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2022-05-25
Il Papa blinda la Cei e «incastra» Zuppi, l’aspirante pontefice
Matteo Maria Zuppi (Imagoeconomica)
«I vescovi devono sentirsi liberi di votare». Questo avrebbe detto papa Francesco lunedì mattina, in un incontro a porte chiuse con i vescovi italiani che, dai resoconti trapelati, risulta essere stato scoppiettante. Impegnati nell’Assemblea generale i presuli italiani sono stati appunto chiamati ad eleggere il successore del presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, e lo hanno fatto ieri mattina individuando la terna di nomi da sottoporre poi al Papa per la scelta definitiva. E alla fine il Papa ha scelto come nuovo presidente della Cei il cardinale di Bologna, Matteo Maria Zuppi, 66 anni, già figura di punta dell’Onu di Trastevere, la Comunità di S. Egidio, e vescovo ausiliare di Roma dal 2012, quindi successore del cardinale Carlo Caffarra a Bologna per espressa volontà di Francesco.
Ma il voto dei vescovi riuniti in assemblea più che libero è stato ampiamente indirizzato dal Papa stesso, tanto che la terna uscita ieri dalle urne è stata quasi perfettamente corrispondente alle attese, fatto salvo il terzo nome indicato, quello di monsignor Antonino Raspanti, 62 anni, vescovo di Acireale (avrebbe incassato 21 voti). Ma si trattava di un outsider, gli altri due nomi sono stati, nell’ordine delle preferenze ricevute, quelli dei cardinali Matteo Maria Zuppi, 66 anni, arcivescovo di Bologna (108 voti), e Augusto Paolo Lojudice, 57 anni, vescovo di Siena (41 voti), cioè i due profili chiaramente emersi dai desiderata papali come espressi anche nell’intervista da lui concessa al direttore del Corriere qualche settimana fa. «Preferisco che sia un cardinale», aveva detto papa Bergoglio a Luciano Fontana, aggiungendo in altra occasione che lo voleva anche sufficientemente giovane da non superare l’età canonica per la pensione, i 75 anni, prima della scadenza del quinquennio nel 2027. I nomi di Zuppi e Lojudice quindi sono gli unici che, come ampiamente atteso, rispondevano all’identikit, con l’aggiunta di essere particolarmente vicini allo stile e alla mens di Francesco.
I due sono considerati pastori in uscita, come si dice secondo un ritornello caro al pontefice, e due preti di strada, secondo un altro mantra di moda, ma tra loro sembrava essere in pole il cardinale di Siena, sebbene con un profilo meno «politico» di quello di chi viene dalla scuola di S. Egidio, la comunità fondata a Roma dal professor Andrea Riccardi nel 1968. Secondo molte indiscrezioni il cardinale Zuppi recalcitrava all’idea di impegnarsi nella presidenza Cei, anche perché è dato da più parti come uno dei candidati forti per un prossimo conclave e l’idea di assumere le tante beghe che un capo dei vescovi deve prendersi sulle spalle, non appare propriamente come una vetrina utile allo scopo. Le patate bollenti di cui si dovrà occupare Zuppi, in primis la questione spinosa degli abusi del clero, come si può già intravedere da quanto accaduto in Francia e Spagna, e dalle pressioni esterne che proprio in questi giorni sono arrivate ai vescovi italiani riuniti in assemblea, saranno forse il dossier più ostico, ma ci sono anche i rapporti politici, quelli dottrinali, quelli con la stessa curia romana. Per quanto Zuppi certamente si impegnerà, i riflettori saranno tutti puntati su di lui e ogni più piccola stecca sarà registrata dagli spettatori. Ecco allora che quello che veniva dato come il più forte candidato per succedere a Francesco, con questa «inattesa» elezione in qualche modo viene ridimensionato, insieme ai progetti di S. Egidio che secondo diverse interpretazioni da tempo è impegnata a lavorare al prossimo conclave. Nulla è compromesso in linea di principio, ma è evidente che Zuppi presidente della Cei è una grossa novità sul ruolo dei papabili di un futuro conclave.
Sembrava proprio che il Papa fosse orientato sul cardinale Lojudice, pensando per lui anche un ritorno a Roma in veste di vicario, invece, il Papa, forse un po’ a sorpresa, ha scelto Zuppi, probabilmente rispondendo alla messe di voti che lo ha indicato come numero 1 della terna.
