese in questo momento di emergenza oppure bisogna restituire la parola agli italiani». Duro anche il commento sul Conte bis: «L'implosione dell'attuale maggioranza sotto il peso delle sue contraddizioni è naturale conseguenza della sua origine improvvisata e contraddittoria, che contraddiceva il responso delle urne e che era finalizzata esclusivamente a impedire al centrodestra di governare».
Da sempre convinta che la crisi si risolve soltanto con le elezioni Giorgia Meloni, che ieri mattina commentava le parole del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e del vicesegretario, Andrea Orlando, «sulla necessità di un governo autorevole, europeista e in grado di affrontare i problemi facendo un appello alla responsabilità a tutti». La leader di Fdi scriveva su Facebook: «Le parole di Zingaretti sull'ipotesi di elezioni anticipate sono perfettamente rappresentative del terrore che hanno Pd e M5s verso il voto libero dei cittadini. Con che coraggio questa gente si definisce democratica? Tranquilli, arriverà il giorno in cui dovrete rispondere davanti agli italiani delle vostre bugie e dei vostri fallimenti. Se serve un governo autorevole significa che il segretario dem ammette candidamente che l'esecutivo Conte non lo è. Fdi lo sostiene fin dall'inizio: questo governo non è all'altezza, non ha visione e non è capace di risolvere i problemi concreti degli italiani. La via maestra da seguire per dare alla nazione un governo forte, coeso e autorevole rimangono le elezioni». Senza l'alibi della pandemia visto che anche in Portogallo si voterà.
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Mentre il segretario dem auspica un nuovo governo europeista con lo stesso premier, Romano Prodi lancia l'esecutivo di unità nazionale.Matteo Salvini attacca: «I giallorossi tengono il Paese bloccato». Giorgia Meloni: «Unica via le urne»Lo speciale contiene due articoli.Dal Nazareno si sono fatti sentire in tanti negli ultimi giorni. Dario Franceschini, capo della delegazione pd al governo, ha indicato la linea per primo: dimissioni di Giuseppe Conte, appello a un governo di «salvezza nazionale» o formule analoghe, apertura ai responsabili e brandelli di centristi. Nicola Zingaretti, il segretario, ha fatto un pressing sfiancante sul premier ricordandogli che «il Pd è l'unica forza responsabile» e che «non vuole elezioni anticipate» né galleggiare in balia degli umori di Clemente Mastella. Non solo, una volta saputa la notizia che Giuseppi questa mattina sarebbe andato al Quirinale, il segretario dem ha twittato, come per rassicurarlo: «Con Conte per un nuovo governo chiaramente europeista e sostenuto da una base parlamentare ampia, che garantisca credibilità e stabilità per affrontare le grandi sfide che l'Italia ha davanti». Francesco Boccia, il ministro incaricato di mediare con le Regioni, ha fatto capire che dalle parti del suo partito sarebbero stati disponibili perfino a rimettersi seduti attorno a un tavolo con Matteo Renzi: «Noi ci siamo sempre stati, lui lo sa». Il problema è non farlo sotto la minaccia di un ricatto. Un tweet del capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, ha lanciato un invito: «Per rilanciare la legislatura e l'attività di governo fermiamo la guerra e ragioniamo».Insomma, nella strategia del Pd la via crucis di Conte verso le dimissioni al Quirinale era segnata. Ma la spallata decisiva all'avvocato del popolo è arrivata da lui, il prevosto del Pd. Romano Prodi ha vergato domenica un editoriale sul Messaggero che racconta la crisi «vista da Bruxelles». Lui a Bruxelles non ci vive più da tempo, il quinquennio da presidente della Commissione europea è finito 15 anni fa, ma è sempre il portavoce più informato dei voleri dei signori Ue. Lui vede l'Italia dall'unico punto di osservazione possibile, quello dei poteri forti comunitari. E il messaggio che arriva dalle cancellerie è chiaro: «Per essere sintetico», taglia corto Prodi, «la crisi italiana spaventa l'Europa».Il terrore non riguarda tanto le formulette del governo, ma il cash, i soldi, il destino del fiume di euro che sta per valicare le Alpi sotto il nome di Recovery fund. Dunque, che fare per tranquillizzare i partner che si apprestano ad aprire il portafoglio? Mister Euro non risparmia i suoi saggi consigli. Serve «un governo in grado di rispondere positivamente all'allarme dei nostri partner», con un programma di «quattro o cinque progetti di riforma indispensabili per unirci alla comune strategia di ripresa». Provvedimenti «urgenti e necessari sui quali è concretamente possibile trovare un largo consenso». E quali sono questi punti, secondo Prodi? Nell'ordine: riduzione dei tempi della giustizia, riorganizzazione della scuola, riforma fiscale, revisione del codice degli appalti, semplificazione della burocrazia. L'ex premier si spinge fino a disegnare il perimetro della nuova coalizione: una «necessaria aggregazione politica non solo del Parlamento, ma delle forze sociali, che, a differenza di altri momenti storici, si sono mantenute singolarmente al margine del processo politico delle scorse settimane». Questa è una bella tirata d'orecchi all'assolutismo di Conte che si è abituato ai dpcm e non sente più nessuno quando si tratta di prendere decisioni. «Quando il governo da me presieduto si propose di portare l'Italia nell'euro», ricorda il Professore, «non disponeva certo di una maggioranza larga e omogenea, ma fu in grado di raccoglierla e renderla compatta proponendo al Parlamento un obiettivo voluto dalla maggioranza degli italiani». Oggi, secondo il ventriloquo di Bruxelles, «è possibile aggregare una solida maggioranza parlamentare e non una coalizione di reduci tenuta insieme solo per finire la legislatura». E qui arriva anche la tirata d'orecchi ai compagni del Pd, che pur di arrivare al 2023 sono disposti a tirare a campare con Lello Ciampolillo, Renata Polverini e Maria Rosaria Rossi.Giustizia, scuola, fisco, appalti, burocrazia. In Italia se ne parla da una vita ma non si riesce a combinare nulla, figurarsi cosa riuscirebbe a fare Conte con la sua collezione di Ciampolilli. È un programma di legislatura, anzi di un paio di legislature. Ci vogliono anni di lavoro e di maggioranze d'acciaio per rifare il Paese. E ci vuole soprattutto un garante che tiri le redini, detti i tempi, scriva le agende e non tagli i ponti con gli amici di Bruxelles. Ci vuole uno che faccia quello che dice Prodi. Anzi, per farla breve, ci vuole Prodi. Proprio lui, solo lui. La sostanza è che l'uomo dei poteri forti europei si propone come il tramite tra il prossimo esecutivo e gli interessi comunitari, il padre nobile di questo finale di legislatura e possibilmente anche della prossima. Si offre cioè come prossimo inquilino del Colle.Quello di Prodi è un colpo di frusta al Pd. Conte non viene mai menzionato e probabilmente, secondo il Professore, dell'avvocato di Volturara Appula si potrebbe pure fare a meno. Quello che conta sono i voleri europei. Il collante del nuovo governo dovrebbe essere il Recovery fund e la coalizione che dovrebbe sostenerlo è la famosa «maggioranza Ursula», quella che ha appoggiato l'elezione della presidente della Commissione Ue e ha indotto alle dimissioni l'allora ministro Matteo Salvini, cioè Pd, 5 stelle, Forza Italia, Italia viva: a quell'epoca Renzi era ancora saldamente nel Pd. Nessuna remora nel mandare Conte a dimettersi, fa capire Prodi. E nessun riguardo nel proporre un avvicendamento a Palazzo Chigi per collocare un uomo in grado di realizzare gli elevati obiettivi che il Professore propone, in attesa di dettare ordini direttamente dal Quirinale. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-pressing-di-zinga-fa-cedere-lavvocato-ma-il-pd-e-pronto-anche-ad-altri-scenari-2650132761.