
Il genitore, che come la figlia ha la cittadinanza italiana, ha confessato l'omicidio alle autorità pakistane. Ma nella comunità immigrata regna l'omertà: «Se parliamo del caso, i loro parenti ci faranno del male».Quello che era solo un sospetto, la fissazione, ipotizzava qualcuno, di un gruppo di amici con qualche pregiudizio culturale di troppo, è alla fine diventato una certezza: Sana Cheema è stata uccisa. La venticinquenne italopakistana morta il 18 aprile durante un soggiorno nel suo Paese di origine sarebbe stata vittima del più classico dei «delitti d'onore», come del resto accade a un migliaio di ragazze pakistane all'anno. Il padre della ragazza, da subito indicato come il possibile responsabile di quella morte apparsa immediatamente così strana, ha confessato l'omicidio. L'uomo, del resto, era agli arresti da settimane insieme al figlio Adnan Mustafa e al fratello Mazhar Iqbal. Secondo quanto riferiscono i media pakistani, Ghulam Mustafa, questo il nome del genitore, ha raccontato di essersi fatto aiutare da uno dei figli maschi per strangolare la ragazza, che si opponeva a un matrimonio combinato. Versione che combacia con i risultati dell'autopsia, che aveva segnalato la rottura dell'osso del collo della giovane. E ora a rischiare la pelle è proprio lui, il padre, dato che per il delitto potrebbe anche essere condannato alla pena capitale. D'altra parte, chi di «usanze locali» ferisce, di «usanze locali» perisce. Visto come si stanno mettendo le cose con la giustizia del suo Paese, il padre padrone sarà forse poco interessato al fatto che anche in Italia, finalmente, si è deciso di indagare sulla vicenda. Sana, infatti, era da poco diventata cittadina italiana. Anche il padre ha la cittadinanza nel nostro Paese. La questione, quindi, ci riguarda da vicino. La Procura di Brescia, di conseguenza, si è messa in contatto con l'ambasciata italiana a Islamabad per avere tutta la documentazione sul caso, avendo aperto un'inchiesta. Il fascicolo, al momento, è a carico di ignoti e mancano le ipotesi di reato. Una volta ricevuti i documenti, la Procura cercherà di capire anche i motivi della melina iniziale, quando la versione della famiglia sul «malore» e sulla morte naturale fu sostanzialmente presa per buona dalle autorità nazionali, senza fare tante domande. La polizia locale ha tentato di giustificarsi spiegando ai cronisti pachistani che la famiglia non aveva celebrato il processo in fretta e furia, evitando perfino dal comunicarne il decesso, come pure prescrive la legge. L'impressione, tuttavia, è che siano state la dimensione internazionale del caso e la conseguente pressione mediatica a dare una smossa all'inchiesta pakistana. Fosse stata una ragazza locale come tante, forse la versione del malore avrebbe retto senza contestazioni. Tutti avrebbero capito al volo la situazione, ma tutti avrebbero fatto finta di credere alla storia dell'infarto. Si sa, il paese è piccolo, ci si conosce tutti, non si mette il naso nelle famiglie degli altri. È piccolo Mangowal, il villaggio del Gujrat da cui proveniva la famiglia di Sana e in cui sarebbe avvenuto il delitto, il giorno prima del previsto ritorno della ragazza in Italia. Ma, a quanto pare, è piccola anche Brescia, la città di adozione della giovane. Repubblica, pure non incline a rappresentazioni stereotipate dell'immigrazione, ha pubblicato ieri un ritratto piuttosto inquietante della comunità pakistana della città lombarda. Che, nei suoi rappresentanti istituzionali, sta sicuramente mostrando una presa di distanza finalmente netta e priva di ambiguità rispetto all'omicidio. Negli interstizi dei quartieri multietnici, tuttavia, sembra che le dinamiche tribali tendano a riprodursi, se possibile, con una ferocia persino amplificata dalla diffidenza verso la società di «infedeli» in cui, pure, non si rinuncia a voler vivere. «Qui siamo come in un paese, abbiamo paura dei parenti e degli amici di suo padre. Possono fare del male a chi parla di Sana», dice una donna alla cronista di Repubblica. «Qui» sarebbe Brescia, non Mangowal. L'immigrata aggiunge di aver paura anche «di mio marito, che è un po' tradizionalista, se sa che parlo mi picchia». Omar, un giovane saldatore, spiega: «Io ho studiato qui, conosco la storia dell'Italia e so cos'è la mafia. Ecco, qui è come nel Sud Italia degli anni Cinquanta. Chiedi e la gente scappa, hanno paura per sé e per i parenti al paese, nei villaggi». Ci spiega, inoltre, che «a Milano arrivano i pachistani che hanno studiato, i laureati, ingegneri e informatici», mentre invece a Brescia sbarcherebbero «gli ignoranti, quelli dei villaggi. Tanto devono solo lavorare in fabbrica. Ma è come se non si fossero mai spostati». Ed ecco il capolavoro dell'immigrazione di massa, magnificamente illustrato: abbiamo trasformato l'Italia, o almeno alcune sue città, nel Pakistan. Altro che integrazione, altro che «nuovi italiani»: con la sostituzione dei popoli avviene anche la sostituzione delle società. Davvero un bel risultato.
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