2019-09-04
Il plebiscito riporta Grillo sul trono del M5s
Il verdetto dell'urna elettronica è il trionfo della linea del fondatore, che ha piegato Luigi Di Maio. Al capo politico dei pentastellati andrà un ministero, ma il suo ruolo è ormai ridimensionato. Batosta pure per Dibba e Gianluigi Paragone, che comunque braccheranno l'esecutivo.Le urne sono chiuse. Ma le ferite restano aperte e sanguinanti. E il grande sconfitto, Luigi Di Maio, si è ritrovato costretto (o autocostretto) a sorridere e a proclamare i risultati, dopo un lungo e sospetto ritardo. Ma non c'è motivo di credere al presepe fuori stagione allestito dal M5s per festeggiare - in un tripudio apparentemente unitario - l'esito della votazione sulla piattaforma Rousseau: dietro la scenografia ufficiale, nel retropalco resta un elenco di conti da regolare, una volta spente le luci. Non c'è dubbio: ieri, con quei risultati schiaccianti, il vincitore è stato Beppe Grillo. Altro che semplice garante, altro che ex leader ormai lontano e distaccato. Parafrasando la battuta minacciosa di un personaggio della Gomorra televisiva, Grillo si è «ripreso quello che è suo», ha diviso sulla lavagna i buoni (Giuseppe Conte, promosso accanto a sé tra gli «Elevati») dai cattivi (l'ex pupillo Luigi Di Maio, pubblicamente schiaffeggiato quattro volte in sette giorni, un record). Eppure, adesso, è proprio Grillo quello che rischia di più. Si è intestato l'operazione politica? Ora sarà dura dare la colpa ad altri quando la macchina sarà partita. Né gli sarà facile continuare la recita di quello che «parla con Dio» e lancia moniti apocalittici, quando invece è entrato - come un qualunque capopartito da prima Repubblica - nel suk delle spartizioni, degli inciuci con gli (ex) avversari, fino al rodeo dell'assegnazione di ministeri e sottosegretariati.Speculare alla sua è la posizione di Luigi Di Maio. Finché ha potuto, ha resistito. Ma poi, all'ultima curva, il giovane capo politico ha ceduto di schianto: l'altra sera, con il video della rinuncia alla vicepremiership; ieri mattina, in modo ancora più spettacolare e umiliante, con un post su Facebook, a urne appena aperte, per dire che tutti e 20 i suoi punti erano stati recepiti da Conte. Un'arrampicata sugli specchi per riposizionarsi e dare la sensazione di non essere spiazzato dalla prevedibile valanga di sì. Ora Di Maio è fatalmente esposto al rischio di essere trattato come una specie di (giovane) esodato, certo da collocare in modo lussuoso (alla Farnesina più che alla Difesa), ma plasticamente sconfitto, ridimensionato, marginalizzato. Come imposterà la battaglia per la sopravvivenza? Il primo passo sarà imporre, se ci riuscirà, la conferma dei suoi amici politici più stretti (da Riccardo Fraccaro ad Alfonso Bonafede), in modo da avere con sé un pacchetto di mischia nel prossimo Cdm. Quello che invece gli manca (ma non l'ha mai avuto) è un elenco di proposte politiche ragionevoli e popolari, che gli consentano di partecipare alla battaglia delle idee. I 20 punti non dicono niente; lo stesso programma non è accompagnato da uno straccio di cifra o di priorità. E pensare di salvarsi senza proposte forti, solo aggrappandosi a un pugno di poltrone, è l'anticamera della sparizione politica (chiedere conferma a Ncd). E Davide Casaleggio? Tutti sanno che era contrario al pasticcio con il Pd e che, finché ha potuto (fino a 36 ore fa) anche lui ha partecipato alla «resistenza» insieme a Di Maio. Ora tenterà - dicono i bene informati - di capitalizzare il precedente del voto sulla piattaforma Rousseau, puntando a farne un elemento condizionante per il governo (nel Pd già parlano di una «trappola digitale»). Insomma, sottoporre a votazione vincolante i nodi politici che via via emergeranno nel cammino di governo. Il risultato di ieri segna una momentanea battuta d'arresto anche per i dissidenti più duri, da Gianluigi Paragone (che si è battuto coraggiosamente e a viso aperto) al più sfuggente e silenzioso Alessandro Di Battista. Prevedibile che si pongano in una posizione di attesa, pronti a fare fuoco e fiamme al primo errore del governo, alla prima contraddizione, al primo manifestarsi del «partito di Bibbiano». Discorso opposto per Roberto Fico. Di essere un presidente della Camera super partes, non si è mai molto preoccupato, viste le esternazioni politiche a cui ha raramente rinunciato. Figurarsi ora che ha la possibilità di esercitare una golden share politica sulla nuova maggioranza, e di realizzare il suo sogno, quello di una sterzata a sinistra del Movimento. Inutile dire che i temi che gli stanno a cuore sono esattamente nella direzione che farebbe più male all'Italia: giustizialismo, assistenzialismo, meridionalismo spinto, «madurismo» in politica estera, e così via. Resta infine la vera vittima di tutta l'operazione politica, e cioè l'anima anti establishment del Movimento 5 stelle, già ferita a morte in occasione del surreale voto che ha trasformato i pentastellati nella stampella decisiva per l'elezione di Ursula von der Leyen. Da quel momento, ogni argine è caduto: europeismo gregario e acritico; alleanza con gli arcinemici del Pd; trasformazione in un partito di manovra, di poltrone e di potere. Ferma restando la regia di Grillo, c'è un attore protagonista di questa trasformazione. Un uomo che - a seconda delle convenienze - si è avvicinato al Movimento o ne ha tatticamente preso le distanze, usandolo come un taxi. È Giuseppe Conte: è stato lui il beneficiario di questa giravolta politica; è ancora lui a incassare - con il voto di ieri - quella che userà come una «legittimazione popolare» anche contro gli eventuali oppositori interni; ma può essere lui - tra porti riaperti e sconfessioni politiche - a trasformarsi nel becchino del partito che, il 4 marzo del 2018, raggiunse la spettacolare quota del 33%.
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