2018-09-05
Il partito unico resta nel cassetto perché il Cav non lo accetterà mai
Anche se ormai non ha più un'eredità politica da lasciare, Silvio Berlusconi non vuole cedere il passo a Matteo Salvini. È passato dal desiderio di diventare il padre nobile del centrodestra all'incubo di essere il parente povero.Sono trascorsi quasi undici anni dal giorno in cui Silvio Berlusconi salì sul predellino di un'auto e lanciò il progetto di un partito unico del centrodestra. All'epoca il Cavaliere era alla guida di un fronte che alle elezioni dell'anno prima aveva sfiorato la vittoria. Tuttavia fra Forza Italia, Alleanza nazionale e Udc le divisioni erano profonde. Gli alleati dell'ex presidente del Consiglio non vedevano l'ora di levarselo dai piedi e appena Berlusconi mancò l'obiettivo di dare una spallata al governo Prodi, riportando il Paese al voto, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini gli presentarono il conto, ponendo il problema della leadership, un modo per indurre il Cavaliere al passo indietro. Quest'ultimo, però, di ritirarsi ad Antigua su una panchina non aveva nessuna intenzione e rilanciò con l'idea del partito unico. Il concetto era semplice: se i nemici non li puoi sconfiggere, prova a farteli amici. Un'operazione che puntava a trasformare dei partiti e dei leader che si erano rivelati fratelli coltelli in correnti e capi correnti, prosciugando gli stagni in cui nuotavano.Vi state domandando perché rievochi una faccenda vecchia di oltre dieci anni, facendo rivivere personaggi e formazioni politiche di cui gli elettori hanno da tempo decretato la morte? Il motivo è semplice e si tratta della proposta lanciata da Matteo Salvini di un partito unico di cui facciano parte la Lega ma anche Forza Italia e Fratelli d'Italia. Il ministro dell'Interno vorrebbe tenere a battesimo il progetto non solo per rimettere un po' d'ordine nel centrodestra, ma anche a causa del fastidioso processo di Genova, che pur non vedendolo indagato (alla sbarra ci sono Umberto Bossi e Francesco Belsito, il segretario e il cassiere del Carroccio prima della svolta) rischia di prosciugare le finanze della Lega e di renderne impossibile l'azione politica.Su questo giornale già mesi fa anticipammo il progetto di una nuova formazione politica, che rescindesse i legami con il passato anche dal punto di vista delle conseguenze civili e penali e domani, con la probabile sentenza sul sequestro dei fondi del partito, sapremo se a questa exit strategy sarà data attuazione. Tuttavia, a prescindere da ciò che accadrà dopo l'attesa sentenza, se cioè la Lega dovrà chiudere i battenti come ha detto pochi giorni fa Giancarlo Giorgetti, ciò che ci preme sottolineare è che difficilmente il partito unico del centrodestra si farà. Già, perché colui che lo tenne a battesimo una domenica di novembre di undici anni fa mai accetterà di sciogliere Forza Italia dentro un movimento guidato da Salvini. Quando Berlusconi lanciò l'idea che poi si sarebbe trasformata nel Popolo della libertà, dalla sua aveva un bacino di consensi che comunque rappresentava almeno un quarto dei votanti. Mentre gli alleati che dovevano essere annessi, ossia An e Udc, insieme a malapena arrivavano al 15%. Insomma, il Cavaliere era colui che dava le carte e nonostante Fini e Casini fossero restii ad assecondarne i desideri (il primo accolse l'idea del Pdl parlando di «comiche finali», mentre il secondo per alcuni giorni preferì far perdere le proprie tracce negli Stati Uniti), alla fine mise in campo un'operazione a tenaglia, cioè la nascita di un nuovo partito di destra e un altro centrista, che piegò la riluttanza dei fratelli coltelli. Come finì la storia è cosa nota a tutti, ma non è ciò che al momento mi preme raccontare. Se cito il caso del Pdl è solo per spiegare che oggi i ruoli si sono invertiti. Non è Berlusconi a voler fare piazza pulita degli avversari interni, ma Salvini il quale, essendo costretto dagli eventi giudiziari a fondare un partito, pensa di prendere due piccioni con una fava. Una nuova formazione, ma anche un'Opa sugli alleati così da consolidare la propria leadership e candidarsi alla guida del prossimo governo con un bacino elettorale del 40%. Per il leader della Lega si tratterebbe di portare a termine una strategia che ha già svuotato i forzieri di Forza Italia e anche di quella che un tempo fu la destra. Partito cinque anni fa con un Carroccio sotto il 4%, oggi Salvini è alla guida di una Lega che tutti i sondaggisti danno al 30. Nei soli pochi mesi di governo, da terzo partito che era, il movimento fondato da Bossi si è trasformato nel primo.Tutto ciò, ovviamente, non può far piacere a Berlusconi, che non ama affatto il ministro dell'Interno. Al Cavaliere non piacciono i modi sbrigativi del capo leghista e mentre con il vecchio Senatùr, dopo le iniziali divisioni del 1994, aveva trovato un'intesa forte, con Salvini non è mai scattata la scintilla. Soprattutto il fondatore di Forza Italia non potrà mai accettare che il suo partito diventi una costola di quello del ministro, anzi una corrente. Berlusconi, nonostante sia in politica da un quarto di secolo, resta un imprenditore ed è abituato a comandare in casa propria, non a chiedere permesso. Dunque, anche con il 7% (è la percentuale che Swg ha attribuito lunedì a Forza Italia) non accetterà mai l'annessione. Dire sì al partito unico per lui significherebbe accettare di passare il testimone, cioè di non essere più il numero uno. La parabola politica del Cavaliere, nella sua testa, al massimo contemplava l'idea di diventare il padre nobile di una futura casa di centrodestra, non di essere accolto nell'abitazione come un parente povero, a cui dopo anni di fasti siano rimasti solo gli spiccioli per pagarsi il sottoscala. La questione per Berlusconi è politica, ma forse prima ancora è psicologica. Lui che non ha mai voluto eredi e quando li ha indicati lo ha fatto solo per gioco (tutti ricordano Angelino Alfano, il delfino senza quid), oggi si rende conto di non avere più un'eredità da lasciare e questa è la peggiore sconfitta.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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