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2019-08-14
Programma e facce (di bronzo)
del governo senza vergogna
La mossa di Matteo Salvini mira a spiazzare i 5 stelle. Votiamo il taglio dei parlamentari subito, la prossima settimana, e poi tutti a casa e a votare. Il 22 è già stata fissata la seduta, che da un lato allungherà i tempi e dall'altro - agli occhi della Lega - porterebbe alla prima spaccatura nel partito dell'inciucio. Tra le fila del Pd diviso solo Matteo Renzi, invertita all'improvviso la rotta, si è detto favorevole. Il resto del partito non ne vuole sapere. Da ultima, l'ha ribadito l'ex ministro della Difesa, Roberta Pinotti. Ma ad oggi le possibilità che l'entrata a gamba tesa della Lega riesca nel suo intento non sono tantissime. E sullo sfondo resta un governo di scopo o «istituzionale», come l'ha chiamato il senatore semplice di Scandicci. Un mega inciucio che, se mai dovesse superare le diversità di vedute sul taglio dei parlamentari e sull'avvio della Tav, potrà dare il via a un programma di governo orrorifico. Qualcosa che solo a pensarci fa venire la pelle d'oca, perché unirà l'atteggiamento anti impresa tipico dei 5 stelle, con la visione socialdemocratica e filo gender del Pd a cui si aggiunge un collante europeista di matrice quirinalizia.
I punti in comune diventerebbero una leva per il pronto smantellamento del decreto Sicurezza e l'avvio dell'iter di legge per lo ius soli. Tutte e due le anime del Pd l'hanno sempre appoggiato, e una volta messo da parte Luigi Di Maio, avrebbe la meglio Roberto Fico che più volte ha spiegato di essere favorevole all'estensione della cittadinanza senza se e senza ma. D'altronde pure Beppe Grillo a momenti alterni ha speso parole positive per il progetto che farebbe la gioia di politici come Laura Boldrini ed Emma Bonino. Prima ancora di tale misura choc, l'alleanza Pd-5 stelle già a settembre potrebbe calendarizzare la legge sull'eutanasia. Lo scorso 31 luglio la commissione Giustizia e affari sociali aveva stoppato l'iter, lasciando comunque scoperto il fianco a una eventuale sentenza della Corte costituzionale che entro ottobre si dovrà pronunciare a seguito delle pendenze penali di Marco Cappato. Non è difficile immaginare gli effetti del combinato disposto dell'eco del caso Dj Fabo e di una maggioranza pro eutanasia.
Così come non è difficile immaginare la gioia di Monica Cirinnà, che potrà mettere nel cestino il decreto Pillon e portare avanti le adozioni gay. Senza contare le altre tematiche relative al sostegno dei figli e alla procreazione assistita. Una coalizione così fatta d'altronde potrebbe avere anche un ministro della famiglia come Vincenzo Spadafora che certo di punti di vista in comune con l'ex titolare Lorenzo Fontana ne ha ben pochi. Unica differenza, un tale dicastero Pd-5 stelle potrebbe invece portare a casa la benedizione di padre Antonio Spadaro, direttore di La Civiltà Cattolica e indirettamente di parte della Cei, a indicare che il maxi inciucio su tutti i temi etici, gender e dell'immigrazione sarebbe con ogni probabilità spalleggiato dal Vaticano. A quel punto se la mossa di Salvini - lo ribadiamo - non dovesse portare al voto immediato, la futura coalizione sarebbe ovviamente chiamata a gestire la legge Finanziaria. I 5 stelle non potrebbero mai rinunciare al reddito di cittadinanza, anzi per sottolineare il valore del cambio di passo cercherebbero di allargarne la portata. I renziani, per non essere da meno, estenderebbero a loro volta gli 80 euro con cui l'ex sindaco di Firenze ottenne il 40% di voti. Da quanto risulta alla Verità, Bruxelles sarebbe disposta ad accettare che il deficit di un simile esecutivo arrivi al 2,9%, dall'attuale 2. Si tratterebbe di una capacità di spesa a debito pari a circa 15 miliardi. Renzi e il resto del Pd (come più volte ha dichiarato il M5s) non lasceranno salire l'Iva, e quindi potranno usare questa concessione per non disinnescare le clausole di salvaguardia.