Perché l’incontro a porte chiuse di lunedì è stata luogo di molti mal di pancia, tanto che la frase di Francesco che invitava a «votare liberamente» è suonata nelle orecchie di molti vescovi dal sapore retorico, visto che è arrivata dopo una tirata del Papa che ha affossato senza mezzi termini la candidatura di monsignor Erio Castellucci, vescovo di Modena. «So che è un bravo vescovo e che è il candidato di Bassetti», avrebbe detto Francesco, «ma io preferisco un cardinale». L’ex presidente Bassetti, che già è uscito di scena senza troppi complimenti, trovandosi accolte senza colpo ferire anche le sue dimissioni da vescovo di Perugia, ha incassato così un altro bel «buffetto» papale.
A questo punto si dice che un vescovo sia intervenuto in aula chiedendo direttamente al Papa a cosa servisse tutto questo sfoggio di democrazia, se l’elezione di fatto era già orientata verso i nomi di Zuppi e Lojudice. Una domanda, se veramente c’è stata, che ha una sua innegabile dose di buon senso. Che il mal di pancia abbia preso molti vescovi lunedì è testimoniato dal fatto che monsignor Castellucci, nonostante il netto niet del Papa espresso davanti a tutti, sembra abbia preso parecchi voti nelle prima tornata di ieri mattina, salvo poi ritirarsi proprio perché memore della tirata papale nei suoi confronti. Ecco allora che il Papa potrebbe aver scelto Zuppi anziché Lojudice per dare atto del rispetto di una certa democraticità dell’elezione: il cardinale di Bologna è quello che ha preso più voti e il Papa ha «ratificato».
«Cercherò di fare del mio meglio, ce la metterò tutta», sono le prime parole del neo presidente dei vescovi italiani. Ma il primo ad essere sorpreso per questa elezioni è forse lo stesso Zuppi, che di imbarcarsi in questa avventura pare non avesse tanta voglia.
Filo rosso con sardine e Sant’Egidio. È la vittoria dell’ala vicina a Pechino
L’ascesa dell’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, a nuovo presidente della Cei è un elemento da considerare (anche) sotto il profilo della geopolitica vaticana: soprattutto alla luce del fatto che Papa Francesco in persona sembrerebbe aver giocato un ruolo cruciale nel processo che ha portato alla scelta del cardinale. Alla luce di ciò, la nomina di Zuppi deve probabilmente essere inserita nel più ampio contesto della distensione che, ormai da alcuni anni, la Santa sede sta portando avanti nei confronti della Repubblica popolare cinese.
Non dimentichiamo infatti che il cardinale intrattiene strettissimi legami con la Comunità di Sant’Egidio: un’organizzazione che è nota sostenitrice della nuova Ostpolitik vaticana. Nel settembre 2018, il fondatore della Comunità, Andrea Riccardi, elogiò sul Corriere della Sera il controverso accordo tra Vaticano e Cina, che era stato appena siglato e che sarebbe stato rinnovato per altri due anni nell’ottobre 2020. Era invece il 2019, quando Riccardi presenziò alla presentazione romana di L’accordo fra la Santa Sede e la Cina. I cattolici cinesi tra passato e futuro: libro, curato da Agostino Giovagnoli ed Elisa Giunipero: due accademici legati alla Comunità di Sant’Egidio, che fanno tra l’altro parte del comitato scientifico dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica. Non solo: a quella presentazione presero parte, tra gli altri, monsignor Claudio Maria Celli e Romano Prodi. L’ex premier, in particolare, è uno storico sostenitore del «dialogo» tra Occidente e Cina, oltre a essere considerato – come lo stesso Zuppi – vicino al movimento delle sardine.
Tra l’altro, lo scorso settembre, proprio Giovagnoli moderò un dibattito online che si intitolava significativamente «Occidente e Cina: dialogo e collaborazione tra XX e XXI secolo». A quell’evento prese parte, tra gli altri, il vice capo missione dell’ambasciata cinese in Italia Zheng Xuan, mentre inviarono i loro saluti il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Quello stesso Parolin che, oltre ad essere piuttosto vicino a Sant’Egidio, è stato uno dei principali artefici dell’accordo tra Santa sede e Cina, difendendolo a spada tratta due anni fa dalle critiche dell’amministrazione Trump. Celli è stato invece stretto collaboratore del defunto cardinale Achille Silvestrini: protagonista dell’Ostpolitik vaticana, costui fu mentore di quel Giuseppe Conte che, da premier, ha avvicinato notevolmente l’Italia alla Cina.
D’altronde, i legami giallorossi non si fermano qui. Fu infatti proprio Goffredo Bettini (notorio tessitore, non esattamente atlantista, dell’alleanza tra Pd e Movimento 5 Stelle) a proporre per primo Riccardi come presidente della Repubblica lo scorso gennaio, parlando al Corriere della Sera. E proprio Riccardi venne presentato come candidato al Quirinale in un primo momento da Enrico Letta. Il network di Sant’Egidio trova quindi i propri riferimenti coesivi su svariati piani: l’alleanza giallorossa a livello politico; il terzomondismo e il cattolicesimo progressista a livello ideologico; la distensione con la Cina a livello internazionale.
