2019-11-16
«Il mio ironico invito a fare bambini sbanca il Web grazie alla babysitter»
L'autrice dell'inno alla vita è la fondatrice di Lilliput Emily Mignanelli,: «Si tratta di un nido sperimentale per educare sia i piccoli sia i genitori».«Non fateli i figli. Non fateli che poi vi vengono le occhiaie, le rughe, le smagliature, le bolle di sapone nella borsa, le figurine nei taschini delle camicie e le costruzioni nel letto. Che poi vi rivedrete in loro in ogni azione e avrete un rimando costante del vostro essere. Che poi al posto dei gin tonic vi ritrovate con il latte di riso in una mano e il succo di mela nell'altra e finirete per commuovervi guardandoli dormire, trovando le loro mutande in giro, salutandoli per la prima gita. Non fateli che poi vi ritrovate a non saper gestire alcune situazioni e a pensare a tutte le volte che avete giudicato dentro di voi altri genitori, quando voi i figli non li avevate. Non fateli, perché vi costringeranno a tornare dai vostri genitori e sistemare tutti i sospesi...».Non è un tormentone come Io sono Giorgia (Meloni), ma solo perché non è un brano musicale. E non fatevi ingannare: questo testo, divenuto «virale» sul web con migliaia di condivisioni e commenti (io stesso l'ho ripreso su Twitter e a Virgin Radio: la versione integrale è nel blog HundredsofBuddhas.com) inizia sì con un imperativo categorico «in negativo», ma è un inno «in positivo»: al farli, i figli.Autrice: Emily Mignanelli, 32 anni, madre di due bimbi, fondatrice dell'associazione Lilliput - e della «scuola-comunità dinamica» ad essa collegata, Serendipità - titolare del blog citato e pedagogista.Come le è venuto di scriverlo?«Facciamo un passo indietro. Arrivata quasi a 30 anni, ho avvertito la necessità di fermarmi per ritrovarmi. Stavo conducendo una vita frenetica in cui il mio essere coincideva con il mio fare, era una bella sensazione, ma volevo esser certa che non fosse un'illusione. Dovevo mettere un punto per permettere ai fantasmi di emergere e farci i conti. Il mio compagno e io eravamo reduci da un'esperienza di aborto spontaneo, e quindi si è aggiunta l'esigenza di mettere a fuoco la nostra relazione con un momento di unione profonda, e così siamo partiti con nostro figlio che all'epoca aveva 8 anni».Partiti per dove?«Sei mesi tra India e Nord America, da Manhattan alla California. Ero anche alla ricerca di un confronto: dovevo uscire dalla mia esperienza (ho contribuito alla nascita di Lilliput quando avevo 22 anni) per vederla con lucidità dal di fuori e con maggiore obiettività al rientro. Volevo parlare con chi in giro per il mondo è alla ricerca di nuovi paradigmi educativi partendo dall'osservazione della realtà dei bisogni dei bambini, senza basarsi su posizioni ideologiche rigide a cui rimanere ancorati. E così abbiamo visitato tanti tipi di scuole, da quelle ispirate al pensiero di Krishnamurti a quelle steineriane, a quelle nei boschi in Canada. Alla fine siamo tornati in quattro: durante il viaggio abbiamo scoperto che ero di nuovo incinta, e questa volta la gravidanza è andata serenamente a buon fine».Un tour di sei mesi? Ve lo potevate permettere...«Ovviamente no, per questo abbiamo affittato la nostra casa mentre non eravamo in Italia, in ogni realtà dove siamo stati abbiamo ricevuto ospitalità completa (faceva parte della richiesta che noi facevamo alle scuole in fase di accordi, vitto e alloggio in una casa con bambini frequentanti l'istituto che avremmo visitato) in cambio delle nostre competenze a servizio della comunità educativa. Abbiamo usato ogni singolo centesimo dei nostri risparmi per i biglietti di viaggio». Qual è il nesso con «Non fateli i figli»?«L'esperienza è diventata prima un libro, Hundres of Buddhas, e poi un blog, perché mentre aspettavo il secondo figlio ho continuato a scrivere spunti e appunti che nascevano da una riflessione sul mondo circostante. Far crescere in modo equilibrato un bambino non significa solo occuparsi di lui, ma di capire anche le dinamiche dei suoi genitori, come coppia ma ancora prima come singoli individui. Un viaggio a ritroso che inizia con una domanda apparentemente semplice: “Perché avete deciso di fare un figlio?"».Immagino il campionario: l'orologio biologico, tutti i miei amici ne hanno, mia sorella l'ha già fatto... «Più o meno. Ma “Non fateli i figli" non è un manifesto ideologico. Ho solo messo insieme frammenti di vita vissuta, comportamenti altrui, confessioni e frasi fatte. Alla fine, se devo dirla tutta, avevo deciso di non pubblicarlo, non ero soddisfatta di come lo avevo scritto, ma quando l'ho fatto leggere alla babysitter di mio figlio è stata lei a convincermi: “Accantona gli altri scritti, pubblica questo. Perché funziona". Aveva ragione. Da allora ne sono perseguitata (ride)».Fare figli però non è obbligatorio. Io ho vissuto 55 anni senza farne e sono stato benissimo. Poi quando è arrivato mio figlio, ho scoperto che potevo stare meglio. Però non è che chi non ne ha, per scelta o impossibilità, debba essere - o si debba sentire - colpevolizzato.