2021-09-06
Abdon Pamich: «Il Pd è intollerante. La tragedia delle foibe è ancora negata»
Il campione olimpionico di Fiume: «Lo scopo dei partigiani titini era cancellare la cultura italiana. Ma la sinistra non ascolta più»«Non le ho detto una cosa importante». Abdon Pamich, il campionissimo di Fiume, medaglia d’oro a Tokyo 1964 nei 50 chilometri di marcia, continua con un messaggio vocale su Whatsapp la chiacchierata iniziata un’ora prima al telefono da Leonessa, vicino a Rieti. «Nei giorni scorsi, il 18 agosto, si ricordava la strage di Vergarolla del 1946, a Pola, dove sono morti tanti bambini che facevano la coppa Scarioni di nuoto. Anche quelli, probabilmente, erano criminali fascisti». Il maresciallo Tito non intendeva rinunciare alla italianissima Pola. «Esplosero 28 bombe antisommergibile da tempo disinnescate, ma che mani ignote avevano riattivato». Oltre 100 morti in quello che è considerato il primo attentato terroristico della Repubblica: «Mai però una riga sui libri di storia». Non ci sta Pamich a sentire ciò che ultimamente è uscito da certe bocche negazioniste delle foibe, come quella di Tomaso Montanari, rettore designato dell’università di Siena. Pamich si è sempre impegnato per conservare la memoria storica della comunità giuliano-dalmata in Italia, lui che ha vissuto sulla sua pelle un esodo disumano e la disgregazione della sua famiglia. «La storia», dice, «più la si diffonde meglio è». Le parole di Tomaso Montanari sono state pesanti. Ha addirittura parlato di «falsificazione storica».«È questa gente che vuole negare la storia. Di fascisti ce n’erano ben pochi in quelle fosse. I fascisti veri, quelli che avevano fatto del male, erano già scappati. Se uno era fascista perché iscritto al partito, allora andiamo a cercare anche quelli del partito comunista che erano iscritti al fascio. Ci sono stati molti partigiani dell’ultima ora. Ora questi negazionisti arrivano a negare anche la Shoah, senza avere visto i forni crematori e le strutture di Auschwitz. Ma quanto accaduto nella mia terra dicono sia un fatto che riguarda poche persone. Da noi c’era una grande comunità di ebrei e nelle foibe ci sono finiti anche loro». Perché quegli eccidi? Vendetta per quanto gli italiani avevano fatto in Slovenia e Croazia contro le popolazioni locali, oppure motivazione politica?«Bisognava cancellare il passato culturale della nazione. Non parliamo dell’interno dell’Istria: tutta la costa era sotto il dominio della Serenissima dal 1600. Bisognava sradicare tutto. Zara è stata bombardata e rasa al suolo perché Tito disse agli americani che nella città c’erano tanti armamenti, mentre di industrie c’erano solo la Maraschino e i tabacchi».Quindi una «snazionalizzazione»? «Già in quell’epoca si doveva togliere qualsiasi sembianza di cultura italiana. Noi non rivendichiamo altro che la nostra cultura. Siamo stati sotto l’Ungheria e l’Austria, e nessuno ha toccato la nostra lingua, il nostro dialetto. In Dalmazia si è sempre scritto in latino e italiano, c’era il bilinguismo. La Croazia è entrata in Europa con l’accordo di mettere il bilinguismo almeno nei cartelli stradali. Per esempio, Fiume e Rijeka. Ma il nuovo sindaco ha negato anche questo. Sono dei nazionalisti ottusi. Noi non lo siamo, sappiamo di avere due, tre anime ma culturalmente rivendichiamo la cultura italiana». Quando è cambiato tutto?«Appena finita la guerra siamo stati occupati da queste bande di partigiani titini che ammazzavano la gente anche per strada, che venivano nelle case di notte e uccidevano gli invalidi nel letto. In pochi giorni ogni cosa è stata diversa. La nostra città era allegra, si sentiva cantare. Di botto è diventata muta, aveva il terrore dei delatori, se stavi antipatico a qualcuno subito venivi tacciato d’essere fascista. E non si facevano di certo i processi». Eppure si negano le foibe. «E teniamo conto che il termine foiba è generico. Li gettavano nelle foibe, certo, ma anche in mare con un masso attaccato alla gola con un fil di ferro, oppure li prelevavano nelle case come hanno fatto con due senatori di Fiume. Uno era paralitico, un medico soffocato nel suo letto. Non era un fascista, ma un autonomista. A Fiume c’era una grande corrente di autonomisti, soprattutto per la paura di finire tra le grinfie della Slovenia e della Serbia. Dicevano che piuttosto di finire sottomessi preferivano rimanere autonomi. I nuovi occupatori avevano il terrore più degli autonomisti che di quanti volevano tornare all’Italia».Perché fa ancora tanto male ricordare questa tragedia?