Ora, va da sé che il ruolo di presidente della Cei ha un carattere prevalentemente nazionale. Scegliere Zuppi (per cui il pontefice ha appositamente creato il titolo cardinalizio di Sant’Egidio nel 2019) può però avere anche un risvolto geopolitico, perché significa rafforzare indirettamente un’organizzazione già di per sé influente, oltre che significativamente favorevole all’avvicinamento tra il Vaticano e Pechino. Un segnale inviato probabilmente alla Repubblica popolare e (forse) anche a quei settori della Chiesa che mal digeriscono questa distensione filocinese. Un segnale arrivato a neanche due settimane dall’arresto del cardinale Joseph Zen.
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Francesco ha orientato l’assemblea verso i nomi a lui più graditi. Promosso il cardinale di Bologna: per lui si complica il Conclave.Il prelato ha legami con la comunità di Andrea Riccardi, sostenitrice di un’apertura alla Cina.Lo speciale contiene due articoli.«I vescovi devono sentirsi liberi di votare». Questo avrebbe detto papa Francesco lunedì mattina, in un incontro a porte chiuse con i vescovi italiani che, dai resoconti trapelati, risulta essere stato scoppiettante. Impegnati nell’Assemblea generale i presuli italiani sono stati appunto chiamati ad eleggere il successore del presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, e lo hanno fatto ieri mattina individuando la terna di nomi da sottoporre poi al Papa per la scelta definitiva. E alla fine il Papa ha scelto come nuovo presidente della Cei il cardinale di Bologna, Matteo Maria Zuppi, 66 anni, già figura di punta dell’Onu di Trastevere, la Comunità di S. Egidio, e vescovo ausiliare di Roma dal 2012, quindi successore del cardinale Carlo Caffarra a Bologna per espressa volontà di Francesco.Ma il voto dei vescovi riuniti in assemblea più che libero è stato ampiamente indirizzato dal Papa stesso, tanto che la terna uscita ieri dalle urne è stata quasi perfettamente corrispondente alle attese, fatto salvo il terzo nome indicato, quello di monsignor Antonino Raspanti, 62 anni, vescovo di Acireale (avrebbe incassato 21 voti). Ma si trattava di un outsider, gli altri due nomi sono stati, nell’ordine delle preferenze ricevute, quelli dei cardinali Matteo Maria Zuppi, 66 anni, arcivescovo di Bologna (108 voti), e Augusto Paolo Lojudice, 57 anni, vescovo di Siena (41 voti), cioè i due profili chiaramente emersi dai desiderata papali come espressi anche nell’intervista da lui concessa al direttore del Corriere qualche settimana fa. «Preferisco che sia un cardinale», aveva detto papa Bergoglio a Luciano Fontana, aggiungendo in altra occasione che lo voleva anche sufficientemente giovane da non superare l’età canonica per la pensione, i 75 anni, prima della scadenza del quinquennio nel 2027. I nomi di Zuppi e Lojudice quindi sono gli unici che, come ampiamente atteso, rispondevano all’identikit, con l’aggiunta di essere particolarmente vicini allo stile e alla mens di Francesco.I due sono considerati pastori in uscita, come si dice secondo un ritornello caro al pontefice, e due preti di strada, secondo un altro mantra di moda, ma tra loro sembrava essere in pole il cardinale di Siena, sebbene con un profilo meno «politico» di quello di chi viene dalla scuola di S. Egidio, la comunità fondata a Roma dal professor Andrea Riccardi nel 1968. Secondo molte indiscrezioni il cardinale Zuppi recalcitrava all’idea di impegnarsi nella presidenza Cei, anche perché è dato da più parti come uno dei candidati forti per un prossimo conclave e l’idea di assumere le tante beghe che un capo dei vescovi deve prendersi sulle spalle, non appare propriamente come una vetrina utile allo scopo. Le patate bollenti di cui si dovrà occupare Zuppi, in primis la questione spinosa degli abusi del clero, come si può già intravedere da quanto accaduto in Francia e Spagna, e dalle pressioni esterne che proprio in questi giorni sono arrivate ai vescovi italiani riuniti in assemblea, saranno forse il dossier più ostico, ma ci sono anche i rapporti politici, quelli dottrinali, quelli con la stessa curia romana. Per quanto Zuppi certamente si impegnerà, i riflettori saranno tutti puntati su di lui e ogni più piccola stecca sarà registrata dagli spettatori. Ecco allora che quello che veniva dato come il più forte candidato per succedere a Francesco, con questa «inattesa» elezione in qualche modo viene ridimensionato, insieme ai progetti di S. Egidio che secondo diverse interpretazioni da tempo è impegnata a lavorare al prossimo conclave. Nulla