«Per carità. Ma non capisco chi commenta: “Ah, quindi chi non ha figli non è una bella persona?". Accusa che nessuno si sogna di formulare, infatti nel testo non c'è. Ma dovrebbe essere pacifico che esprimersi su questo argomento necessiti di un minimo di cognizione di causa. Guardi, mi passi il paradosso: è come parlare di tumori. Averlo o non averlo non è la stessa cosa, o no? Ma è del tutto evidente che chi sta lottando con esso si trova alle prese con un'esperienza fisica e psichica che lo sta cambiando, mutando le sue prospettive e priorità. Chi ha la fortuna di non passarci non può quindi sapere cosa significhi. Ma mentre la malattia è un fatto distante (almeno fino a quando non ti capita), sui figli tutti pensano di poter parlare a cuor leggero solo perché nel proprio curriculum esistenziale hanno scritto: sono stato figlio anch'io».Per diventare genitori si deve smettere di esserlo, figli.«Ma non rimuovendo l'esperienza, anzi bisogna guardarla in faccia andando a riprendere la propria infanzia: perché tra il genitore che vorresti essere e quello che in effetti sei, c'è il bambino che sei stato. Diciamocela tutta: fare un figlio è meravigliosamente spaventoso. O spaventosamente meraviglioso». Il suo sogno era diventare madre? «Pur immaginando un futuro con dei figli, ero una ribelle: a 19 anni pensavo solo ad andar via da Osimo. Invece sono rimasta incinta, con il mio compagno che il figlio non lo voleva (lui ne aveva già una, ma alla fine ne abbiamo fatti due, e stiamo ancora insieme) e mi sono allontanata dalla famiglia in cui ero cresciuta: padre fotografo pubblicitario, madre insegnante in una scuola pubblica, sorella più grande. Sono andata via di casa, sono finita a lavorare sulla torre del bunjee jumping nel parco acquatico di Jesolo, e ho vissuto in completa solitudine e profonda immersione in me stessa quella mia prima esperienza da adulta. Lì, ho trovato in me forza e risorse che non credevo di avere».Perché ha fondato Lilliput?«Sono arrivata alla conclusione che la pedagogia non sia la scienza dell'infanzia ma della vita. Quello che saremo discende da ciò che siamo stati. E per non ripetere gli stessi errori, che trasformano l'educazione in una coazione a ripetere gli stessi fuorvianti modelli, abbiamo creato Serendipità, una scuola-comunità dinamica. Ma faccio anche formazione per insegnanti e sostegno educativo per gruppi di genitori».Serendipità: quando facendo qualcosa si inciampa casualmente in qualcos'altro, che altera il percorso della nostra ricerca, e perfino della stessa esistenza.«Esatto. L'associazione Lilliput è nata come un nido sperimentale. Io ero personalmente alla ricerca di qualcosa di diverso per mio figlio, come hanno fatto e stanno facendo tanti genitori. Non trovandolo me lo sono creato. Del resto, l'articolo 33 della Costituzione cosa dice? Che l'insegnamento di arti e scienze è libero, e che enti e privati hanno il diritto di edificare istituti di educazione, perché obbligatoria non è la scuola, ma l'istruzione».Come è strutturata la vostra?«Si divide in due realtà: casa colorata, per bambini da 3 a 6 anni, e casa azzurra, per la fascia elementari e medie. Per ciascuna, ci sono 20 bambini. Ma non ci sono classi: ci sono solo livelli di apprendimento e crescita, non necessariamente collegati al dato anagrafico. Pensateci bene: la scuola è l'unico luogo dove si innesca il pilota automatico e si ragiona per classi di età. Ma se hai 6 anni e sei più avanti? E se al contrario hai 10 anni e sei più indietro? La differenziazione è per aree di approfondimento, che so: la storia e la matematica, secondo il calendario che trovano scritto quotidianamente sulla lavagna. A fine corso i nostri bambini sostengono gli esami di abilitazione alla scuola pubblica. Non siamo neppure una scuola parificata, ma un'associazione che vive del contributo degli associati. E parecchie delle nostre attività sono rivolte agli adulti, insegnanti, genitori e nonni». Cosa significa scuola-comunità dinamica?«La parola scuola è per chi ci lavora. Abbiamo un ruolo ed una responsabilità verso l'istruzione dei bambini che ci vengono affidati. La parola comunità è per i bambini, per ricordar loro che il principio non è “faccio sempre quello che mi pare perché la cosa più importante è ciò che desidero", ma “sono all'interno di una comunità e le mie scelte hanno sempre un peso sugli altri, in positivo e in negativo". La parola dinamica è per il mondo esterno per sottolineare che il nostro approccio è in continuo movimento, che non abbiamo giurato fedeltà a nessun metodo ma solo ai bambini. Che siamo pronti a rivedere l'approccio quando quelle che consideriamo certezze vengono contraddette dall'esperienza, con la necessaria attenzione anche per la dialettica tra i singoli e i singoli che si fanno famiglia. Perché la crescita è un viaggio di formazione e di scoperta: dei nostri figli ma anche di noi stessi».
Il caffè di ricerca e qualità è diventato di gran moda. E talvolta suscita fanatismi in cui il comune mortale si imbatte suo malgrado. Ascoltare per credere.