Il resto delle misure dovrà essere coperto da nuove tasse. Sinistra e grillini hanno in comune (oltre a quanto abbiamo già elencato) l'odio per la ricchezza altrui. Basterà applicare su mandato europeo una patrimoniale sulle rendite immobiliari e aumentare i capital gain (già al 26%). Il motto sarà: se il debito pubblico è alto, usiamo la ricchezza privata. Nulla di nuovo: basta leggere tutti i paper del Fmi e dei centri studi tedeschi, che da sempre suggeriscono la super patrimoniale per risolvere i guai dell'Italia. Ci sarebbero proteste di piazza? Che importa. A quel punto il mega inciucio avrà le spalle coperte dall'asse franco tedesco e potrà azzerare la legge leghista sul golden power (che se non viene approvata entro fine settembre scade) e aprire le danze alla vendita di asset del Paese. Non pensiate sia un'esagerazione. Parigi attende il semaforo verde per fare shopping a super sconto nel settore della Difesa, e la Cina aspetta l'ok per gestire il 5G. Le aziende di Pechino porteranno inizialmente qualche miliardo d'investimento sulla banda ultra veloce, ma ci faranno tagliare i ponti una volta per tutte con gli Stati Uniti. Si realizzerebbe così il sogno di chi sta cercando di mettere in pista il papocchio.
Nell’esecutivo horror si salva Tria. Dentro Fico, Giachetti e Minniti
Un governo anti-elettorale, che passeggia come un fantasma, per i corridoi del Senato. Alle sei di sera, finalmente, un ministro della Lega, off the record, mi dice: «Stanno provando a fregarci, ma noi siamo più furbi di loro». Il fantasma del governo ha scavato così, come una talpa il suo tunnel nella crisi. E il ministro leghista continua: «Noi lo sappiamo. Loro hanno già pronto il loro “governo del niente". A questo punto facciamo una contromossa, e se andiamo all'opposizione», chiude il ministro «per loro sarà il Vietnam. Io sono già pronto».
Dopodiché tutto ciò che era accaduto fino a quel momento è improvvisamente invecchiato. Ad esempio, la conferenza stampa di Matteo Renzi, che secondo qualcuno doveva annunciare una scissione, e che alla fine ha partorito il topolino di qualche dichiarazione. Nessuno poteva muoversi dal tavolo, perché nessuno era in grado di prevedere cosa sarebbe accaduto. Cosi soltanto questo governo che si è manifestato ieri nei corridoi del Senato, come una fantasma e come una certezza, spiega la «contromossa» teatrale di Matteo Salvini. E il punto in fondo è questo.
Dentro il Pd, una corrente vicina al Quirinale pressava sempre di più per un nuovo esecutivo, e acquistava forza con il passare delle ore: a tessere questa tela c'è Dario Franceschini, ex pupillo del Presidente della Repubblica, sostenitore storico dell'accordo con i pentastellati e ovviamente futuro ministro di peso di questo ipotetico programma. Oggi più forte di ieri. Ma qualcosa accade anche fuori dal Pd, dove l'opinione pubblica di sinistra ha iniziato a gridare contro il voto anticipato «che regala l'Italia a Salvini». Uomini preziosi nel Palazzo, come la vecchia volpe Luigi Zanda, hanno iniziato a tessere la tela dei rapporti istituzionali e a tenere aggiornato il pallottoliere. Quale? Quello dei senatori che seguirebbero Matteo Renzi in caso di addio. Quanti? «Non più di venti, forse meno», spiegava Zanda al suo segretario, come un capo di stato maggiore che aggiorna un bollettino di guerra. E così anche Nicola Zingaretti si è convinto che la via proposta dal suo mentore, Goffredo Bettini («Un governo può essere solo di respiro») poteva mettere fuori gioco sia il pericoloso nemico interno, Matteo Renzi, sia l'avversario con interessi convergenti, Matteo Salvini. A questo punto il leader leghista ha fiutato l'aria e ha provato a far saltare il tavolo.
In una trattativa che correva sotto traccia, ma di cui affioravano tracce sui giornali, sulle agenzie, e soprattutto nei corridoi già si iniziava a delineare chi era dentro e chi fuori. La trattativa del governo Pd-M5s: perché sotto la cornice dell'esecutivo «istituzionale» per «mettere in sicurezza i conti» c'è anche un meno aulico intreccio di veti, di calcoli, di caselle da riempire. E un totonomi di ministri che per tutto ieri, prima del guizzo salviniano, han continuato a rimbalzare e forse ricomincerà da oggi.