è compromesso in linea di principio, ma è evidente che Zuppi presidente della Cei è una grossa novità sul ruolo dei papabili di un futuro conclave.Sembrava proprio che il Papa fosse orientato sul cardinale Lojudice, pensando per lui anche un ritorno a Roma in veste di vicario, invece, il Papa, forse un po’ a sorpresa, ha scelto Zuppi, probabilmente rispondendo alla messe di voti che lo ha indicato come numero 1 della terna.Perché l’incontro a porte chiuse di lunedì è stata luogo di molti mal di pancia, tanto che la frase di Francesco che invitava a «votare liberamente» è suonata nelle orecchie di molti vescovi dal sapore retorico, visto che è arrivata dopo una tirata del Papa che ha affossato senza mezzi termini la candidatura di monsignor Erio Castellucci, vescovo di Modena. «So che è un bravo vescovo e che è il candidato di Bassetti», avrebbe detto Francesco, «ma io preferisco un cardinale». L’ex presidente Bassetti, che già è uscito di scena senza troppi complimenti, trovandosi accolte senza colpo ferire anche le sue dimissioni da vescovo di Perugia, ha incassato così un altro bel «buffetto» papale. A questo punto si dice che un vescovo sia intervenuto in aula chiedendo direttamente al Papa a cosa servisse tutto questo sfoggio di democrazia, se l’elezione di fatto era già orientata verso i nomi di Zuppi e Lojudice. Una domanda, se veramente c’è stata, che ha una sua innegabile dose di buon senso. Che il mal di pancia abbia preso molti vescovi lunedì è testimoniato dal fatto che monsignor Castellucci, nonostante il netto niet del Papa espresso davanti a tutti, sembra abbia preso parecchi voti nelle prima tornata di ieri mattina, salvo poi ritirarsi proprio perché memore della tirata papale nei suoi confronti. Ecco allora che il Papa potrebbe aver scelto Zuppi anziché Lojudice per dare atto del rispetto di una certa democraticità dell’elezione: il cardinale di Bologna è quello che ha preso più voti e il Papa ha «ratificato».«Cercherò di fare del mio meglio, ce la metterò tutta», sono le prime parole del neo presidente dei vescovi italiani. Ma il primo ad essere sorpreso per questa elezioni è forse lo stesso Zuppi, che di imbarcarsi in questa avventura pare non avesse tanta voglia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-papa-blinda-la-cei-e-incastra-zuppi-laspirante-pontefice-2657387352.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="filo-rosso-con-sardine-e-santegidio-e-la-vittoria-dellala-vicina-a-pechino" data-post-id="2657387352" data-published-at="1653486432" data-use-pagination="False"> Filo rosso con sardine e Sant’Egidio. È la vittoria dell’ala vicina a Pechino L’ascesa dell’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, a nuovo presidente della Cei è un elemento da considerare (anche) sotto il profilo della geopolitica vaticana: soprattutto alla luce del fatto che Papa Francesco in persona sembrerebbe aver giocato un ruolo cruciale nel processo che ha portato alla scelta del cardinale. Alla luce di ciò, la nomina di Zuppi deve probabilmente essere inserita nel più ampio contesto della distensione che, ormai da alcuni anni, la Santa sede sta portando avanti nei confronti della Repubblica popolare cinese. Non dimentichiamo infatti che il cardinale intrattiene strettissimi legami con la Comunità di Sant’Egidio: un’organizzazione che è nota sostenitrice della nuova Ostpolitik vaticana. Nel settembre 2018, il fondatore della Comunità, Andrea Riccardi, elogiò sul Corriere della Sera il controverso accordo tra Vaticano e Cina, che era stato appena siglato e che sarebbe stato rinnovato per altri due anni nell’ottobre 2020. Era invece il 2019, quando Riccardi presenziò alla presentazione romana di L’accordo fra la Santa Sede e la Cina. I cattolici cinesi tra passato e futuro: libro, curato da Agostino Giovagnoli ed Elisa Giunipero: due accademici legati alla Comunità di Sant’Egidio, che fanno tra l’altro parte del comitato scientifico dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica. Non solo: a quella presentazione presero parte, tra gli altri, monsignor Claudio Maria Celli e Romano Prodi. L’ex premier, in particolare, è uno storico sostenitore del «dialogo» tra Occidente e Cina, oltre a essere considerato – come lo stesso Zuppi – vicino al movimento delle sardine. Tra l’altro, lo scorso settembre, proprio Giovagnoli moderò un dibattito online che si intitolava significativamente «Occidente e Cina: dialogo e collaborazione tra XX e XXI secolo». A quell’evento prese parte, tra gli altri, il vice capo missione dell’ambasciata