2018-10-14
Il Pd cerca leader. Si presentano tutti quanti
La sfida è fra Nicola Zingaretti (l'unico ad aver vinto qualcosa) e Marco Minniti, il quale però deve prima affrancarsi da Matteo Renzi, che vuol mettere il cappello su di lui. Ma dall'uscente Maurizio Martina a Matteo Orfini, fino a Dario Franceschini e all'outsider Dario Corallo, tutti coltivano ambizioni e correnti. Benvenuti all'ex Dogana. Quartiere San Lorenzo, panche di ruvido legno, archi spogli in cemento armato, frasario e pantheon appeso alla parete, su spartani cartelloni colorati, zero scenografia. Nasce qui la «Piazza grande» di Nicola Zingaretti, parte da qui la corsa per la segreteria de Pd, tra ecumenismi e sobrietà, tra amministratori e sindaci, mentre si respira una certa quintessenza di romanità, e mentre il fantasma di Marco Minniti si aggira per questi locali senza essere mai citato da nessuno, ma ben percepibile da tutti. Anche perché la notizia è questa: manca ancora qualche dettaglio, ovvio, ma il campo di battaglia è ormai circoscritto. Da oggi ci sono due pesi massimi candidati nella sfida per il controllo del Pd, entrambi con il loro punto di forza ed entrambi (come vedremo) con il loro tallone d'Achille. E poi - dopo di loro - già si affolla sulla scena una corte di sette contendenti, ognuno con il suo punto di dignità e con il suo limite, tutti animati dall'obiettivo di raccogliere consenso residuale da far pesare nella scelta finale. Il Pd oggi riparte da qui. L'intervento politico del governatore è previsto per stamattina, ma un primo assaggio della linea già trapela dalle dichiarazioni sporadiche dette dal palco, dalle parole regalate ai microfoni dei giornalisti fuori dall'impostazione della convention. La quintessenza è tutta in questa frase: «Non vogliamo continuare», dice in chiusura di mattinata il governatore del Lazio, «sulla strada che ci ha portato a fallire. Noi vogliamo cambiare strada, costruire finalmente una nuova speranza per questo Paese». Cambiare strada rispetto all'esperienza del centrosinistra di governo di questi anni. E bisogna sapere che - apparentemente - non c'è nemmeno Renzi, in queste stanze, almeno a parole, se si esclude una battuta sulla scelta dei «più fedeli». Pur senza evocare direttamente l'uomo di Rignano, tutto sembra costruito a ricalco della sua aura, se non altro per esorcizzare gli spiriti avvelenati della Leopolda: non ci solo scenografie colorate, non ci sono nani e ballerine, non c'è vippume né corte dei miracoli, non ci sono potenziali nominati, non ci sono folle da stadio. Ci sono gli addetti ai lavori e anche molti che nelle geografie del partito contano: c'è Dario Franceschini, che è presente con i maggiori esponenti della sua Area, dall'ex capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda all'ex sottosegretario agli Affari regionali, Gianclaudio Bressa. C'è l'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti. C'è poi - in prima fila, sorridente - il segretario Maurizio Martina, che detta l'agenda con il timing della sfida: «Ai primi di febbraio», dice, «ci saranno le primarie e dopo il Forum di fine ottobre a Milano partirà il percorso che ci porterà all'appuntamento dei gazebo». Correrà Martina? Molto probabilmente, per capitalizzare l'investimento politico e il grande attivismo di questi mesi. E siamo a tre candidati. Ma poi c'è - già da mesi in campo - anche Matteo Richetti, uno di quelli che è partito per primo, e che raccoglie l'ala più spontaneista della ex maggioranza, quello che Alessandro De Angelis ha definito «il renzismo dal volto umano». E quattro. Poi però c'è anche Francesco Boccia, l'erede di Michele Emiliano, che erode anche a Zingaretti un frammento del suo zoccolo a sinistra. E cinque. Ma poi c'è anche il giovane outsider Dario Corallo, perché un giovane non manca mai (nella posizione che fu di Ivan Scalfarotto). E sei. Ma poi ci sarà - probabilmente - anche un orfiniano, perché Matteo Orfini, da sempre in maggioranza con Renzi, non ha gradito la designazione di Minniti, da cui si era distinto (anche poeticamente) sui temi dell'immigrazione (potrebbe essere una donna, Chiara Gribaudo o Katiuscia Marini). E sette. Ma pare che voglia candidarsi anche Cesare Damiano, su posizioni previdenzial laburiste. Se nel nuovo scenario non si ritira, siamo a otto. Il motivo di questo affollamento è presto detto, ed è legato al metodo di selezione del leader: secondo il regolamento se nessuno arriva al 50% si procede con una elezione fatta dall'assemblea nazionale (e, se si arriva a quel punto, ogni voto pesa il doppio perché può contribuire a far raggiungere la maggioranza). Dopo anni di dominio assoluto delle primarie, insomma, sia la Cgil sia il Pd tornano alle elezioni di secondo grado. Con tutte le manovre che questo comporta. A Piazza Grande si respira una certa aria ecumenica, e un certo veltronismo in sedicesimo - unica grande Chiesa da Che Guevara a madre Teresa - si avverte nell'apparato delle citazioni affisse ai muri spogli e grigio industriale dell'ex Dogana, con evocazioni che vanno da Paolo VI a John Lennon, da Altiero Spinelli a Pier Paolo Pasolini, da Giuliana Segre a Martin Luther King. Il mantra è la parola che trovi ovunque: «Comunità». Aggiunge Zingaretti: «Si è cercata non la lealtà», dice nel passaggio più applaudito del suo antipasto di intervento, «ma la fedeltà. Dobbiamo rigenerare una cultura politica che abbia come anima l'apertura, l'inclusione, lo spirito di servizio». Tutti a dire «noi» e non «io». Il tallone d'Achille di Zingaretti coincide paradossalmente con il suo punto di forza: è quello di proporsi come leader corale, primo tra pari di un coro che però non esiste più. Come anti-leader proprio quando più servirebbe un leader. Di presentarsi come unificatore di una comunità che per ora sembra disgregata, come garante di un partito che non c'è più. Il suo indubbio punto di forza è quello di essere l'unico che ha vinto, e per di più in controtendenza nello stesso giorno in cui nella sua regione si perdevano le elezioni politiche. E poi quello - non indifferente - di essere l'unico che non ha nessun credito e nessuno scheletro nell'armadio con cui possa essere ricattato, dal grande convitato di pietra di questo weekend, ovvero lo stesso Renzi. Marco Minniti ha il punto di forza del carisma e della personalità, anche della caratterizzazione (che si è conquistato ai tempi del Viminale) ma il problema indubbio della continuità con il potere dell'uomo di Rignano. Riuscirà ad arrivare alle primarie senza che Renzi provi a mettere il cappello sulla sua candidatura? A garantirsi il suo silenzio? La partita è interessante - e complicata - anche per questo.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson
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