2019-08-28
Il Pd si gioca la finta rissa coi grillini per finire la resa dei conti in casa
Le trattative si sono arenate, per poi ripartire e concludersi in serata. Il nodo della contesa non erano i veti del M5s bensì le scintille interne nella corsa alle poltrone, con le pretese dei renziani Ettore Rosato e Andrea Orlando. Se c'e una immagine che rivela tutti i bluff mediatici di ieri è proprio quella del tavolo negoziale: tutti sorridenti, e in posa per il selfie. Solo tre ore prima, a sentire i rispettivi comunicatori, erano lì lì per spararsi. Possibile? Ovviamente sì. Così per capire cosa è accaduto nella convulsa giornata di ieri bisogna riavvolgere il filo di una lunga giornata di muro contro muro e di scontri di facciata e scaramucce di carta pesta. Per tutto il giorno l'incontro fra le delegazioni dei negoziatori viene annullato, riconvocato, raccontato come il punto di deflagrazione di una trattativa impossibile. Balle. Poi si chiude, miracolosamente alle 20 in punto, guardacaso in tempo per intercettare la diretta di tutti i telegiornali della sera. Miracolo. Le voci del giorno prima, in cui il Pd aveva raccontato che la trattativa era «saltata» si sono dissolte come neve al sole. Il proclama di guerra di Alessandro Di Battista ha avuto gli effetti di una piuma brandita per fermare un treno in corsa. L'altolà di Francesco Bonifazi («Se c'è Di Maio al Viminale io questo governo non lo voto») ha contato meno di zero. La minaccia ventilata da Gianluigi Paragone (non votare al Senato la fiducia ad un governo di cui faccia parte il Pd) minimizzata dagli uomini del M5s: «È una posizione personale. Siamo a 180 voti, la maggioranza più ampia degli ultimi anni». E la vera contropartita dell'accordo per il Pd la spiega Pierluigi Bersani: «In Emilia Romagna siamo testa a testa con la Lega: l'accordo con il Movimento cambia tutto, non a caso in questi giorni Bonaccini era sempre al telefono con Zingaretti». Vero. C'è febbre di governo, di incarichi, di prendere e partire. Nulla può arginare questo moto tellurico che spinge per la nascita del governo. Si è arrivati al paradosso - quasi surreale - che nella giornata a in cui più che in tutte le altre il governo giallorosso ha preso corpo, la vera mediazione - nel braccio di ferro tra gli uomini di Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio - l'abbia fatta Giuseppe Conte, ovvero l'uomo che fino al giorno prima era considerato la pietra dello scandalo, il motivo della rottura insanabile. Altra balla. Conte ieri veniva inseguito dalle telecamere con il figlio in un negozio della Tim, mentre persino Donald Trump twittava un endorsement clamoroso: «Auspico che Giuseppe Conte possa tornare a Palazzo Chigi». Nella notte, dunque si chiude l'ultimo duello, quello con cui il Pd vuole impedire a Di Maio di fare cappotto portando a casa, oltre la poltrona di ministro, anche la conferma nella carica di vicepremier. Ed è proprio per ottenere la conferma di questo gallone che Di Maio nella ha digrignato i denti: «Sono il capo politico del Movimento 5 stelle: o faccio il vicepremier o non c'è il governo». Per ottenere questo obiettivo il capo politico grillino l'ha sparata grossa: «Voglio anche il Viminale». La mattina quelli del Pd raccontavano che stava per saltare tutto: «Quello è impazzito, dice che il problema dei ruoli lo scioglierà in autonomia Conte, noi ce ne andiamo». Infatti il tavolo della mattina salta, ma nel pomeriggio resuscita sotto il nome immaginifico di «cabina di regia». Trucchi dialettici, scatole cinesi. La verità è che i leader hanno usato il muro contro muro per contenere le ambizioni e i sogni delle rispettive minoranze. E mentre infuriava la battaglia l'ufficio stampa del Pd diffondeva le immagini para ufficiali del tavolo negoziale, dove i giovani «Barbudos» grillini discutevano con quelli del «partito di Bibbiano» intrattenendosi addirittura con un sorridente Andrea Marcucci, il feroce nemico di ieri. La cosa divertente è che i negoziatori del Pd si erano ritagliati, da Andrea Orlando al capogruppo al Senato, un posto di ministro, poi c'erano già tre candidature di Leu per portare a casa un dicastero, addirittura tre renziani convinti di poter strappare una poltronissima: oltre al succitato Marcucci, anche Guerini e il redivivo Rosato. Davvero troppi. Ed ecco perché i leader usano la narrazione dello scontro con gli avversari, anche - e soprattutto - per pacare gli appetiti più famelici. Del punto più difficile, ovvero convincere i rispettivi popoli - dopo anni di insulti reciproci - ancora non parla nessuno. Sarà l'impegno più difficile di domani. Molto più difficile - a quanto pare - di tenere insieme Marcucci e Di Battista.