cinese in Italia Zheng Xuan, mentre inviarono i loro saluti il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Quello stesso Parolin che, oltre ad essere piuttosto vicino a Sant’Egidio, è stato uno dei principali artefici dell’accordo tra Santa sede e Cina, difendendolo a spada tratta due anni fa dalle critiche dell’amministrazione Trump. Celli è stato invece stretto collaboratore del defunto cardinale Achille Silvestrini: protagonista dell’Ostpolitik vaticana, costui fu mentore di quel Giuseppe Conte che, da premier, ha avvicinato notevolmente l’Italia alla Cina. D’altronde, i legami giallorossi non si fermano qui. Fu infatti proprio Goffredo Bettini (notorio tessitore, non esattamente atlantista, dell’alleanza tra Pd e Movimento 5 Stelle) a proporre per primo Riccardi come presidente della Repubblica lo scorso gennaio, parlando al Corriere della Sera. E proprio Riccardi venne presentato come candidato al Quirinale in un primo momento da Enrico Letta. Il network di Sant’Egidio trova quindi i propri riferimenti coesivi su svariati piani: l’alleanza giallorossa a livello politico; il terzomondismo e il cattolicesimo progressista a livello ideologico; la distensione con la Cina a livello internazionale. Ora, va da sé che il ruolo di presidente della Cei ha un carattere prevalentemente nazionale. Scegliere Zuppi (per cui il pontefice ha appositamente creato il titolo cardinalizio di Sant’Egidio nel 2019) può però avere anche un risvolto geopolitico, perché significa rafforzare indirettamente un’organizzazione già di per sé influente, oltre che significativamente favorevole all’avvicinamento tra il Vaticano e Pechino. Un segnale inviato probabilmente alla Repubblica popolare e (forse) anche a quei settori della Chiesa che mal digeriscono questa distensione filocinese. Un segnale arrivato a neanche due settimane dall’arresto del cardinale Joseph Zen.
Il sindaco di New York Zohran Mamdani (Ansa)
L’uomo che ha portato il comunismo nel cuore di New York, sfruttando anche il phisique du rôle terzomondista e una certa retorica populista, ha già annunciato che lascerà il suo modesto appartamento con affitto controllato per la lussuosa residenza ufficiale del sindaco a Manhattan. La decisione è stata annunciata ieri con un post su Instagram, insieme a una foto di una replica in miniatura della villa. «La settimana scorsa abbiamo visto la nostra nuova casa!», ha detto.
Il democratico, che entrerà in carica il primo gennaio, si trasferirà nello stesso mese alla Gracie Mansion, una casa di 1.000 metri quadrati costruita nel 1799 nell’elegante Upper East Side, sulle rive dell’East River, immersa in un parco verdeggiante, che divenne la residenza ufficiale del sindaco nel 1942. Un atto dovuto? Non proprio. Non vi è infatti alcun obbligo per i sindaci di risiedere lì, sebbene la maggior parte di loro abbia risieduto nella villa, con la notevole eccezione di Michael Bloomberg (2002-2013). In una dichiarazione, Mamdani ha affermato che lui e sua moglie, l’illustratrice Rama Duwaji, hanno preso questa decisione principalmente per motivi di «sicurezza» e che stanno «lasciando a malincuore il bilocale» che la coppia condivide ad Astoria, un quartiere popolare del Queens con una numerosa popolazione di immigrati.
«Ci mancheranno molte cose del nostro appartamento di Astoria. Preparare la cena fianco a fianco nella nostra cucina, condividere un sonnolento viaggio in ascensore con i nostri vicini la sera, sentire musica e risate risuonare attraverso le pareti dell’appartamento», ha scritto, con una retorica strappa like.
Mamdani ha fatto del costo della vita un tema centrale della sua campagna, promettendo in particolare alloggi più accessibili. Il fatto che lui stesso vivesse in uno di questi appartamenti, al costo di 2.300 dollari al mese, ha attirato le critiche dei suoi oppositori, che ritengono che il suo stipendio da 142.000 dollari da membro dell’Assemblea dello Stato di New York e il reddito della moglie permettessero alla coppia di stabilirsi in un appartamento al di fuori di tale quadro normativo. «Anche quando non vivrò più ad Astoria, Astoria continuerà a vivere in me e nel lavoro che svolgo», ha promesso. Non ha infine rinunciato a un altro sermone sociale da campagna elettorale: «La mia priorità, da sempre, è servire le persone che chiamano questa città casa. Sarò il sindaco dei cuochi di Steinway, dei bambini che si dondolano al Dutch Kills Playground, dei passeggeri dell’autobus che aspettano il Q101». Solo che da adesso li vedrà col binocolo dal suo ampio terrazzo.