E allora, eccolo: dentro Elisabetta Trenta e dentro Giovanni Tria e Alfonso Bonafede, quelli che Salvini voleva decapitare. E dentro l'ala sinistra del movimento, Fico e Di Battista. Perché? Perché il Pd non si fidava, e voleva i big del Movimento, quindi con ogni probabilità anche Stefano Patuanelli, decisivo per manovrare bene il gruppo al Senato in questa fase. Sperava, il Pd, di poter porre un veto su Luigi Di Maio, ma non poteva porlo su Giuseppe Conte, referente diretto del Quirinale in queste ore delicate per il Movimento: perfino Renzi ieri è stato meno spietato del solito con l'«avvocato del popolo». Restavano ovviamente i tecnici vicini al Colle, oltre ai già citati c'era anche Enzo Moavero Milanesi. E con queste caratteristiche si arrivava a un patto ammanettato capace di dare l'unica garanzia su cui il Pd non può cedere: un vero governo di legislatura.
Ma anche il M5s poneva i suoi veti: non Matteo Renzi, ovviamente. No a Luca Lotti, ovviamente. Non Maria Elena Boschi, senza nemmeno il bisogno di chiedere il perché. E alla fine, se il Pd avesse davvero fatto questo passo, l'unico della componente di minoranza che avrebbe potuto superare il fuoco di sbarramento era soltanto uno: Roberto Giachetti. Via libera, invece, per i pontieri di queste ore: Bettini su tutti, ma anche Marco Minniti.
Ma se tu arrivi a discutere le pregiudiziali, di gradimenti, e le ipotesi, in realtà tu stai già discutendo di fare un governo. E questo tavolo di discussione, che è stato quantomeno rallentato ieri per la mossa di Salvini, non è ancora saltato.
La discussione sul calendario, e quella sulla sfiducia, diventano giocoforza del fatti parlamentari che disegnano dentro le camere il profilo di una nuova maggioranza. La partita si allunga, e il governo di legislatura continuo a camminare, come un fantasma, nei corridoi del palazzo. E anche il totoministri del governo Pd-M5s, che da ieri è un po' meno probabile ma non per questo morto prima del concepimento.
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Le nozze grillopiddine aprirebbero ad adozioni gay e eutanasia. Poi sì allo ius soli e salasso sulla casa per la manovra in deficit. Nell'esecutivo horror si salva Giovanni Tria. Dentro Roberto Fico, Roberto Giachetti e Marco Minniti. Per i veti incrociati, nessun big Pd e M5s. Il Colle chiederebbe garanzie per Enzo Moavero Milanesi. Lo speciale comprende due articoli. La mossa di Matteo Salvini mira a spiazzare i 5 stelle. Votiamo il taglio dei parlamentari subito, la prossima settimana, e poi tutti a casa e a votare. Il 22 è già stata fissata la seduta, che da un lato allungherà i tempi e dall'altro - agli occhi della Lega - porterebbe alla prima spaccatura nel partito dell'inciucio. Tra le fila del Pd diviso solo Matteo Renzi, invertita all'improvviso la rotta, si è detto favorevole. Il resto del partito non ne vuole sapere. Da ultima, l'ha ribadito l'ex ministro della Difesa, Roberta Pinotti. Ma ad oggi le possibilità che l'entrata a gamba tesa della Lega riesca nel suo intento non sono tantissime. E sullo sfondo resta un governo di scopo o «istituzionale», come l'ha chiamato il senatore semplice di Scandicci. Un mega inciucio che, se mai dovesse superare le diversità di vedute sul taglio dei parlamentari e sull'avvio della Tav, potrà dare il via a un programma di governo orrorifico. Qualcosa che solo a pensarci fa venire la pelle d'oca, perché unirà l'atteggiamento anti impresa tipico dei 5 stelle, con la visione socialdemocratica e filo gender del Pd a cui si aggiunge un collante europeista di matrice quirinalizia. I punti in comune diventerebbero una leva per il pronto smantellamento del decreto Sicurezza e l'avvio dell'iter di legge per lo ius soli. Tutte e due le anime del Pd l'hanno sempre appoggiato, e una volta messo da parte Luigi Di Maio, avrebbe la meglio Roberto Fico che più volte ha spiegato di essere favorevole all'estensione della cittadinanza senza se e senza ma. D'altronde pure Beppe Grillo a momenti alterni ha speso parole positive per il progetto che farebbe la gioia di politici come Laura Boldrini ed Emma Bonino. Prima ancora di tale misura choc, l'alleanza Pd-5 stelle già a settembre potrebbe calendarizzare la legge sull'eutanasia. Lo scorso 31 luglio la commissione Giustizia e affari sociali aveva