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="berlusconi-rassicura-i-suoi-alleati-noi-fuori-da-qualunque-trattativa" data-post-id="2650132761" data-published-at="1611605455" data-use-pagination="False"> Berlusconi rassicura i suoi alleati: «Noi fuori da qualunque trattativa» Dopo una giornata concitata, ieri in serata è arrivato l'annuncio: questa mattina iI premier, Giuseppe Conte, dopo un passaggio in Consiglio dei ministri per comunicare le sue intenzioni, salirà al Quirinale per rassegnare le sue dimissioni nelle mani del presidente Sergio Mattarella. Sarà il giorno della svolta dopo l'apertura della crisi con le dimissioni dei ministri di Italia viva. La maggioranza giallorossa, azzoppata da Matteo Renzi, spera che il Colle conceda un reincarico al premier, un Conte ter che non convince la minoranza che continua a indicare come unica strada il ritorno alle urne. Secondo Matteo Salvini le dimissioni andavano date prima perché Conte non ha i numeri». Ieri, lasciando il tribunale di Torino dopo aver testimoniato nel processo in cui è accusato di vilipendio all'ordine giudiziario, il leader della Lega ha ribadito che «l'Italia non può rimanere immobile in attesa della compravendita di senatori di notte, in cambio di non si sa cosa. La posizione della Lega è chiara. Io mi aspetto che prevalgano buonsenso e amore per il Paese. In queste settimane lo spettacolo Conte, Renzi, Di Maio, Mastella, Zingaretti, Tabacci è stato squallido. Mi auguro che se non hanno i numeri per governare, si facciano da parte». «Il premier si dimetta e apra una fase nuova», ha ribadito ieri Maria Stella Gelmini, capogruppo a Montecitorio di Forza Italia, il partito nell'occhio del ciclone perché indicato come bacino di »responsabili». Ma a chiudere ogni illazione sul «soccorso azzurro» lo stesso presidente Silvio Berlusconi (indicato da Salvini come possibile nuovo capo dello Stato), anche per eliminare i sospetti su Gianni Letta e Renato Brunetta, ha dichiarato: «Garantisco io l'assoluta unità del partito. Né io né miei collaboratori o parlamentari abbiamo in corso trattative di qualsiasi tipo per sostenere il governo in carica. Ci rimettiamo a Mattarella. Serve un nuovo governo che rappresenti l'unità sostanziale del Paese in questo momento di emergenza oppure bisogna restituire la parola agli italiani». Duro anche il commento sul Conte bis: «L'implosione dell'attuale maggioranza sotto il peso delle sue contraddizioni è naturale conseguenza della sua origine improvvisata e contraddittoria, che contraddiceva il responso delle urne e che era finalizzata esclusivamente a impedire al centrodestra di governare». Da sempre convinta che la crisi si risolve soltanto con le elezioni Giorgia Meloni, che ieri mattina commentava le parole del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e del vicesegretario, Andrea Orlando, «sulla necessità di un governo autorevole, europeista e in grado di affrontare i problemi facendo un appello alla responsabilità a tutti». La leader di Fdi scriveva su Facebook: «Le parole di Zingaretti sull'ipotesi di elezioni anticipate sono perfettamente rappresentative del terrore che hanno Pd e M5s verso il voto libero dei cittadini. Con che coraggio questa gente si definisce democratica? Tranquilli, arriverà il giorno in cui dovrete rispondere davanti agli italiani delle vostre bugie e dei vostri fallimenti. Se serve un governo autorevole significa che il segretario dem ammette candidamente che l'esecutivo Conte non lo è. Fdi lo sostiene fin dall'inizio: questo governo non è all'altezza, non ha visione e non è capace di risolvere i problemi concreti degli italiani. La via maestra da seguire per dare alla nazione un governo forte, coeso e autorevole rimangono le elezioni». Senza l'alibi della pandemia visto che anche in Portogallo si voterà.
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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