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Vediamo i dettagli: per quel che riguarda i rimpatri, la modifica del regolamento sul concetto di «Paese terzo sicuro» consentirà agli Stati europei di respingere una richiesta di asilo senza entrare nel merito della singola pratica, ma dichiarando la domanda stessa come «irricevibile» già al momento della presentazione se il richiedente avrebbe potuto ottenere asilo in un altro Paese considerato sicuro. Gli Stati potranno applicare il concetto di Paese terzo sicuro sulla base di tre elementi: l’esistenza di un legame tra il richiedente asilo e il Paese terzo; se il richiedente ha transitato attraverso il Paese terzo prima di raggiungere l’Ue; se esiste un accordo con un Paese terzo sicuro che garantisce che la domanda di asilo sarà esaminata. Il Consiglio ha finalmente messo nero su bianco la lista dei Paesi di origine da considerare sicuri: oltre a quelli candidati a far parte dell’Unione, troviamo anche Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia. Ricorderete tutti che alcuni magistrati italiani hanno bloccato il rimpatrio di immigrati provenienti da Egitto e Bangladesh, perché considerati non sicuri: ora la nuova lista dovrebbe mettere fine a ogni dubbio. «Abbiamo un afflusso molto elevato di migranti irregolari», ha spiegato il ministro per l’Immigrazione della Danimarca, Rasmus Stoklund, il cui Paese detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, «e i paesi europei sono sotto pressione. Migliaia di persone annegano nel Mar Mediterraneo o subiscono abusi lungo le rotte migratorie, mentre i trafficanti di esseri umani guadagnano fortune. Ciò dimostra che l’attuale sistema crea strutture di incentivi malsane e un forte fattore di attrazione, difficili da eliminare. La Danimarca e la maggior parte degli Stati membri dell’Ue si sono battuti per l’esame delle domande di asilo in paesi terzi sicuri, al fine di eliminare gli incentivi a intraprendere viaggi pericolosi verso l’Ue».
In sostanza, gli Stati europei potranno realizzare centri per l’esame delle domande di asilo nei Paesi di partenza o di transito dei migranti, bloccando chi non ha i requisiti ancora prima che inizi il viaggio. «Sugli hub per i rimpatri», ha sottolineato Magnus Brunner, commissario Ue per gli Affari interni e la Migrazione, «si tratta di negoziati tra gli Stati membri e poi con i Paesi terzi. Sarebbe positivo, naturalmente, se più parti unissero le forze. Penso ai Paesi Bassi, che stanno discutendo con l’Uganda. La Germania ha già aderito ai colloqui. Così come l’Italia e l’Albania».
A margine dell’intesa, tuttavia, arriva anche la notizia meno piacevole di un accordo con Italia e Grecia che permetterà a Berlino di riconsegnare tutti i migranti che sono arrivati nei due Paesi, sono stati lì registrati e poi hanno scelto di trasferirsi in Germania. Lo ha riferito ieri il quotidiano tedesco Bild spiegando che le norme dovrebbero essere operative a partire da giugno 2026.
«Ottimo lavoro! Le misure di solidarietà stanno dando il via all’attuazione del Patto su migrazione e asilo. E tutte adottate in tempi record. Il Patto, insieme alle proposte sul rimpatrio e sui Paesi sicuri, rivede la nostra politica migratoria. È molto di più: solidarietà. Sicurezza. Responsabilità. Ed efficienza», ha scritto e su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sempre Brunner ha inoltre commentato: «Direi che oggi, con queste riforme, stiamo mettendo in ordine la casa europea e queste riforme che abbiamo concordato oggi sono la base per avere una politica migratoria in atto nell’interesse degli europei. Questo è importante, garantire che abbiamo il controllo su chi può entrare nell’Ue, chi può rimanere e chi deve lasciare di nuovo l’Unione Europea».
