2022-03-16
«Il Morandi crollò per un vizio occulto»
Il ponte Morandi poco dopo il crollo. (Ansa)
La difesa di Castellucci punta sul reperto 132: un blocco di calcestruzzo sulla sommità della pila numero 9, che cedette causando la strage. La perizia del tribunale rivela un grave difetto di costruzione del 1967: nel cemento una bolla d’aria ha corroso l’acciaio.Un vizio occulto. Un invisibile errore compiuto verso la fine dei lavori, nel luglio 1967, nella costruzione dell’ultima delle altissime «pile» del ponte Morandi, una delle strutture verticali dalle quali sarebbero partiti gli stralli di sostegno del viadotto. Un errore che si sarebbe trasformato in una bomba a orologeria, il cui meccanismo ha continuato a ticchettare per oltre mezzo secolo, fino alla mattina del 14 agosto 2018. Sarebbe stato quel difetto nascosto, e non la scarsa manutenzione, la vera causa del crollo del ponte e della morte delle 43 vittime. È questa la carta che intende giocare la difesa dell’ex amministratore delegato della società Autostrade, Giovanni Castellucci, il principale dei 59 imputati per il disastro.Mentre anche ieri è andata avanti l’udienza preliminare, al cui termine il giudice genovese Paola Faggioni dovrà decidere sulle richieste di rinvio a giudizio presentate dai pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno, i difensori di tutti gli imputati puntano il dito contro il «reperto 132», un grosso blocco di calcestruzzo irto di fili d’acciaio corrosi che si trovava alla sommità della pila numero 9, l’ultima a essere realizzata tra il 1966 e il 1967. Quel reperto sarà sicuramente al centro del processo, e ne diventerà il campo di battaglia, perché le perizie confermano che in quel blocco i trefoli d’acciaio presentavano una corrosione molto più grave di qualsiasi altra porzione di macerie. I quattro periti del tribunale hanno stabilito che in quel punto, dei 2.359 fili che attorcigliati tra loro formavano i trefoli, il 19% erano «rotti o completamente corrosi»; il 22% erano corrosi almeno per tre quarti; e il 27% erano corrosi almeno per metà. Il 68% dei fili, insomma, era in pessime condizioni. E infatti è in quel punto preciso che, alle 11,36 del 14 agosto 2018, il video della telecamera di sorveglianza della Ferrometal, ditta alla base del viadotto, mostra che lo strallo si spezza e viene giù tutto. I difensori degli accusati, a partire da Guido Carlo Alleva e Giovanni Paolo Accinni, i due penalisti di Castellucci, intendono usare il reperto 132 per rivoluzionare l’impianto dell’accusa: a far crollare il ponte non sarebbe stata la mancata manutenzione della società Autostrade, ma la cattiva realizzazione del progetto di Riccardo Morandi, il cui appalto nel 1961 fu affidato dallo Stato alla società Condotte. Secondo i piani di Morandi, infatti, il calcestruzzo precompresso - posato in base a una sua tecnica brevettata, ma all’epoca sperimentale - avrebbe dovuto coprire perfettamente l’intera lunghezza degli stralli d’acciaio, i poderosi tiranti obliqui cui era affidata la tenuta del viadotto, e proteggerli da agenti atmosferici e corrosione. Il cemento, infatti, ha un carattere alcalino che lo rende altamente protettivo per l’acciaio. Le perizie, invece, certificano che nelle ultime fasi della costruzione si era verificato un tragico errore: la colata del calcestruzzo, che avrebbe dovuto coprire il punto più alto del maledetto strallo della pila 9, si era inspiegabilmente interrotta. Nella colata si era così creata una cavità: una specie di grossa «bolla d’aria» dove, per decenni, si sono concentrati umidità ed elementi corrosivi. «Per 11 udienze», ha protestato ieri in aula l’avvocato Alleva, «la procura non ha affrontato il tema delle cause effettive del crollo». E Accinni sottolinea: «La vera domanda da porsi è se il difetto costruttivo del reperto 132, che ha fatto crollare il ponte, fosse noto e riscontrabile». La risposta dei legali, in entrambi i casi, è: no. Così, alla Procura di Genova che punta il dito solo sulla manutenzione, contrappongono un’obiezione logica: «È una semplificazione, perché dimentica che tutti gli altri stralli hanno tenuto».Effettivamente, in molte pagine delle monumentali perizie chieste dal tribunale, il colpevole è il reperto 132. I periti scrivono nero su bianco che quel frammento presenta «un rilevante difetto di costruzione», che ha «portato alla formazione di cavità» dov’è stato riscontrato «un elevato tenore di umidità/acque, con contemporanea presenza di elementi aggressivi come solfuri o composti derivati dallo zolfo, e soprattutto cloruri». Aggiungono che proprio in quel punto la guaina, che avrebbe dovuto comunque proteggere i trefoli dall’umidità, si era spostata a valle di circa 160 centimetri, e che nei lavori si era ovviato «con metodi rudimentali, consistenti in un miscuglio di carta da imballaggi, frammenti di legno e iuta, che non sono riusciti a garantire l’impermeabilità». Scrivono anche, i periti, che in quel blocco i trefoli affogati nel cemento «non appaiono disposti con la stessa regolarità» riscontrata in altri stralli, e che nella gettata del calcestruzzo c’è stato «uno spostamento dei cavi che li ha affastellati» in un fascio: un fattore che ha contribuito a infragilire quel punto dello strallo.I periti muovono critiche anche peggiori. In base ai documenti di cantiere di 50 anni fa, sottolineano che il ponte Morandi sarebbe stato «costruito con attrezzature e tecnologie non adeguate alla complessità dell’opera». Sembrano voler suggerire, in particolare, che la pila 9 sia stata curata meno delle altre: è stata «l’ultima a essere costruita» quando ormai «i ritardi erano enormi», realizzata con «un livello di qualità di costruzione inferiore alle altre due» e «con una rilevante carenza di controlli da parte della direzione lavori soprattutto nelle fasi cruciali». Per di più, proprio la pila 9 fu l’unica a non essere «mai interessata da alcuna prova di carico». Sono particolari che inducono Castellucci a ipotizzare che il vizio nel reperto 132 sia stato non solo «occulto», ma addirittura «occultato». La difesa del manager sottolinea che un’altra perizia, eseguita da Paolo Rugarli per uno dei comitati delle vittime del crollo, evidenzia che nelle ispezioni del 1991 «soltanto lo strallo della pila 9 lato mare non fu sottoposto ad alcuna indagine diretta». Mentre in uno studio condotto nel 1994 da alcuni grandi esperti della materia si garantiva che la pila 9 avrebbe resistito almeno fino al 2030, e che solo da quell’anno sarebbe stato opportuno «rivalutare la situazione della corrosione». Possibile? La «bomba a orologeria» in quello strallo sarebbe stata nascosta, forse in vista della privatizzazione delle autostrade del 1999? L’accusa è forte, inquietante. In realtà, la perizia del tribunale annota nelle conclusioni che tra le cause del crollo del ponte rientrano «i controlli e gli interventi che, se eseguiti correttamente, con elevata probabilità lo avrebbero impedito». La difesa di Castellucci obietta che la bolla d’aria era impossibile da scoprire, annegata com’era in circa mezzo metro di calcestruzzo al sommo della pila 9. La battaglia sul reperto 132 è appena cominciata.