«Soprattutto perché viene ancora svalutata, negata. Si contano i numeri, come se fossero quelli a contare. Gli ebrei erano milioni, noi migliaia, quindi la nostra tragedia non esiste. Ma la quantità non c’entra. Chi ha idee opposte nega questi fatti. Ho notato che oggi con quelli di sinistra è più difficile avere un colloquio civile rispetto a una volta. Non accettano la dialettica. Non sono comunista, ma apprezzo uno come Piero Sansonetti che non parla in base a un’ideologia ma cerca di guardare ai fatti. In certi casi riesce anche a difendere Salvini. È obiettivo. Mentre quando si ha a che fare con questi del Pd è una cosa terribile, si arrabbiano subito. Se l’accezione di fascismo vuol dire essere intolleranti, questi sono dei fascisti». Eppure c’è chi fa il professore, chi lo storico.«Parlano per quello che hanno in testa ma prima dovrebbero documentarsi. Invece loro della documentazione se ne fregano, come Rosario Villari, uno che ha scritto testi di storia molto carenti. Ho frequentato la facoltà di psicologia e sociologia alla Sapienza di Roma: quando studiavo sui suoi testi, su questo argomento si sorvolava».Mettono in discussione anche il Giorno del ricordo.«Lo storico Eric Gobetti tra pochi giorni sarà all’Anpi a presentare il suo libro e parlare di questo. Lui è un altro negazionista. Devo dire che non tutta l’Anpi è uguale, siamo andati anche noi a parlare in certi circoli del Pd, in certe Anpi: ci hanno ricevuto e hanno voluto ascoltare. Ma ad altre brucia ancora, non possono sentire questi discorsi. All’Anpi lo Stato dà ancora importanti aiuti anche se di partigiani non ce n’è più».Dove trovare i vostri documenti?«A Roma abbiamo un museo storico di studi fiumani e lì è stato fatto, una ventina d’anni fa, uno studio con la controparte, con un professore di Zagabria, un croato e un italiano. Hanno fatto l’elenco delle vittime, tutto documentato. Davanti a questi dati non c’è nulla da replicare». Ci sono stati momenti in cui si è sentito straniero in patria?«Sì, è capitato non poche volte. Ci guardavano male. Secondo il pensiero di Montanari e Gobetti, che negano la storia scritta anche nei documenti, eravamo tutti fascisti». Lei ha scritto un libro, Memorie di un marciatore, sono quelli i ricordi più vivi?«È uscito durante le Olimpiadi del Brasile ma, al di là del titolo, la parte della marcia è la meno importante. Racconto la mia vita».Anche la fuga da Fiume?«Era il settembre del 1947, tra pochi giorni saranno 74 anni, non avevo ancora 14 anni. Io e mio fratello Giovanni, diventato poi primario di chirurgia a Monfalcone, e che aveva un anno più di me, abbiamo deciso di fuggire. Abbiamo lasciato lì la mamma, un altro fratello e una sorella. Anche loro ce l’hanno fatta, e non so per quale fortunato caso non hanno subito nulla. Noi due salimmo su un treno, metà andava in Italia, metà tornava a Fiume. Sbagliammo, ma dopo tanto correre siamo arrivati a Trieste».Perché fuggiste?«Era ormai una situazione invivibile. Un ragazzo giovane si sentiva oppresso e mia madre non poteva tenere quattro figli mentre mio padre se n’era andato prima. Mio padre non è mai stato iscritto al partito fascista, era amato da tutti, forse anche questo ci ha salvato. Era uno dei pochi laureati sopravvissuti. I titini gli avevano dato l’incarico d’ incorporare le grosse aziende di edilizia venete in un’unica società statale. Lavorava venti ore al giorno, non ce la faceva più. Quello del partito, che gli stava alle costole, gli disse che se non finiva avrebbe detto che era un sabotatore. Aveva il passaporto, gli consigliarono di andarsene e non perché era un fascista. Ci siamo poi riuniti tutti a Genova. Io e mio fratello passammo prima un anno in un campo di concentramento a Novara. Un anno a riso e lenticchie». È sempre stato portato per la corsa?«No, la mia prima passione era il pugilato. Avevo uno zio che era arbitro di pugilato e promotore di avvenimenti sportivi, aveva una palestra e faceva anche da allenatore. Da bambino frequentavo già le riunioni pugilistiche. Portava personaggi, campioni dell’epoca come Primo Carnera arrivato a Fiume. Ma dopo l’esodo sentivo il bisogno di fare sport e feci la prima cosa che mi suggerirono: correre. Non avevo possibilità di scegliere».Gli italiani di Istria e Dalmazia sono sempre stati educati allo sport: perché questa abitudine?«A Fiume c’erano canottieri, nuotatori che senza piscine e allenandosi solo d’estate vincevano i titoli italiani. Poi i pugili. In Dalmazia c’erano i cestisti, i dalmati sono alti. Eravamo uomini di mare e di montagna, grandi scalatori pur essendo una città di mare e grandi navigatori. Gli sport erano praticati non dai ceti bassi ma c’erano intellettuali, laureati, gente di una certa cultura».È tornato nella sua terra?«Sì, qualche volta. Due anni fa abbiamo portato a Fiume i resti dei nostri genitori. Li abbiamo portati a casa».
Matteo Salvini (Imagoeconomica)
La stazione di San Zenone al Lambro, dove il 30 agosto scorso un maliano ha stuprato una 18enne (Ansa)
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