stoppato l'iter, lasciando comunque scoperto il fianco a una eventuale sentenza della Corte costituzionale che entro ottobre si dovrà pronunciare a seguito delle pendenze penali di Marco Cappato. Non è difficile immaginare gli effetti del combinato disposto dell'eco del caso Dj Fabo e di una maggioranza pro eutanasia. Così come non è difficile immaginare la gioia di Monica Cirinnà, che potrà mettere nel cestino il decreto Pillon e portare avanti le adozioni gay. Senza contare le altre tematiche relative al sostegno dei figli e alla procreazione assistita. Una coalizione così fatta d'altronde potrebbe avere anche un ministro della famiglia come Vincenzo Spadafora che certo di punti di vista in comune con l'ex titolare Lorenzo Fontana ne ha ben pochi. Unica differenza, un tale dicastero Pd-5 stelle potrebbe invece portare a casa la benedizione di padre Antonio Spadaro, direttore di La Civiltà Cattolica e indirettamente di parte della Cei, a indicare che il maxi inciucio su tutti i temi etici, gender e dell'immigrazione sarebbe con ogni probabilità spalleggiato dal Vaticano. A quel punto se la mossa di Salvini - lo ribadiamo - non dovesse portare al voto immediato, la futura coalizione sarebbe ovviamente chiamata a gestire la legge Finanziaria. I 5 stelle non potrebbero mai rinunciare al reddito di cittadinanza, anzi per sottolineare il valore del cambio di passo cercherebbero di allargarne la portata. I renziani, per non essere da meno, estenderebbero a loro volta gli 80 euro con cui l'ex sindaco di Firenze ottenne il 40% di voti. Da quanto risulta alla Verità, Bruxelles sarebbe disposta ad accettare che il deficit di un simile esecutivo arrivi al 2,9%, dall'attuale 2. Si tratterebbe di una capacità di spesa a debito pari a circa 15 miliardi. Renzi e il resto del Pd (come più volte ha dichiarato il M5s) non lasceranno salire l'Iva, e quindi potranno usare questa concessione per non disinnescare le clausole di salvaguardia. Il resto delle misure dovrà essere coperto da nuove tasse. Sinistra e grillini hanno in comune (oltre a quanto abbiamo già elencato) l'odio per la ricchezza altrui. Basterà applicare su mandato europeo una patrimoniale sulle rendite immobiliari e aumentare i capital gain (già al 26%). Il motto sarà: se il debito pubblico è alto, usiamo la ricchezza privata. Nulla di nuovo: basta leggere tutti i paper del Fmi e dei centri studi tedeschi, che da sempre suggeriscono la super patrimoniale per risolvere i guai dell'Italia. Ci sarebbero proteste di piazza? Che importa. A quel punto il mega inciucio avrà le spalle coperte dall'asse franco tedesco e potrà azzerare la legge leghista sul golden power (che se non viene approvata entro fine settembre scade) e aprire le danze alla vendita di asset del Paese. Non pensiate sia un'esagerazione. Parigi attende il semaforo verde per fare shopping a super sconto nel settore della Difesa, e la Cina aspetta l'ok per gestire il 5G. Le aziende di Pechino porteranno inizialmente qualche miliardo d'investimento sulla banda ultra veloce, ma ci faranno tagliare i ponti una volta per tutte con gli Stati Uniti. Si realizzerebbe così il sogno di chi sta cercando di mettere in pista il papocchio. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-papocchio-regala-patrimoniale-gender-e-addio-sicurezza-2639805773.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nellesecutivo-horror-si-salva-tria-dentro-fico-giachetti-e-minniti" data-post-id="2639805773" data-published-at="1765672938" data-use-pagination="False"> Nell’esecutivo horror si salva Tria. Dentro Fico, Giachetti e Minniti Un governo anti-elettorale, che passeggia come un fantasma, per i corridoi del Senato. Alle sei di sera, finalmente, un ministro della Lega, off the record, mi dice: «Stanno provando a fregarci, ma noi siamo più furbi di loro». Il fantasma del governo ha scavato così, come una talpa il suo tunnel nella crisi. E il ministro leghista continua: «Noi lo sappiamo. Loro hanno già pronto il loro “governo del niente". A questo punto facciamo una contromossa, e se andiamo all'opposizione», chiude il ministro «per loro sarà il Vietnam. Io sono già pronto». Dopodiché tutto ciò che era accaduto fino a quel momento è improvvisamente invecchiato. Ad esempio, la conferenza stampa di Matteo Renzi, che secondo