Inevitabilmente soddisfatto il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi: «La svolta che il governo italiano ha chiesto in materia di migrazione c’è stata, finalmente abbiamo ottenuto una lista europea di Paesi di origine sicuri, riformato completamente il concetto di Paese terzo sicuro e ci avviamo a realizzare un sistema europeo per i rimpatri realmente efficace. In un momento decisivo per le politiche europee, ha prevalso l’approccio italiano. Gli Stati membri potranno finalmente applicare le procedure accelerate di frontiera (così come previsto dal protocollo Italia-Albania) e a questo si aggiunge l’importante novità che i ricorsi giudiziari non avranno più effetto sospensivo automatico della decisione di rimpatrio. Inoltre», aggiunge, «la definizione di una lista europea dei Paesi terzi sicuri, dove compaiono oltre ai Paesi candidati alla adesione anche Paesi quali Egitto, Tunisia e Bangladesh è in linea con i provvedimenti già adottati dall’Italia». «Accogliamo con grande soddisfazione», commenta Carlo Fidanza, capodelegazione di Fdi-Ecr al Parlamento europeo, «l’accordo. È un risultato che conferma quanto l’Italia guidata abbia fornito una linea chiara e coerente all’Europa sull’immigrazione».
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Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
«Il discorso di Vance a Monaco e i numerosi tweet del presidente Trump sono diventati ufficialmente dottrina statunitense. E come tali, dobbiamo riconoscerlo e agire di conseguenza», riflette il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, nel suo intervento all’Institute Jacques Delors. «Cosa significa? Abbiamo bisogno di qualcosa di più di una semplice energia rinnovata. Dobbiamo lavorare insieme per costruire un’Europa che comprenda che i rapporti tra gli Alleati e le alleanze del secondo dopoguerra sono cambiati. Sappiamo già che Europa e Stati Uniti non condividono la stessa visione dell’ordine internazionale».
Costa, in buona sostanza, accusa Washington di non avere rispetto: «Gli alleati non minacciano l’interferenza nella vita politica. Nella vita politica interna di questi alleati, ci si rispetta, si rispetta la sovranità gli uni degli altri. Sicuramente molti europei non condividono la stessa visione degli americani su diversi temi ed è naturale che loro non condividano la nostra; quello che non possiamo accettare è questa la minaccia di interferenza nella vita politica dell’Europa». Quindi chiosa: «Gli Stati Uniti non possono sostituirsi ai cittadini europei per scegliere quali siano i partiti buoni e quelli cattivi. Gli Stati Uniti non possono sostituirsi all’Europa sulla visione che abbiamo della libertà di espressione, e su questo bisogna essere chiari», ha aggiunto. «La nostra storia ci ha insegnato che non esiste libertà di espressione senza libertà di informazione. E la libertà di informazione esiste solo quanto più c’è rispetto per il pluralismo. E così non esiste mai libertà di informazione se c’è il monopolio di una sola piattaforma. E non ci sarà libertà di espressione se la libertà di informazione dei cittadini viene sacrificata per difendere gli interessi degli oligarchi tecnologici degli Stati Uniti». Il riferimento è diretto a Elon Musk, che nelle ore precedenti aveva paragonato l’Unione europea al Terzo Reich su X.
Insomma, Costa non l’ha presa bene, ma non è il solo. Anche buona parte dei dem italiani sono sulla stessa lunghezza d’onda. Filippo Sensi , senatore del Pd, ha persino invocato una manifestazione su modello di quella che fu di Michele Serra. «Sarebbe ora, stavolta in Campidoglio per raggiungere il Colosseo illuminato dalla bandiera dell’Unione. Per dire dove siamo, chi siamo, per cosa vale la pena di combattere. Chi ci sta?». Anche la segretaria del Pd Elly Schlein coglie l’occasione. Più per attaccare il governo che per sventolare europeismo. «Questa convergenza nell’attacco all’Ue dimostra quanto sia reale il rischio che denunciamo da mesi. O l’Europa fa un salto in avanti di integrazione politica oppure rischia di essere schiacciata e messa al margine dalle grandi potenze che la circondano e che trovano un obiettivo comune nell’indebolirla. L’Europa sarà federale o non sarà» chiarisce convinta. Poi l’affondo al governo: «Non può far finta di nulla ammiccando in modo subalterno agli attacchi di Trump. La strategia di Putin e anche di Trump è evidente: dividerci, per renderci più vulnerabili singolarmente. E purtroppo trovano sponda in alcuni governi nazionalisti europei. Il governo Meloni non si presti a questo gioco e non si faccia utilizzare per andare contro anche agli stessi interessi dei cittadini italiani».
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Giulio Sapelli (Ansa)
Un cambiamento che resisterà anche una volta che Trump non ci sarà più?
«La classe dirigente americana è molto cambiata. Le trasformazioni sono iniziate negli anni Ottanta con la crescente influenza delle università francesi (con il pensiero decostruttivista di Derrida e Foucault) sull’élite universitaria nordamericana. Questo ha provocato una reazione culturale che ha colpito sia il fronte democratico che quello repubblicano. Tradizionalmente, si pensava che la scuola del multilateralismo fosse di matrice democratica. I “leostraussiani della costa atlantica”, seguaci di Leo Strauss, un importante pensatore critico di Machiavelli, sostenevano l’impetuosità e la necessità dell’intervento americano all’estero. Per motivi umanitari e per portare la libertà».
Era anche l’essenza della dottrina dei neocon…
«Esattamente. Il culmine l’abbiamo avuto con la scenetta di Powell».
La fialetta con le armi chimiche…
«Il tutto a giustificare l’intervento per motivi umanitari in Iraq nel 2003. Il “trumpismo” rappresenta la reazione di una parte dell’establishment americano a questo pensiero dominante. Nasce da un altro filone di pensiero che parte sempre da Leo Strauss, ma che impone agli Stati Uniti la ripresa di temi tradizionalisti originali, inclusa la dottrina Monroe, e dell’intervento per salvaguardare l’interesse americano».
Sempre all’interventismo americano si arriva.
«Come spiegato da Alfred Hirschman in International trade and national power, la politica commerciale è spesso un mezzo per espandere il potere. L’establishment è cambiato radicalmente perché si è creata una cultura di destra completamente nuova, diversa dalla destra classica. Non qualificabile affatto, come fa qualcuno senza basi, nella cultura fascista o nazionalista. È una destra di reazione alla cultura woke. Molti intellettuali americani rifiutano la negazione delle radici giudaico-cristiane dell’Occidente. E si oppongono all’immigrazione gestita dal mercato, vale a dire dai trafficanti di uomini. Nella storia, sempre, le immigrazioni sono state controllate dagli Stati».
C’è una nascita del cattolicesimo negli Stati Uniti secondo lei?
«Di sicuro vedo come il fenomeno woke sia figlio di un intreccio fra neoateismo, transumanesimo e antisemitismo. Questo connubio mi fa veramente paura, e le posizioni trumpiane non sono la cura per questa situazione. Il rischio è che la cura sia peggiore del male».
Venendo al documento National security strategy?
«Segna un ritorno all’importanza degli Stati nazionali. Un ritorno al trattato di Vestfalia, dove ogni Stato è libero di avere la sua religione. Tuttavia, Trump esprime queste idee in forma caricaturale, con cadute di stile come quando si schiera esplicitamente a favore dei partiti di destra. Una cosa che di solito si fa ma non si scrive. Almeno in un documento come quello. Ma è innegabile che vi siano implicazioni rilevanti sul futuro dell’Unione europea. Intanto non è riuscita a darsi una Costituzione. E non può esistere uno Stato contemporaneo senza una costituzione. Invece si è affidata a una “burocrazia celeste”. Personificata alla perfezione da una figura come Ursula von der Leyen, figlia del primo direttore generale dell’Ue».
Ma in Europa i partiti euroscettici non vogliono una Costituzione.
«Nessuna di queste forze politiche pone l’accento sulla necessità di avere una Costituzione europea. Come anche i mandarini. Ecco perché intravedo uno scenario molto negativo. Accanto al ritorno degli Stati nazionali vedo anche il fallimento storico della borghesia europea. Il dirigismo europeo in campo ambientale ha finito per privarla di ampi margini in termini di capacità di azione e proprietà privata. L’esempio dello stop al motore termico è emblematico. I borghesi proprietari delle industrie automobilistiche sono stati espropriati della facoltà di decidere come utilizzare la loro proprietà da un insieme di trattati e decisioni prese da un Parlamento eletto su base nazionale, il quale però si limita ad approvare regolamenti e direttive di una Commissione non eletta. Questo ha distrutto l’industria europea, rendendola sempre più dipendente dalla Cina e strutturalmente dipendente dal fallimento del modello tedesco, che si fondava sull’accordo bipartisan Merkel e Schröder con la Russia».
In questo momento l’Unione europea non ha una strategia di pacificazione del quadrante Ucraina, perché di fatto sembra quasi che stia per intestarsi una sconfitta, quella di Kiev, non supportando il tentativo.
«È paradossale come tutto sia capovolto. Ci si aspetterebbe che a invocare l’uso delle armi e il riarmo fossero le forze di destra tradizionale, invece sono le forze cosiddette democratiche filo Ue che rifiutano il piano americano. E che pensano si possa addirittura creare un esercito comune. Molti esponenti di quelle forze, in un dibattito pubblico al Senato anni fa, mi hanno vilipeso e bollato come “guerrafondaio” semplicemente perché a suo tempo mi ero opposto all’abolizione della leva. Che ora prima o poi ritornerà».
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