qualcuno doveva annunciare una scissione, e che alla fine ha partorito il topolino di qualche dichiarazione. Nessuno poteva muoversi dal tavolo, perché nessuno era in grado di prevedere cosa sarebbe accaduto. Cosi soltanto questo governo che si è manifestato ieri nei corridoi del Senato, come una fantasma e come una certezza, spiega la «contromossa» teatrale di Matteo Salvini. E il punto in fondo è questo. Dentro il Pd, una corrente vicina al Quirinale pressava sempre di più per un nuovo esecutivo, e acquistava forza con il passare delle ore: a tessere questa tela c'è Dario Franceschini, ex pupillo del Presidente della Repubblica, sostenitore storico dell'accordo con i pentastellati e ovviamente futuro ministro di peso di questo ipotetico programma. Oggi più forte di ieri. Ma qualcosa accade anche fuori dal Pd, dove l'opinione pubblica di sinistra ha iniziato a gridare contro il voto anticipato «che regala l'Italia a Salvini». Uomini preziosi nel Palazzo, come la vecchia volpe Luigi Zanda, hanno iniziato a tessere la tela dei rapporti istituzionali e a tenere aggiornato il pallottoliere. Quale? Quello dei senatori che seguirebbero Matteo Renzi in caso di addio. Quanti? «Non più di venti, forse meno», spiegava Zanda al suo segretario, come un capo di stato maggiore che aggiorna un bollettino di guerra. E così anche Nicola Zingaretti si è convinto che la via proposta dal suo mentore, Goffredo Bettini («Un governo può essere solo di respiro») poteva mettere fuori gioco sia il pericoloso nemico interno, Matteo Renzi, sia l'avversario con interessi convergenti, Matteo Salvini. A questo punto il leader leghista ha fiutato l'aria e ha provato a far saltare il tavolo. In una trattativa che correva sotto traccia, ma di cui affioravano tracce sui giornali, sulle agenzie, e soprattutto nei corridoi già si iniziava a delineare chi era dentro e chi fuori. La trattativa del governo Pd-M5s: perché sotto la cornice dell'esecutivo «istituzionale» per «mettere in sicurezza i conti» c'è anche un meno aulico intreccio di veti, di calcoli, di caselle da riempire. E un totonomi di ministri che per tutto ieri, prima del guizzo salviniano, han continuato a rimbalzare e forse ricomincerà da oggi. E allora, eccolo: dentro Elisabetta Trenta e dentro Giovanni Tria e Alfonso Bonafede, quelli che Salvini voleva decapitare. E dentro l'ala sinistra del movimento, Fico e Di Battista. Perché? Perché il Pd non si fidava, e voleva i big del Movimento, quindi con ogni probabilità anche Stefano Patuanelli, decisivo per manovrare bene il gruppo al Senato in questa fase. Sperava, il Pd, di poter porre un veto su Luigi Di Maio, ma non poteva porlo su Giuseppe Conte, referente diretto del Quirinale in queste ore delicate per il Movimento: perfino Renzi ieri è stato meno spietato del solito con l'«avvocato del popolo». Restavano ovviamente i tecnici vicini al Colle, oltre ai già citati c'era anche Enzo Moavero Milanesi. E con queste caratteristiche si arrivava a un patto ammanettato capace di dare l'unica garanzia su cui il Pd non può cedere: un vero governo di legislatura. Ma anche il M5s poneva i suoi veti: non Matteo Renzi, ovviamente. No a Luca Lotti, ovviamente. Non Maria Elena Boschi, senza nemmeno il bisogno di chiedere il perché. E alla fine, se il Pd avesse davvero fatto questo passo, l'unico della componente di minoranza che avrebbe potuto superare il fuoco di sbarramento era soltanto uno: Roberto Giachetti. Via libera, invece, per i pontieri di queste ore: Bettini su tutti, ma anche Marco Minniti. Ma se tu arrivi a discutere le pregiudiziali, di gradimenti, e le ipotesi, in realtà tu stai già discutendo di fare un governo. E questo tavolo di discussione, che è stato quantomeno rallentato ieri per la mossa di Salvini, non è ancora saltato. La discussione sul calendario, e quella sulla sfiducia, diventano giocoforza del fatti parlamentari che disegnano dentro le camere il profilo di una nuova maggioranza. La partita si allunga, e il governo di legislatura continuo a camminare, come un fantasma, nei corridoi del palazzo. E anche il totoministri del governo Pd-M5s, che da ieri è un po' meno probabile ma non per questo morto prima del concepimento.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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